di Chiara Meistro e Franco Pezzini
Una delle caratteristiche di fondo della saga più nota di Arthur Conan Doyle, quella dell’Arcidetective Holmes – e usiamo volutamente il termine saga, in riferimento a un epos –, sta nella presenza di personaggi di statura autenticamente mitica, veri e propri archetipi. All’epoca di Doyle, le riviste presentano già un certo numero di risolutori seriali di enigmi polizieschi, più o meno carismatici: si pensi ad Auguste Dupin di Edgar Allan Poe, a Monsieur Lecoq di Émile Gaboriau, alla stessa fantasiosa riscrittura narrativa delle avventure di Eugène-François Vidocq, ex-carcerato assurto a fondatore della Sûreté, e a mille altri nomi – oggi spesso dimenticati dalle grandi platee di lettori –, non escluse neppure alcune donne detective, sulla base peraltro dell’attestato arruolamento ottocentesco anche di indagatrici. Ma l’irrompere di Holmes nell’agone è una spallata a tutti gli altri, sia per la genialità di impianti e di sviluppi, sia per le capacità autenticamente letterarie di Doyle (più apprezzabili nei romanzi della saga, è ovvio, che nella prosa breve), sia per una dignità mitica di cui i suoi personaggi si rivelano circonfusi. Ciò non riguarda solo il protagonista: caratteri di emblematicità pervadono anche la “spalla” Watson, alter ego dello scrittore e del lettore; il persino più geniale fratello Mycroft; il doppio nero di Holmes, il professor Moriarty, Napoleone del delitto; e via via gli altri personaggi, tra i quali spicca una donna, Irene Adler. Appare in un solo racconto ma viene citata in altri quattro, e con una tale potenza simbolica da riconoscervi uno dei personaggi-chiave della saga.
Erede dei mille indagatori dell’agiografia (un bacino narrativo dove di rado si pensa di trovare gli antesignani del giallo, per le caratteristiche miracolistiche delle indagini, e invece di estremo interesse sul piano antropologico per definire il profilo del detective), il santo laico Holmes è rigorosamente casto. E non per motivi di rigore etico vittoriano, che pure deve entrarci:
Ogni specie di emozione, e l’amore sopra ogni altra, era aborrita da quel cervello freddo, preciso, mirabilmente equilibrato. Io credo ch’egli fosse la macchina ragionatrice e osservatrice più perfetta che si sia mai vista al mondo; ma come innamorato si sarebbe messo in una posizione falsa. Non parlava mai delle cosiddette dolci passioni se non con scherno o irrisione. Per l’osservatore che era in lui, esse erano preziose, costituivano ottimi mezzi per togliere il velo ai motivi e alle azioni umane: ma per il ragionatore sperimentato ch’era altresì in lui, ammettere tali intrusioni nella struttura delicata e sapientemente composta del proprio carattere, sarebbe stato apportarvi un elemento disgregatore che avrebbe gettato l’ombra del dubbio su tutti i suoi risultati mentali. Per una natura come la sua, un’emozione violenta era peggio che “grattare” malamente uno strumento sensibile, o rompergli una delle sue potentissime lenti d’ingrandimento [osservazioni, queste ultime, che per uno specialista in oftalmologia come Doyle assumono particolare rilevanza].
(cfr. “Uno scandalo in Boemia”, trad. di Maria Gallone, in Sir Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes in quattro romanzi e ventiquattro racconti, a cura di Alberto Tedeschi, Mondadori, Milano 1965)
Anche se di fatto ci accorgeremo che Holmes non è privo di emotività – anzi è repressa, e dunque è più violenta –, ecco spiegati dei buoni motivi. Eppure, una donna, una sola, riesce a scalfire quell’indifferenza, e il fatto che Doyle ne parli in “Uno scandalo in Boemia” (originariamente edito il 25 giugno 1891 sul numero di luglio dello Strand Magazine), cioè nel primo racconto breve della prima raccolta, Le avventure di Sherlock Holmes (1892), può dirci qualcosa. Doyle, come peraltro Watson, è un affettuoso, un passionale (mosso dal senso dell’onore e da ciò in cui crede, persino nelle battaglie più impopolari o discutibili): ancora, come Watson, apprezza il gentil sesso e si sposa due volte. Holmes si contenta di continuare a considerare la donna al centro di questo racconto come
la Donna per eccellenza. Raramente l’ho inteso menzionarla altrimenti: ai suoi occhi ella eclissa tutte le altre appartenenti al bel sesso [To Sherlock Holmes she is always the woman. I have seldom heard him mention her under any other name. In his eyes she eclipses and predominates the whole of her sex]. Non ch’egli provasse per Irene Adler un’emozione che potesse far pensare all’amore […] Tuttavia, per lui non esisteva che una donna, e questa donna era la defunta Irene Adler, di dubbia e discutibile memoria [And yet there was but one woman to him, and that woman was the late Irene Adler, of dubious and questionable memory].
