“Quando si ha occasione di scambiare uno sguardo con un operaio sia che lo si incontri passando, che gli si chieda qualcosa, o che lo si guardi mentre lavora sulla sua macchina la sua prima reazione è sempre il sorriso. È una cosa bellissima. Una cosa simile accade solo in fabbrica.”
(Simone Weil, La condizione operaia)
Le cosiddette morti bianche non si sono risparmiate di colpire l’Italia sin da inizio anno; la maggior parte di queste sono state causate da una carenza degli impianti di sicurezza nelle strutture. È il caso di Luana d’Orazio, operaia ventiduenne che a maggio ha perso la vita nel pratese. Le indagini hanno rilevato che al momento dell’incidente i macchinari erano a velocità massima, che “la ragazza sarebbe stata trascinata nel momento di massima velocità dell’orditorio, non in quella lenta alimentata manualmente” e che i dispositivi di sicurezza sono stati trovati disattivati anche in altri macchinari dell’azienda “per evitare dei rallentamenti di produzione”, come riferisce la Procura di Prato. Accanto alla sua storia ci sono quelle di Lala El Harim, rimasta incastrata in una frustellatrice, di Pierluigi Saporiti, schiacciato da un container, di Natalino Albano al porto di Taranto, del ventitreenne Mattia Battistetti, travolto dal crollo di un’impalcatura. Quell’avvicendarsi di fatalità che ogni anno portano alla caduta degli operai sul posto di lavoro come uomini su un campo di battaglia è una lugubre ricorrenza a cui ci siamo assuefatti. Ma quanto più un problema è vicino, sbriciolato tra le strade e i casolari delle nostre città, tanto più è impalpabile, perdiamo la consapevolezza dei suoi contorni e della sua urgenza. I cantieri mortiferi pullulano nelle nostre strade. Li scorriamo con lo sguardo mentre srotoliamo la nostra quotidianità affaccendata, e così le aziende piccole o grandi che rapiscono corpi. Il fatto che occupino un posto nelle nostre città, che diano pane alle nostre famiglie e contribuiscano con una noce di normalità ai nostri sistemi economici ci distoglie dalla sistematicità di quegli incidenti. Soprattutto in un periodo in cui il paese deve ripartire e non possiamo fare il diavolo a quattro sul resto: tutele, sicurezza, diritti sono questioni di secondaria importanza, lussi che ci si può permettere di garantire fuori dal paradigma di una crisi economica. L’emergenza giustifica, ma non è certo la sola variabile da considerare, perché di morti bianche e incidenti sul lavoro se ne contavano a bizzeffe, anche prima della pandemia.
Al 31 luglio 2021 l’Inail ha documentato circa 24mila incidenti sul lavoro in più rispetto allo stesso periodo nel 2020, con un incremento dell’8,3%; 677 di questi hanno avuto come esito la morte. Le denunce di malattia professionale documentate nei primi sette mesi del 2021 sono state 33865, 8660 in più rispetto allo stesso periodo nel 20201. Certo, si deve osservare che questi dati sono fortemente disturbati dalla variabile dell’epidemia da Covid-19, per cui “i dati delle denunce mortali degli open data mensili, più di quelli delle denunce in complesso, sono provvisori e influenzati fortemente dalla pandemia da Covid-19, con il risultato di non conteggiare un rilevante numero di “tardive” denunce mortali da contagio, in particolare relative al mese di marzo 2020. Si fa notare, inoltre, che i decessi causati dal Covid-19 avvengono dopo che è intercorso un periodo di tempo più o meno lungo dalla data del contagio”2; tuttavia il quadro generale resta drammatico. Quel “patto per la sicurezza” tra istituzioni e parti sociali invocato lo scorso anno dal presidente Inail Franco Bettoni3 non è ancora stato scritto. O meglio: sotto diverso nome è già contenuto in decine di norme a partire dal Decreto Legislativo 81/2008,4 è scritto a caratteri di fuoco nei protocolli di regolamentazione del lavoro nelle fabbriche, e se volessimo cercarne i prodromi dovremmo andare lontano, forse dovremmo partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando gli operai facevano parte di una classe senza voce e senza rappresentanze sindacali, lavoravano 14 ore al giorno come muli, in gran parte non erano alfabetizzati e quando faceva sera la loro mente non poteva tollerare l’impegno della scuola serale o qualsiasi altro stimolo. Allora, nel pieno dei movimenti operai in tutta Europa, lo Statuto del lavoro del 1970 regolamentò una volta per tutte gli orari di lavoro, fissando la durata di una normale giornata lavorativa a undici ore, definendo agevolazioni per i lavoratori colpiti dalle “malattie professionali”, istituendo un ispettorato di fabbrica incaricato di vigilare sul rispetto delle norme. Tutto quello che è venuto dopo è stato parte di un lento processo di conquista di ulteriori condizioni e diritti, tutti circoscrivibili nell’ambito della cosiddetta “politica del corpo”, finalizzata alla tutela della salute fisica della classe operaia.
