Le elezioni federali in Germania dello scorso 26 settembre hanno segnato una svolta storica, che molti media hanno sottolineato: la fine della cosiddetta “era Merkel”. Al di là di questo, sono molti gli spunti politici che emergono da questa tornata elettorale, a partire dal fatto che per la prima volta nel Dopoguerra i due partiti storici sono entrambi sotto al 30%. Ci sono, però, alcuni importanti tratti di continuità che vanno approfonditi Ne abbiamo discusso con Nicola Carella, a cui abbiamo posto alcune domande.
Quale quadro politico emerge dalle elezioni, come possiamo inquadrare gli spostamenti dell’asse del consenso, anche alla luce dei temi principali affrontati nel corso della campagna elettorale, e quali possibili coalizioni governative?
In Germania, il quadro politico emerso dal voto del 26 settembre, allarga l’area moderata dei partiti “borghesi” (bürgerlich) e ridimensiona le spinte ad una polarizzazione dello scontro politico. Se da un lato, infatti, i tentativi di avvicinamento ad Alternative für Deutschland da parte di alcuni democristiani, tra tutti l’ex capo dei servizi segreti Hans-Georg Maaßen, sono stati bocciati senza appello, dall’altra, l’esperienza berlinese di governo Rosso/Rosso/Verde pare destinata a rimanere un’eccezione locale per via della quasi scomparsa della Linke. E così l’insieme di CDU/CSU, SPD, Verdi e FDP, che quattro anni fa non arrivava al 70%, domenica scorsa ha sfiorato l’80% dei consensi, ma soprattutto ottenuto il 90% dei seggi in parlamento.
Lo scenario politico, solo apparentemente incerto e instabile, è il prodotto dell’“estremismo di centro” della Cancelliera uscente e, conseguentemente rappresenti ancora di più e meglio gli interessi della borghesia tedesca, il suo austero “europeismo”, il suo modello di cogestione sindacale e la sua idea di un efficientissimo “Green Capitalism”. È proprio il neoformato Bundestag la vera eredità politica di Angela Merkel. Un’eredità ben più ampia del disastro elettorale del suo partito e di quella dirigenza CDU/CSU, che negli ultimi 16 anni ha provato in ogni modo a destituire la Cancelliera. E se la sconfitta cristiano-democratica non è in contraddizione con il consenso della Merkel, appare pretestuoso ai limiti del grottesco valutare come discontinuità la probabile nomina a Cancelliere di Olaf Scholz (SPD), ex sindaco di Amburgo durante il G20 del 2017, nonché attuale Ministro delle Finanze, da sempre legatissimo agli istituti bancari locali (Sparkasse). Nessuno vuole qui negare che il tonfo della CDU e la fine del monopolio della CSU in Baviera siano storicamente rilevanti, ma non risultano neanche sorprendenti alla luce del quadro politico sopra descritto.
Solo premettendo ciò, si può iniziare a immaginare possibili coalizioni di Governo e, conseguentemente, individuare una probabile agenda governativa.
Già all’indomani delle elezioni è stato chiaro per SPD e CDU/CSU che non vi sarà governo possibile, prescindendo dalla presenza in coalizione di Verdi e liberali dell’FDP, che, forti dei loro successi, in particolare, tra gli under 30, hanno già iniziato a produrre un programma comune da proporre alternativamente a Scholz (SPD) o Armin Laschet (CDU). È la fine, nei fatti, della Grosse Koalition (49%) a favore di due possibili scenari alternativi: una coalizione “Semaforo” (Rosso – Giallo – Verde), con il 54% dei consensi o una “Giamaica” (Nero – Giallo – Verde) col 52%. Nel primo caso pare che i Verdi, fallita la corsa al cancellierato con la moderata Annalena Baerbock, daranno visibilità alla loro area più “radicale”. Questo riconoscimento potrebbe implicare la cessione ai Liberali del Ministero delle Finanze, per tranquillizzare i mercati finanziari, che avrebbero gradito un governo green ma in veste liberal-conservatrice. E quale potrebbe essere l’orizzonte politico di un governo liberal-socialdemocratico verde? Osservando i precedenti di voto comune dei tre partiti al Bundestag e al Parlamento Europeo, non è facile individuare dei punti di convergenza, ad eccezione della socializzazione “flat” dei costi della riconversione ecologica con sgravi fiscali e incentivi alle imprese e della difesa dei livelli di occupazione e produzione pre-pandemia. Ma proprio in questo ambito, il dibattito tra l’SPD, che vuole alzare il salario minimo intercategoriale a 13 Euro/ora, e l’FDP, fermamente contraria alla misura, potrebbe costituire uno dei primi nodi da sciogliere. Il cavallo di battaglia di Scholz, la tutela del ceto medio, potrebbe essere compensato da un alleggerimento della pressione fiscale sulle rendite (e in questo senso il Referendum berlinese sugli espropri farebbe storia a sé), più che dai tagli al sistema Hartz IV e alla sanità pubblica, cui sono contrari i Verdi (in particolare l’area “radicale”, premiata alle urne). Un governo, quindi, tutto sommato in linea con la politica della presidenza Biden negli USA: investimenti pubblici nella riconversione ecologica, difesa del ceto medio, attraverso la tutela delle piccole rendite ma anche degli standard salariali. Un altro terreno comune tra socialdemocratici, liberali e verdi, nonché un punto su cui la Germania è in estremo ritardo, è la digitalizzazione e l’infrastrutturazione tecnologica del paese, spesso al centro dei dibattiti elettorali e su cui prevedibilmente convergeranno gran parte degli investimenti pubblici.