Notiamo questi cenni di Watson, vittoriano conformista: “di dubbia e discutibile memoria” sembra ricollegarsi alla fama di avventuriera che la circonfonde, concetto vicino a quelli di arrampicatrice e di cortigiana. Più problematico è il termine “defunta” (tra il 1888 del caso e il 1891 della pubblicazione da parte di Watson), se interpretiamo così il termine late; questo però potrebbe significare soltanto “precedente/già nota come”, visto che Adler era il cognome di Irene prima del matrimonio. Interpretandolo invece come “defunta”, è legittimo farsi qualche domanda sul precoce ritiro dalle scene del canto, forse per qualche grave problema di salute; oppure, ipotizzare qualcosa di persino più tragico come una vendetta politica per farla tacere.
L’episodio che la riguarda avviene più precisamente nel marzo 1888, quando Watson si è appena sposato una prima volta e gode la gioie del focolare domestico, mentre Holmes, “con la sua mentalità di bohémien [interessante, come vedremo, la scelta del termine, che lo accomuna parzialmente ad Irene Adler] odiava ogni forma di sistemazione”. L’Arcidetective ha inoltre applicato la sua “selvaggia energia” per risolvere una serie di casi, tra i quali “un’importante missione per la casa regnante di Olanda” (il particolare, di nuovo, non è insignificante). Una sera, Watson passa per Baker Street, nota alla finestra la silhouette dell’amico che cammina nella stanza, capisce che dev’essere al lavoro su qualche caso e gli fa visita. Come al solito, resta basito dalle deduzioni di Holmes su di lui; viene poi informato che, in grazia degli apprezzati “servigi a una grande casa regnante europea” (appunto), riceverà la visita di un signore mascherato per “un argomento della massima importanza”. Altre deduzioni lo portano a capire che la carta del biglietto è fabbricata in Boemia e che lo scrivente è tedesco; quando, come atteso, suonano al campanello, Holmes chiede al suo Boswell di restare.
Il racconto è noto, e pone le basi per uno schema poi riproposto in quasi tutti i testi brevi: dopo le due avventure lunghe di Uno studio in rosso (1887) e Il segno dei quattro (1890), Doyle trova una nuova misura con una forma peculiare, in cui un ospite sottopone un caso che Holmes risolverà. Stavolta l’elegantone mascherato che arriva da lui si presenta come il boemo conte von Kramm (ma aggiungerà che è uno pseudonimo), ed esige preliminarmente due anni di segretezza sulla vicenda che verrà a esporre e che “potrebbe avere profonde ripercussioni sulla stessa storia europea”, coinvolgendo in un possibile scandalo “la Casa di Ormstein, dinastia ereditaria del principato di Boemia”.
Per la cronaca, si tratta di una dinastia del tutto inventata, farlocca quanto quella della Ruritania de Il prigioniero di Zenda di Anthony Hope (1894), visto che la Boemia è invece al tempo parte dell’impero austroungarico degli Asburgo, coronati anche come re di Boemia. Ma Doyle, citando in precedenza Holmes come un bohémien nel senso di anticonformista, ci ha fornito un indizio interessante: dall’uso di quel termine di provenienza per i cosiddetti zingari – nel senso di gente vagabonda, di vita irregolare – diffuso a Parigi nell’Ottocento, il successo del quasi-romanzo di Henri Murgier Scènes de la vie de bohème (1851, citato in Uno studio in rosso), su un intreccio di storie nel Quartiere Latino, lo ha condotto rapidamente a un’estensione romantica. Allora non basta l’avventurosa Ruritania: in scena – come ci aspettiamo dal riferimento a un possibile scandalo – è un favoloso paese mitteleuropeo da comportamenti un po’ sopra le righe & dinamiche galanti come il Pontevedro de La vedova allegra di Franz Lehár (1874, prima teatrale a Vienna nel 1905), dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac (1861), e ispirato al Montenegro (anche se la versione francese cita il paese come Marsovie). Insomma, Holmes ha già capito di trovarsi “in presenza di Guglielmo Gottsreich Sigismondo von Ormstein, granduca di Cassel-Felstein, e re ereditario di Boemia”, “venuto in incognito da Praga”.
Cinque anni prima, durante una “prolungata visita a Varsavia”, l’allora principe ereditario ha avuto “occasione di conoscere Irene Adler, la celebre avventuriera”, che dallo schedario di Holmes risulta “Nata nel New Jersey nel 1858” (dunque una trentenne americana, più disinvolta e moderna delle signore inglesi), già contralto, attiva alla Scala e “prima donna all’Opera Imperiale di Varsavia” (cioè al Grande Teatro-Opera Nazionale, inaugurato nel 1833), ma ritiratasi dalla carriera lirica e attualmente abitante a Londra (Briony Lodge, Serpentine Avenue, St. John’s Wood: il riferimento nel nome di strada fittizio alla Serpentine – il Serpentine Lake di Hyde Park così è detto per la forma – sembra richiamare i classici quanto fatali abbinamenti tra donna e serpente nell’arte dell’epoca). Una corrispondenza intima e, soprattutto, una foto dei due preoccupa il re: la signora non è disposta a vendere la foto, ed è sfuggita a ben cinque tentativi di furto organizzati dalla corona.
