C’è qualcosa di farsesco e allo stesso tempo imbarazzante nello scambio di battute molto mediatizzato tra il ministro della “transizione” ecologica Cingolani e Greta Thunberg, incontratisi nel giorno in cui prendeva vita la Youth4Climate, evento che precede la PreCop di Milano.
«Oltre a protestare, aiutateci a identificare nuove soluzioni visionali, è questo quello che ci aspettiamo da voi» dice Cingolani; una frase che fa trapelare tutto il paternalismo quasi livoroso con cui “i potenti della Terra” trattano il tema senza in realtà andare mai al cuore del problema: quello di un modello di sviluppo insostenibile per sua natura. Tra l’altro un certo fastidio per i movimenti climatici e ambientalisti il ministro lo ha trapelato in più di un’occasione, ultima delle quali la dichiarazione in cui definisce gli “ambientalisti oltranzisti” (per intendersi, tutte le milioni di persone che sono scese in piazza negli ultimi anni) di essere «parte del problema», o ancora «peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati».
Morale della favola: Cingolani continua a fare il Cingolani (ma ci si poteva davvero aspettare qualcosa di diverso?), ricalcando la parte di uno dei tanti che millanta la “riformabilità verde” del capitalismo, omettendo che i protagonisti sono le stesse multinazionali del fossile che – cosa nota più del teorema di Pitagora – causano la crisi climatica.
Ed è proprio su questa contraddizione, sull’irriformabilità del sistema, che i discorsi che faranno Cingolani e gli altri leader mondiali presenti alla Pre Cop si iscrivono di diritto in quel “bla, bla, bla” così iconicamente espresso da Greta Thunberg. La giovane attivista svedese, dal canto suo, alla conferenza della Youth4Climate parla del fatto che la crisi climatica è sintomo di una crisi di più ampio respiro, prodotta dalle ineguaglianze, dal colonialismo e da altri fattori socio-politici.
Tematiche forse più adatte a contesti di piazza che ad ambienti istituzionali, come dimostrato da cartelli e slogan di milioni di giovani che venerdì scorso sono tornati a riempire le piazze di tutto il mondo, nel giorno del sesto climate strike lanciato da Fridays for Future. Un Global Strike autunnale che ha riportato sotto i radar del mondo main stream uno dei più grandi movimenti di massa giovanili della storia, che di fatto è riuscito a resistere alla pandemia.
Che il tema climatico sia uno dei principali terreni di contesa dell’età contemporanea non lo scopriamo certo oggi. Basti guardare al ruolo che la questione ha all’interno del Recovery Fund e nei vari piani di nazionali di ripresa, o al fatto che nel principale Paese europeo una forza dichiaratamente ambientalista sia il terzo partito alle elezioni federali e rosicchi 2,5 milioni di voti alla sinistra facendo proprio del green-washing il proprio punto di forza. Il tema è altamente politico, forse molto più di quello che i movimenti tradizionali abbiano percepito negli ultimi anni. Ma è proprio su questo terreno di politicizzazione che bisogna calarsi al meglio per far sì che l’idea di “sviluppo verde” non si affermi definitivamente come shock economy del presente e del futuro, nuova linfa di un modello che ripropone sempre lo stesso paradigma: quello della crescita infinita.
Su questi presupposti Milano si appresta ad essere in questi giorni non solo la vetrina della governance green, ma anche il raccoglitore di tutte le lotte e i movimenti climatici che vogliono rompere la narrazione che la transizione ecologica passi dal filtro di una sostenibilità interna al sistema, che è pura finzione.
La società non ha ancora compreso la portata di quanto sta accadendo a livello globale. Gli accordi di Parigi sono già stati disattesi e per frenare l’innalzamento della temperatura serve un nuovo paradigma.
Non sono solo le giovanissime generazioni che attraversano le piazze di Fridays For Future a dirlo, ma anche il rapporto Ipcc – passato un po’ in sordina con l’idea che fosse più o meno uguale a quello di cinque anni fa – lo testimonia. L’impressione è che non si è ancora capita la portata epocale della crisi climatica nel pianeta. Ondate di calore eccessive, stress idrico, conflitti, migrazioni, future pandemie sono tutti rischi che vengono amplificati e innescati dal climate change, sono solo alcuni degli effetti e c’è oltretutto un’ingiustizia intrinseca in questo: alcuni dei Paesi meno responsabili della crisi climatica sono quelli che affrontano le conseguenze più gravi, e questa ingiustizia si sta estendendo alle prossime generazioni.
L’allarme è più forte di sempre, di fatto a meno che non ci siano riduzioni immediate e su larga scala delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento a circa 1,5°C o addirittura 2°C sarà un’impresa non indifferente per l’umanità. Inutile ribadire che si è sull’orlo della catastrofe per via dei cambiamenti climatici, che sono ormai inevitabili e irreversibili.
Sono svariati anni che i governi di tutto il mondo erano stati messi in guardia sui rischi del cambiamento climatico e dei suoi effetti, tra questi era stato messo anche in conto anche il fattore pandemie.
Se c’è una cosa che nessuno di noi non dovrebbe mai dimenticare di questa pandemia, è quanto ci abbia colto impreparati. Nel 2020 il rischio di una pandemia è diventato realtà, causando non solo milioni di vittime, ma anche ampliando le già presenti disparità sanitarie, economiche e sociali.
La crisi climatica, a differenza del virus, è una tragedia al rallentatore, non ci coglie all’improvviso; i suoi effetti hanno uno sviluppo nel lungo periodo, ed è per questo che occorre ancora una volta ribadire che “non c’è più tempo” e che bisogna agire.
Oltre alla Pre Cop domani apre i battenti il Milano Climate Camp che, nel solco dei due precedenti Climate Camp italiani svoltisi a Venezia nel 2019 e nel 2020, è nata con l’idea che le battaglie per il clima fossero lo spazio più avanzato dove praticare una reale intersezionalità delle lotte.
Insieme ad altre realtà, protagonista di questo Camp – che alternerà iniziative e azioni politiche a momenti di dibattito e approfondimento – sarà Rise Up 4 Climate Justice, lo spazio politico nato durante l’ultimo Venice Climate Camp proprio per creare un’opzione politica, organizzativa e programmatica conflittuale e radicale. Tra i momenti di discussione proposti da Rise Up ci sarà, venerdì 1 settembre alle 18, un appuntamento con Dario Salvetti (operaio della Gkn), Antonio Tricarico (redattore di Re Common) e gli economisti Andrea Fumagalli ed Eleonora Priori sui costi sociali della transizione ecologica. Una discussione che vuole tematizzare il nesso sempre più stretto tra le richiesta di giustizia climatica con quelle di giustizia sociale, che attraversa in questa fase lotte molto diverse tra loro, ma che devono avere una comune ambizioni: far cadere quella distinzione tra movimenti sociali e movimenti ambientali che pone un freno incredibile allo sviluppo delle lotte contemporanee.