Ma parlare di “politica del corpo” nel contesto del lavoro e dei rapporti di forza tra datori di lavoro e operai è parziale e fuorviante. Lo è adesso, e lo era a maggior ragione nel primo Novecento. Simone Weil, filosofa che rinunciò all’insegnamento per scendere in fabbrica, lavorò a cottimo nelle catene di montaggio dell’Alsthom. È una delle poche voci con forza e cultura tali da rompere il muto meccanismo della fabbrica. A fine giornata, Weil appuntava i resoconti di questa esperienza nel suo diario di fabbrica: “Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto. Irritati, tristi o disgustati che si sia, bisogna inghiottire, respingere in fondo a se stessi irritazione, tristezza o disgusto: rallenterebbero la cadenza. […] Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti”.5
Non si tratta solo del corpo ma dell’intera costituzione della fibra umana, della carne e dello spirito delle persone, che le condizioni del lavoro deprimevano fina a deumanizzarle, a integrarle nel meccanismo della macchina, nella catena che inesorabilmente macinava pezzi. La coscienza di cui parla la Weil è facoltà di pensare, ma diviene coscienza di classe nel momento in cui un insieme di operai razionalizzano la propria condizione e chiedono qualcosa al loro capo.
La nostra è un’epoca diversa, certo. Un’epoca più audace, più riscattata, più autocosciente, più automatizzata. I movimenti operai sono un episodio lontano della nostra Storia nazionale e ce lo raccontiamo con accenti romantici, commovendoci di fronte alla furia dei Compagni di Monicelli o di Gian Maria Volontè ne La classe operaia va in paradiso. L’età delle rivolte, in cui quei diritti sono stati pretesi e ce li siamo presi con l’occupazione delle fabbriche, è finita quando quei diritti sono stati trascritti nelle nostre costituzioni e nelle nostre leggi; le leggi sanciscono una volta per tutte, mettono il marchio del silenzio, trascendono il malcontento e la rivolta, sono il simbolo che una porzione di quei diritti è stata conquistata e perciò non ha più senso discuterne. È nostra. Ed è per questo che non se ne parla più, anche se si continua a morire. Ci sono ancora molti lavoratori che accettano di lavorare a condizioni insostenibili, senza gli adeguati dispositivi di sicurezza, quel passato gorgoglia ancora dal fondo di quella storia, e gli strascichi di questa marea sono tutti i morti del 2021 che non ci autorizzano ad essere romantici. È l’ennesima circostanza in cui a fronte di un quadro normativo ufficiale e di una legislazione vera delle condizioni operaie – lasciti postrivoluzionari – le negligenze e le violazioni di quell’apparato teorico finiscono per riconfermare tragicamente il mondo che c’era prima, spazzando via un secolo di conquiste ad ogni nuovo uomo che cade da un’impalcatura non saldata.
È la fine dell’anno 2021 e certo lavorare oggi all’orditorio di un’azienda tessile non è come lavorare alla pressa in un’officina del 1930. Ma finché i morti e gli infortuni saranno sistematici, frutto di una sistematica disattenzione ai quadri normativi nazionali, finché le prassi aggireranno le norme, finché gli operai saranno costretti a subire nel corpo e nella mente la prostrazione della fabbrica o del cantiere, finché la mappa italiana dei morti sul lavoro sarà punterellata da Nord a Sud6, il problema della condizione operaia tornerà a turbare il nostro presente e a metterne profondamente in discussione i precetti.
Dovremmo smetterla di porci domande astratte sul senso della vita e del lavoro e iniziare a pretendere applicazioni concrete che sono di massima urgenza: mettere in sicurezza i corpi delle persone, costruire impalcature solide, sottrarre le macchine all’arbitrio del caso fino all’ultimo bullone, discutere con gli operai, includerli in un progetto sociale: Simone Weil spronava gli operai della Renault a imbucare lettere per il capo in una cassettina della fabbrica: “Se una sera o una domenica, improvvisamente, vi fa male dover sempre chiudere in voi si quel che vi pesa sull’anima, prendete carta e penna. Non cercate frasi difficili. Scrivete le prime parole che vi verranno in mente. E dite che cos’è, per voi, il vostro lavoro”. Sperava che quelle letterine rappresentassero la voce di una collettività. A distanza di tanti anni, una relazione orizzontale con i capi non è ancora stata raggiunta; il segno che il cammino dei diritti è ancora una lunga carrareccia.
Rossella Marvulli è neolaureata in matematica, parte della redazione community del progetto Melting Pot Europa e attiva a Trieste nell’ambito della rotta balcanica.
Note:
4https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2008/04/30/008G0104/sg
5https://it.wikipedia.org/wiki/La_condizione_operaia
6https://lab.lastampa.it/2021/morti-sul-lavoro-la-mappa-degli-infortuni/