Il fatto è che ora il re sta per sposarsi con “Clotilde Lothmann di Sachsen-Meningen, secondogenita di un re scandinavo” (letteralmente di Scandinavia, titolo non esistente in sé perché Svezia e Norvegia erano al tempo unite; comunque, il vero casato di Saxe-Meiningen si colloca in Turingia); di lei e della sua famiglia sono noti i severissimi principi morali, per cui teme lo scandalo che condurrebbe alla rottura del fidanzamento. Per quanto Holmes sia piuttosto divertito, il re non riesce a condividerne il buonumore, visto che Irene Adler minaccia di spedire la foto all’irreprensibile avversaria. “Lei non la conosce, ma quella donna [appunto Irene] ha un’anima di acciaio. Ha un viso meravigliosamente femminile, ma un cervello dotato di una risolutezza che pochi uomini possiedono”: sarebbe disposta a fare qualunque cosa. Il pericolo è dunque reale e, nello specifico, la donna conta di spedire la foto il giorno ufficiale del fidanzamento…
Ci si è posti naturalmente la questione di qualche possibile modello storico di Irene. Uno, spesso citato e in effetti plausibile, è quello di Lola Montez (1821-1861), figlia di un parlamentare irlandese divenuta celebre danzatrice, cortigiana frequentatrice di Alexandre Dumas figlio e dell’editore Alexandre Dujarier, poi amante di Ludovico I di Baviera, che la fece contessa di Landsfeld e le permise di sgomitare in politica. Concluderà la carriera come attrice, con lunghe tournée teatrali – le ultime a impianto moraleggiante – tra Stati Uniti e Australia, morendo a Brooklyn a trentanove anni di sifilide (ma altre fonti parlano di un’infezione ai polmoni). Insomma, è presto stabilito un nesso con l’americana Irene, nata in ipotesi nel New Jersey nel 1858. Non manca tuttavia un altro profilo più vicino al mondo britannico, quello cioè della bella attrice Lillie Langtry, amante del principe di Galles (il futuro Edoardo VII) e poi con clamore di vari aristocratici, in effetti nata nel Jersey. Altri hanno invece suggerito Ludmilla Stubel, danzatrice a Londra, presunta amante e poi moglie dell’arciduca Giovanni Salvatore d’Austria, del ramo toscano degli Asburgo-Lorena, per un periodo anche principe di Boemia. Dopo la rinuncia a titoli, rango e privilegi in seguito alla storiaccia di Mayerling (1889) – trattasi del suicidio-omicidio del cugino arciduca Rodolfo, a lui molto legato anche per comuni convinzioni liberali, per le quali venivano fatti sorvegliare dalla polizia –, la sua sparizione con la moglie nelle acque di Capo Horn (1890) farà moltiplicare le voci sulla loro presunta scelta di nuove identità e favorirà l’avvicendarsi di una serie di truffatori pronti a spacciarsi per il duca scomparso. Dalla Mitteleuropa lieve di valzer e operette, il caso che “potrebbe avere profonde ripercussioni sulla stessa storia europea” finisce in effetti col traghettarci verso storie molto più nere e torbide, tra morti strane e voci di cospirazioni internazionali, in una sorta di strategia della tensione che prelude al primo conflitto mondiale.
Watson è tanto abituato a veder trionfare il suo amico da restare molto perplesso quando il giorno dopo un Holmes travestito da staffiere gli ricorda ridendo la propria disavventura. Dagli altri che attorno a casa di lei si occupano di cavalli ha appreso
che ha fatto girar la testa a tutti gli uomini che abitano da quelle parti. Pare che sia l’essere più grazioso del pianeta, questo almeno è il giudizio unanime di tutti quanti gli staffieri della Serpentine. Conduce una vita tranquilla, canta nei concerti, esce in carrozza ogni giorno alle cinque precise, e ritorna a casa alle sette precise, per l’ora di cena. Per il resto esce di rado, tranne che per cantare.