In sintesi, in quell’ampia area che è eredità di Angela Merkel, la coalizione “Semaforo” garantirebbe maggiore stabilità e continuità, piuttosto che una coalizione “Giamaica”, che escluderebbe l’SPD, partito vincitore, e premierebbe l’area moderata dei Verdi ed il gruppo dirigente cristiano-democratico, entrambi sconfitti alle urne. Del resto un governo Scholz, insieme con Verdi e Fdp, permetterebbe alla CDU/CSU (con la sua cosiddetta “kostruktive Opposition”) di ricostruire una propria identità politica ed un rinnovato radicamento soprattutto fuori dalle grandi città, senza dover necessariamente flirtare con Alternative für Deutschland, sempre più interessata da scandali e inchieste della Verfassungschutz, la Commissione in Difesa della Costituzione.
Un focus andrebbe fatto sul crollo di Die Linke, sul rafforzamento dei Verdi (che si confermano ampiamente terza forza politica nazionale) e sulla tenuta dell’estrema destra, che in alcune aree orientali del Paese è ormai primo partito da diversi anni.
Fuori dal rinnovato e allargato perimetro dei “partiti borghesi” sono rimasti i due grandi sconfitti della tornata elettorale: la Linke (4,9%), che ha dimezzato i suoi voti nel giro di una legislatura e l’estrema destra di Alternative für Deutschland (10,3%), confinata geograficamente e politicamente ai margini del dibattito pubblico.
La Linke ha pagato innanzitutto l’ambiguità con cui ha affrontato le contraddizioni interne emerse durante gli ultimi quattro anni. Evidentemente è stato valutato tardivo, autoreferenziale ed insufficiente l’esito della battaglia congressuale con Aufstehen, l’area di Sahra Wagenknecht con le sue posizioni “rossobrune” sui rifugiati e diritti civili, combinate per altro ad un risentimento antieuropeista più di stampo nazionale che solidale. Impantanata in questa lotta interna, la Linke, non è riuscita (al contrario dell’area movimentista dei Verdi e della Jusos, i giovani della SPD) a produrre un convinto discorso sulle questioni poste dai movimenti sociali: l’ambiente prima di tutto, l’antirazzismo e i diritti di cittadinanza, un welfare universale slegato dal lavoro. Così, con una parte del suo elettorato storico (500.000 su 4.000.000) che, secondo l’analisi dei flussi elettorali del Berliner Morgenpost, ha scelto di non votare, ed un’altra parte (200.000), concentrata nei Länder orientali, che si è voltata addirittura verso Afd, la Linke è scesa sotto lo sbarramento del 5%. La formazione dalla doppia leadership femminile di Susanne Hennig-Wellsow e Janine Wissler è riuscita comunque ad entrare al Bundestag con quasi una quarantina di parlamentari ma solo grazie al voto uninominale nelle, sempre meno, sue storiche roccaforti elettorali di Berlino est e Lipsia. Ad oggi, però, è impossibile capire se la Linke saprà rinnovarsi durante la nuova fase di opposizione al governo Green liberal-socialdemocratico o preferirà difendere il proprio radicamento territoriale. Una scelta strategica dal sapore della “last call” per l’intera area della sinistra politica tedesca, che può decidere osservando il modello e i risultati del referendum berlinese contro i grandi patrimoni immobiliari.