A frequentarla è solo, molto spesso, un belloccio bruno, Godfrey Norton, avvocato, che arriva ed esce trafelato dalla casa di lei poco dopo, gridando al vetturino di correre alla chiesa di santa Monica in Edgware Road. Poco dopo esce la signora, che pure piomba in un landò ordinando di andare alla stessa chiesa. Ovvio che ci si diriga anche Holmes, con una terza vettura. Il risultato è di trovarsi arruolato come testimone alle nozze tra i due…
Il rischio è che ora Irene e il marito se ne partano per la luna di miele, e Holmes chiede la collaborazione dell’amico. Quindi, consumato un rapido pasto, partono assieme per l’avventura a casa della novella sposa. Per recarsi sul posto senza destare sospetti, Holmes si trasforma in un bonario uomo di chiesa. Come rimarca Watson, “il teatro aveva perduto un grande artista”, quando Sherlock aveva scelto di diventare investigatore privato: di nuovo, lo si avvicina alla donna di spettacolo Irene. Le dimensioni della foto fanno escludere che la porti addosso, ma lui ha pensato come fargliela esporre… All’arrivo della signora, una piccola rissa scoppia tra i mendicanti per il ruolo di chi le aprirà la portella della vettura, certo con mancia: Holmes si tuffa in mezzo per proteggerla e cade a terra con il viso macchiato di sangue. Irene si preoccupa allora per lui, e lo fa portare sul divano del salotto; a quel punto, secondo gli accordi, Watson butta in casa dalla finestra aperta un razzo da fumo e comincia a gridare “Al fuoco!”.
Poco dopo, viene raggiunto da Holmes che spiega: i rissanti erano scritturati, il presunto sangue era pittura rossa e, col rischio d’incendio, la signora si è tuffata a mettere al riparo la preziosa fotografia nascosta dietro un pannello scorrevole, che Holmes ha così individuato. L’Arcidetective conta di tornare lì col re la mattina seguente, sul presto, così da essere introdotti in casa in attesa della signora, che verosimilmente a quell’ora non sarà ancora alzata né pronta per ricevere ospiti; in questo modo, fornirà al suo cliente il tempo necessario per recuperare di persona la foto che tanto anela… Ma, arrivati a Baker Street, l’irriconoscibile ecclesiastico si sente salutare: tra la folla, a Watson pare di poter attribuire il saluto a un giovanotto snello con uno spolverino. “Non mi è nuova quella voce” borbotta Holmes, domandandosi chi diavolo possa essere.
I due amici dormono a Baker Street e alle otto, durante la colazione, compare il re, preavvisato con un telegramma. Si recano subito a Briony Lodge, e Holmes comunica che Irene si è sposata, evento che può tranquillizzare il monarca: se ama il marito, non c’è motivo che minacci l’unione al trono boemo. “Questo è vero. Eppure… Cosa vuole!” borbotta il re. “Come avrei desiderato che fosse appartenuta al mio rango! Che regina meravigliosa sarebbe stata!” Parole che assumono quasi una valenza profetica, dal momento che, una volta giunti a destinazione, trovano solo una donna anziana che li stava aspettando: la coppia se n’è partita per il continente. Alla desolazione del re, Holmes piomba in salotto, apre il pannello segreto e ne trae una lettera e una foto. Non si tratta però di quella incriminata, poiché ritrae Irene da sola, in abito da sera, mentre la lettera è per l’Arcidetective.
La donna l’ha scritta la mezzanotte precedente. Appellandolo “Mio caro signor Sherlock Holmes”, gli riconosce di essere stato “davvero molto abile”; l’ha colta del tutto alla sprovvista, e all’inizio non nutriva sospetti; poi, accorgendosi di essersi tradita, ha iniziato a riflettere. E qui già si è guadagnata due punti: ha soddisfatto il narcisismo di Holmes lodandolo senza riserve (per quanto sia una captatio benevolentiae basata su motivi concreti), e ha accennato a un’operazione razionale, la riflessione, capace di superare tranquillità superficiali. Una certa stima è insomma già acquisita.
In effetti, l’avevano messa in guardia contro l’unico “agente privato” a cui il re si sarebbe rivolto; ciononostante, lui è riuscito a farle rivelare “quel che voleva sapere”. Certo, le sembrava assurdo dubitare di un ecclesiastico
dall’aspetto tanto cortese e affabile. Ma non deve dimenticare che sono attrice, e che come tale ho una lunga pratica di travestimenti e truccature [e di nuovo Holmes riconosce una propria simile]. L’abito maschile non è per me una novità, e spesso me ne servo approfittando di tutti i vantaggi che esso offre [sono frasi che oggi non ci colpiscono, anzi socialmente è assai più accettato un uso di abiti maschili da parte di una donna che di femminili da un uomo; tuttavia, il crossdressing nel mondo vittoriano è ancora percepito come una stranezza un po’ disturbante, e i vantaggi spesso offerti possono intendersi in modo diverso]. Perciò mandai John, il mio cocchiere, a sorvegliarla, mentre io correvo di sopra: mi infilai il mio vestito da passeggio, come lo chiamo, e scesi proprio nel momento in cui lei se ne andava.
Per farla breve, la seguii sino alla porta di casa sua, assicurandomi così di aver proprio a che fare con il celebre Sherlock Holmes. Allora, un po’ imprudentemente, le augurai la buona sera e mi affrettai quindi al Temple, dove avevo appuntamento con mio marito.
Considerata la statura dell’avversario, i due decidono che è il caso di filare. Quanto alla foto, il re può star tranquillo: lei ama, riamata, “un uomo molto migliore di lui”.
Il re può agire come gli pare e piace, senza dover temere la vendetta della donna che egli ha molto crudelmente offesa. Conservo la fotografia unicamente come garanzia, e come un’arma, che mi potrà sempre difendere, caso mai, in avvenire, egli pensasse di compiere dei passi contro di me. Gli lascio però un mio ritratto, che forse gli farà piacere di conservare, e mi professo, egregio signor Sherlock Holmes, sua devotissima
Irene Norton nata Adler
“Che donna! Che donna!” commenta il re. “Non ve l’avevo detto che era una donna pronta, risoluta come poche? Non sarebbe stata davvero una regina meravigliosa? Peccato che non appartenesse al mio rango!” Al che Holmes ribatte freddo: “Da quanto ho potuto capire del carattere della signora, infatti, mi sembra che il suo fosse un rango molto diverso da quello di Vostra Maestà!”. Diverso e superiore, implica l’Arcidetective, ammirato (il re non coglie). Holmes si duole soltanto di non aver concluso la cosa come il re sperava, ma quello lo tranquillizza: al contrario, “La questione non poteva essere sistemata meglio. Io conosco la parola di Irene: è sacra [a differenza della sua, potrebbe forse implicare]. Quella fotografia è ormai al sicuro come se fosse stata bruciata”. Poi chiede a Holmes come possa sdebitarsi, gli offre persino l’anello che ha al dito, “a forma di serpente, ornato di un magnifico smeraldo”: ed ecco il secondo serpente di questa storia. Ormai ne abbiamo forse decodificato il simbolo, non di insidia della donna anguiforme ma – pensando ai ruoli di Holmes, testimone di nozze e poi ecclesiastico, in un’enfasi sulla simbolica religiosa & nuziale – legato al pateracchio nel giardino dell’Eden dove Adamo non fa certo una bella figura. “La donna che mi hai messo a fianco mi ha offerto quel frutto e io l’ho mangiato” (Gn 3,12, trad. interconf. LDC-ABU): ben chiaro è il lamentoso fallimento del rapporto tra sessi da cui, al contrario del re, Irene esce benissimo.
“Vostra Maestà possiede un oggetto che io stimo ancora più prezioso di quell’anello” replica Holmes, l’altro Adamo, quello ben riuscito (che non a caso, come “il nuovo Adamo” paolino, conoscerà più avanti una passione e una morte cristica per sconfiggere il vecchio serpente Moriarty). Al monarca sbalordito chiede la foto di Irene, siglando così la chiusura dell’affare con un inchino, ma “ignorando la mano che il re gli tendeva”.
Ed ecco come fu soffocato uno scandalo che minacciava di far crollare il trono di Boemia, e come per una volta i piani di Sherlock Holmes furono buttati all’aria dall’intelligenza di una donna. Egli soleva burlarsi del cervello delle donne; ma da allora non l’ho più inteso scherzare sull’argomento. E quando ricorda Irene Adler, o quando accenna alla sua fotografia, ne parla sempre come della Donna per eccellenza, con la D maiuscola! [it is always under the honourable title of the Woman.]
Impossibile non aver voglia di immaginare come apparisse Irene nella foto ottenuta da Holmes come compenso; di certo, si può trovare una graziosa suggestione in una delle illustrazioni che l’artista francese Martin Van Maële (1863-1926) ha realizzato per il racconto (Un scandale en Bohême, 1905-1906, Société d’Édition et de Publications, Collection Les Aventures de Sherlock Holmes/ Collection Rouge, n. 5). La Donna è ritratta all’aperto, in posa: appoggia lievemente il polso reclinato allo spigolo di un largo pilastro sormontato da un vaso monumentale di stile classicheggiante, da cui fuoriesce quella che assomiglia a una pianta rampicante. La sua espressione serena, addolcita dall’accenno di un sorriso, fa risaltare ancor di più la sua eleganza, già ben evidenziata dalla foggia dell’abito e dagli accessori: un caratteristico cappello piumato a tesa larga poggia sull’acconciatura a chignon; il corsetto nero spicca sul candore del tessuto del vestito, caratterizzato da maniche a sbuffo arricciate e da una gonna a strascico con tre file di balze; quella che sembra una spilla a fiore è appuntata sullo scollo morbido; un sofisticato scialle di pelliccia è adagiato sulle braccia e, infine, una delle mani guantate tiene il manico degli occhiali a lorgnette. Quest’ultimo dettaglio, assolutamente congruo con il suo personaggio, la fa apparire come in procinto di presentarsi a una soirée a teatro.