Ma se per la Linke l’ambiguità è stato un errore quasi fatale, per l’estrema destra di Afd si è rivelata un’ancora di salvezza. La destra populista, infatti, è arrivata alle elezioni sposando tutte le teorie del complotto sui vaccini e sulla pandemia, invocando “buon senso” e “normalità” contro teorie gender e invasioni di migranti, orfana di Trump, del Johnson versione Brexit, dell’amico Netanyahu e con un quadro internazionale compromesso, appesantita da diverse indagini e scandali e dalla solita guerra intestina. Afd è diventato primo partito in Turingia, in Sassonia e secondo partito in Meclemburgo-Pomerania e Brandeburgo, tutti Länder dell’ex DDR. Tuttavia, sin dalla chiusura delle urne i leader dell’estrema destra hanno provato a evitare un doppio confinamento, geografico e politico, alle aree più povere, anziane e problematiche della società tedesca. Del resto, non esiste alcun “orgoglio” identitario orientale per l’anticomunismo di Alternative für Deutschland ed è lecito chiedersi quanto questa formazione reazionaria possa essere utile in questo nuovo quadro sia ai suoi elettori orientali sia ai suoi ricchissimi e aristocratici finanziatori svizzeri come il miliardario barone August von Finck Jr.
Quali sono le prospettive europee dopo le elezioni tedesche?
Concludendo, è bene provare a guardare alla Germania e alla sua nuova fase politica dentro il più ampio quadro europeo.
A tal proposito, vanno ricordate le innumerevoli volte in cui negli ultimi anni, a Berlino come a Bruxelles, Spd, Liberali (ALDE) e CDU/CSU (PPE) hanno votato insieme, spesso anche con l’appoggio dei Verdi. Queste elezioni tedesche sono quindi una proiezione della continuità tra la Commissione Europea di Ursula Von Der Leyen e l’ultimo governo di Angela Merkel. Ma questa é solo la cornice generale. Per anticipare quale contributo un governo “liberal-socialdemocratico green” potrebbe apportare all’UE, bisogna sforzarsi di incrociare due assi distinti.
Il primo asse ha a che fare con il processo di integrazione europeo, vale a dire la comprensibile tendenza che Berlino avrà a delegare a Bruxelles le questioni altrimenti terreno di conflitto all’interno di una qualsiasi coalizione di governo. Cioè? Innanzitutto la politica estera e diplomatica, poi le politiche migratorie e di frontiera, il diritto di asilo, le missioni militari e gli investimenti nella difesa. In particolare, in politica estera, il solido rapporto dell’SPD con la Russia e l’inaugurazione del gasdotto baltico Nord Stream 2 fortemente voluto dalla CDU, che bypassa le democrature europee di Visegrad, lasciano presagire un rilassamento formale dei rapporti con il Cremlino. E questo, di pari passo col disastro di Kabul e con l’accordo militare USA-UK-Australia potrebbe preannunciare uno spostamento europeo verso una più marcata Ostpolitik, che arrivi, almeno sul piano delle catene di approvvigionamento e dei rapporti tecnologici e commerciali, fino a Pechino, come già preannunciato dalla Conferenza UE-RPC del giugno 2020. In generale, però, tutti i partiti tedeschi in campagna elettorale hanno auspicato una maggiore autonomia geopolitica europea rispetto al patto atlantico. Le reciproche differenze riguardano le condizioni e gli ambiti di competenza tra la politica europea e la politica commerciale nazionale.
Il secondo asse europeo su cui mettere a verifica la politica tedesca ha inevitabilmente a che fare con un ridefinizione dei limiti del debito comune garantito dalla BCE. L’elettorato tedesco ha sicuramente indicato l’integrazione europa come orizzonte irreversibile ma, osservando le dichiarazioni dei vincitori, non si può non cogliere come sia i liberali che i socialdemocratici, Scholz in particolare, siano stati convinti sostenitori dell’austerità e del rigore nei conti pubblici. Tuttavia, non potendo tornare indietro rispetto al Recovery Fund, ma anche respinti meccanismi automatici di condivisione del debito, ci si può aspettare l’apertura di una fase di “austerità green”, dove la stabilità economica dell’UE possa passare dalla monetizzazione del debito per la “conversione” ecologica della produzione, anche nelle forme di crediti di CO2 o di vendita di quote di surplus di produzione energetica, ipotesi, queste, più volte accennate dai partiti premiati alle urne.