Divertenti, ma meno rilevanti ai nostri fini, sono le mille apparizioni di Irene – spesso a suggerire qualche tipo di relazione sentimentale tra lei e Holmes –negli apocrifi sherlockiani (Carole Nelson Douglas, John Lescroart, Laurie R. King, Nicholas Meyer, Kim H. Krisco, Alessandro Gatti…), in fumetti, anime e manga, in certa critica creativa (teorizzante per esempio che il figlio di Irene e Sherlock sia Nero Wolfe: John D. Clarke, Ellery Queen, William S. Baring-Gould…), o nella miriade di richiami pop più o meno obliqui in storie anche lontanissime. Un certo numero di versioni radiofoniche del racconto (compresa una del 1945 con i mitici Basil Rathbone e Nigel Bruce) ha permesso di ascoltare anche la voce di Irene Adler. Ben più impattante sull’immaginario è però un altro tipo di narrazioni, cioè le trasposizioni più o meno fedeli – o invece rigorosamente apocrife – a teatro e poi sugli schermi.
A teatro, William Gillette utilizza anche “Uno scandalo in Boemia” nel plot della sua play Sherlock Holmes, premiered 1899; con il permesso del pragmatico Doyle – soddisfatto degli incassi – attribuisce al protagonista anche un rapporto sentimentale con una Alice Faulkner (Katherine Florence), parzialmente ispirata a Irene. La play verrà riproposta per anni a teatro, e da Orson Welles alla radio. A partire dal 1965, con la prima al Broadway Theatre, il racconto doyliano ha una parte importante in un’altra sceneggiatura mista, quella di Jerome Coopersmith per il musical Baker Street con Fritz Weaver come Sherlock Holmes e Inga Swenson come Irene. Lo spettacolo avrà ampio successo.
Per gli schermi, a non citare che le trasposizioni principali e più dirette, la prima versione sembra del 1921, muta: si tratta della britannica A Scandal in Bohemia di Maurice Elvey, con Eille Norwood come Holmes, Hubert Willis come Watson e Joan Beverley nei panni di Irene. Poi passano gli anni.
“A Scandal in Bohemia” figura nella serie televisiva BBC Sherlock Holmes del 1951, con Alan Wheatley per Holmes, Raymond Francis come Watson e la vezzosa sudafricana Olga Edwardes come Irene. A dispetto invece di una completa libertà di trama, tra le interpretazioni più filologiche quanto a connotati personali è l’Irene Adler di rara eleganza interpretata da Charlotte Rampling nel televisivo Sherlock Holmes a New York di Boris Sagal, USA 1976, con Roger Moore e Patrick Macnee come Holmes e Watson, e un memorabile John Huston come Moriarty. Questo prende in ostaggio il figlio di Irene, e Sherlock dovrà intervenire: emergerà allusivamente che il padre è l’Arcidetective.
Le versioni si moltiplicano negli anni Ottanta, a partire dalla serie televisiva sovietica The Adventures of Sherlock Holmes and Dr. Watson (Приключения Шерлока Холмса и доктора Ватсона) di Igor Maslennikov, dove nella quarta di cinque parti, “The Treasures of Agra” (Приключения Шерлока Холмса и доктора Ватсона: Сокровища Агры)”, 1983, si compenetra in chiave di flashback anche “Uno scandalo in Boemia”. Vasily Livanov è Holmes, Vitaly Solomin è Dr. Watson, mentre Larisa Solovyova è Irene. Dell’anno dopo è l’episodio “A Scandal in Bohemia” per la famosa serie televisiva britannica The Adventures of Sherlock Holmes della Granada con Jeremy Brett con Holmes; a interpretare una fine e sofisticata Irene è Gayle Hunnicutt. Dello stesso anno, sempre per la televisione, è il godibile apocrifo La maschera della morte (The Masks of Death) di Roy Ward Baker, Regno Unito 1984: una Irene Adler anziana e vedova (Anne Baxter) causa qualche irritazione a un Holmes vecchio, bisbetico ma ancora geniale interpretato da Peter Cushing accanto a John Mills come Watson. Il caso stavolta riguarda loschi progetti tedeschi in un clima prebellico.
Ancora televisivo è Sherlock Holmes and the Leading Lady di Peter Sasdy, Regno Unito | Francia | Italia | USA 1991, che mostra Holmes e Watson (Christopher Lee e nuovamente Patrick Macnee) recarsi a Vienna per recuperare piani e prototipo di un’arma rubati, e ritrovare lì la bella Irene (Morgan Fairchild), cantante d’opera. Nella vicenda compare anche Freud (John Bennett). In compenso, l’ex-Agente speciale Macnee torna – eccezionalmente – nel ruolo di Holmes in The Hound of London di Gil Letourneau e Peter Reynolds-Long, Lussemburgo | Canada 1993, con John Scott-Paget come Watson, Carolyn Wilkinson come Irene Norton (il nome da sposata), e ci sono anche il re e la regina di Boemia.
Di nuovo un mix del racconto-base con altri è The Royal Scandal di Rodney Gibbons, USA 2001, con Matt Frewer come Holmes e Kenneth Welsh come Watson: la cantante d’opera polacca Irene è l’effettivamente polacca Liliana Komorowska. Della BBC è invece Sherlock Holmes and the Baker Street Irregulars di Julian Kemp, 2007, con Jonathan Pryce come un Holmes in crisi e Bill Paterson quale Watson; qui Irene Adler (Anna Chancellor) è la cattiva.
Assolutamente incantevole, e presentata come abilissima ladra e agente mercenaria per conto terzi più che come avventuriera/cortigiana, è la Irene di Rachel McAdams nei film di Guy Ritchie Sherlock Holmes, Regno Unito | USA | Australia 2009, e Sherlock Holmes – Gioco di ombre, Regno Unito | USA 2011: divorziata da Norton, in passato ha avuto una relazione con Holmes (Robert Downey Jr., affiancato da Jude Law come Watson), che nel primo film le salva la vita. Ha però commesso l’errore di lavorare per Moriarty (Jared Harris), che nel sequel, giudicandola di scarsa affidabilità, la avvelena. A fine 2021 si attende un terzo film, e qualcuno ha parlato di un ritorno di Irene: risulterebbe graditissimo, tanto sono deliziose personaggio e attrice; tuttavia, dato che sembrava morta, non sarebbe chiaro come (un flashback o, più opportunamente, una finta morte, come quella di Holmes? Di certo, aver bevuto una tazza di the in presenza di Moriarty non si può non considerare un gesto davvero troppo ingenuo per una donna del suo calibro, per cui è lecito supporre – o perlomeno sperare – che si sia trattato di un escamotage per sfuggirgli. D’altro canto, bisogna considerare un dato che gioca assolutamente a sfavore dell’ipotesi di una rediviva Irene: a inizio film, Watson segnala attraverso i suoi scritti che corre l’anno 1891, ovvero la data in cui, stando all’incipit del racconto già diffusamente analizzato, la donna potrebbe essere defunta).
Tornando a serie televisive, rimarchevole è l’Irene Adler dello Sherlock di Steven Moffat e Mark Gatiss, Regno Unito 2010-2017, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman come Holmes e Watson: qui, nella puntata “Scandalo a Belgravia” (prima della seconda stagione, 2012), l’avventuriera è una fascinosa dominatrix con un quid di serpentino (Lara Pulver, la feroce vampira Semira di Underworld: Blood Wars, 2016); nel cellulare dispone di foto pericolose per la sicurezza del paese, visto che ritraggono una donna della famiglia reale. Verrà data per morta, ma sopravvive, e ama Holmes…
Altra serie, altro volto. In Elementary, USA 2013-2015, ambientato nella New York contemporanea, Sherlock Holmes – Jonny Lee Miller, affiancato da Lucy Liu nei panni dall’ex chirurgo Joan Watson – ha un rapporto disturbato con la pittrice e ladra Irene Adler, in realtà l’arcicriminale Jamie Moriarty (Natalie Dormer), che ha avuto una relazione con lui sotto falso nome, ma ha poi ucciso quell’identità facendolo precipitare nell’abuso di stupefacenti. I sentimenti restano però tormentati anche dopo che lui ha appreso la verità…
Nella serie televisiva russa Sherlock Holmes (Шерлок Холмс), 2013, con Igor Petrenko come Holmes e Andrei Panin nel ruolo di Watson, a interpretare Irene, che ha un ruolo di rilievo, è la bella Lyanka Gryu, in effetti incantevole di una freschezza fin troppo giovanile.
Molte di queste versioni riportano intrecci romantici tra Irene e Sherlock, a dispetto della lettera del racconto. L’idea di un’avventuriera – potenzialmente una delinquente – in una liaison con l’Arcidetective soddisfa il piacere narrativo che è in ciascuno di noi, ma non corrisponde al tipo di rapporti suggeriti da Doyle. Va però anche detto che, con ogni narrazione di fiction in soggettiva, e tanto più in quelle nevrotiche di età vittoriana, esiste lo spazio per il sospetto, visto che Watson non accetterebbe a cuor leggero un simile innamoramento dell’amico. Non perché i due siano stretti da un esclusivo rapporto holmesexual, come qualcuno ha fantasiosamente suggerito, o invece forse proprio per il tipo di amicizia virile che li lega, con tutti i pregiudizi di una cultura. Non a forzare dunque verso un Holmes in love, ma piuttosto a illuminare un mondo di attrazioni che per uomini adulti (e vittoriani) come i nostri due eroi passano al filtro di infinite censure.
Facciamo un passo indietro: in fondo, in che modo Irene è potuta risultare tanto eccezionale a Sherlock? Si sono visti ben poco, lui non ha brillato in questo caso e lei in fondo si è dimostrata accorta, diciamo pure brillante, ma non ha compiuto nulla di così eclatante, se non continuare a tutelarsi (come, d’altra parte, si poteva prevedere dalla presentazione che ne aveva fatto il re di Boemia). La risposta più immediata è: perché l’ha battuto, e lui – misogino com’era – è rimasto colpito. Forse, però, la spiegazione è più ampia e più sottile. Torniamo al sottofondo edenico del racconto. “Poi Dio, il Signore, disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo. Gli farò un aiuto, adatto a lui” (Gn 2,18, LDC-ABU), anche tradotto (CEI/Gerusalemme) “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Nella Bibbia di Re Giacomo, la versione che Doyle conosce, la frase suona: “It is not good that the man should be alone; I will make him an help meet for him” (qualcosa come “gli farò incontrare un aiuto per lui”). E quando Dio presenta all’uomo l’help […] for him, quello esclama:
Questa sì!
È osso delle mie ossa,
carne della mia carne.
Si chiamerà: Donna [ʾîššāh]
perché è stata tratta dall’uomo [ʾîš]. (Gn 2,23)
“Non è bene che l’uomo sia solo”: Sherlock è solo, tanto più ora che l’amico si è sposato. Certo, non lo ammetterebbe mai, ma la sua richiesta a Watson di essere presente è, per il registro del personaggio, una supplica affettuosa.
“[…] un aiuto che gli sia simile”: come accennato, troviamo alcune robuste similitudini tra Irene e Sherlock, a partire dal registro bohémien. Di più, “[…] un aiuto, adatto a lui”: è possibile che, per il palpito di qualche istante, Holmes si sia domandato come sarebbe avere accanto una socia del genere, adatta alla vita di indagini che lui conduce? Ipotesi irrealizzabile sul piano sociale: il modello femminile vittoriano punta assai più al tipo della moglie di Watson, Mary Morstan, che dopo la sua entrata in scena ne Il segno dei quattro emerge defilatissima, solo a tratti, e muore in fretta. Il dottore sembra sposarsi una seconda volta, ma di questa signora – che possiamo immaginare ancora più convenzionale e forse passatella (almeno secondo i canoni d’epoca, al tempo la gioventù finiva presto) – non sappiamo nemmeno il nome. Di norma, in quell’ambiente, le donne restano tra salotto e cucina, consumandosi di preghiere – fino alla malattia e alla morte, grandi topoi della raffigurazione della donna vittoriana – per la salvezza dei propri partner tra le bufere del mondo. Irene si comporterebbe in modo molto diverso. D’altra parte, per una realtà come quella vittoriana, lei è un tipo, non un modello. E in fondo, sposandosi, si sistema con un convenzionale professionista, non con un uomo simile a lei (pensiamo del resto all’eccezionale Mina Murray, in Dracula, moglie di un altro opaco avvocato, Jonathan Harker).
Di fronte alla prospettiva – un attimo, un sogno – di una partner di lavoro ed eventualmente di vita capace di avere le sue specialissime caratteristiche, ecco allora la frase di Holmes, che il povero Watson inquadra fino a un certo punto: “Si chiamerà: Donna”, cioè “To Sherlock Holmes she is always the Woman”, che noi traduciamo spesso – a senso e correttamente – “la Donna per eccellenza” ma è la donna, ʾîššāh, virtualmente accanto all’ʾîš/Holmes in quell’Antieden che è la Londra vittoriana. Luogo da cui lei, come la prima donna (ed è tentatore, anche se forse azzardato, l’abbinamento alla primadonna teatrale), si allontana.
Come sappiamo, Doyle riceve un’educazione religiosa e col tempo se ne distacca: tuttavia, i sottotesti simbolici biblici, e l’impatto di un certo tipo di linguaggio, spiccano nel tessuto dei suoi testi come di quelli di Stoker e di tanti altri autori britannici “di genere” (con tutte le virgolette del caso) tra il Sette e il Novecento. A rivelare non criptoconfessionismi ma l’importanza di un legato culturale, di un linguaggio potente per esprimere anche dinamiche della modernità.
Ovvio, immaginare amori tra Irene e Sherlock banalizzerebbe il quadro. La straziante impossibilità che resta a monte di una simile tentazione di Holmes si consuma nel quadro della sua infelicità nevrotica da eroe romantico. In ogni caso, il magma di emozioni che un Holmes può provare nel profondo, al di là di tutti i velami e le maschere di un ruolo, di opportunità sociali, di eventi dell’esistenza (Irene in fondo si è sposata ed è partita), il fedele Watson, che pure lo conosce tanto bene, non può essere in grado di coglierlo.