Le “giornate di Milano”: valutazioni e prospettive

Ci sono voluti alcuni giorni per metabolizzare le giornate milanesi di mobilitazione contro la Pre-Cop, le indicazioni politiche che contengono e le prospettive che aprono. In questo editoriale proviamo a mettere in fila alcuni punti di analisi e dibattito, collocando nel tempo e nello spazio sia queste giornate sia, in generale, il rapporto tra crisi ecologica e movimenti sociali.

Crisi ecologica e movimenti: tempo e spazio

La prima questione che riguarda il tempo è di carattere ontologico. Da anni, infatti, ci interroghiamo su cosa significhi “essere movimento” nella crisi ecologica e Milano alcune risposte ce le ha iniziate a dare. È, però, necessaria una premessa prima di procedere: la crisi climatica non è condizione istantanea e provvisoria, non una parzialità all’interno di una complessità di fase, né tantomeno la nuova contraddizione primaria che si sostituisce meccanicamente a quella “classica” tra capitale e lavoro. Facendo nostro il pensiero di Jason W. Moore, è l’intera teoria del valore che deve essere ripensata in termini di rapporti socio-ecologici, nella quale tanto la sfera produttiva del lavoro storicamente retribuito quanto quella riproduttiva (la “natura sociale astratta”, la rete della vita, le risorse e il “lavoro-energia” della biosfera) concorrono nella ridefinizione del capitalismo come vero e proprio regime ecologico.

Se questo è vero in una cornice di longue durée, è vero anche che gli ultimi decenni – quelli che alcuni teorici definiscono come fase del tardo-capitalismo – ci consegnano un duplice quadro: da un lato l’esplosione della crisi ecologica in termini ambientali e sociali; dall’altro l’aumento della capacità estrattiva del capitale sulla natura che si manifesta nell’internalizzazione del limite ambientale, non più percepito come vincolo allo sviluppo, ma come fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione (è questo il presupposto della cosiddetta green-economy, come spiega bene Emanuele Leonardi in Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, 2017).

In questa fase di (ennesima) ristrutturazione del capitalismo, dovuta alla crisi pandemica, il nesso tra ambiente e sviluppo appare più chiaro e strategico per la governance, che destina una grande fetta di investimenti al Green Deal e a quella che nel gergo comune viene denominata “transizione ecologica”. La Pre-Cop di Milano è stato uno dei primi momenti in cui le linee guida di questa transizione sono state coordinate a livello globale e rese esplicite: come era già palese, non ci sarà nessuna transizione in senso trasformativo, ma piani di investimenti totalmente schiacciati sull’idea neoliberale di refrain, quindi unicamente finalizzati a incentivare l’impresa privata per produrre profitto e riprodurre investimenti. Il tempo che viviamo è quindi quello dell’urgenza, scandita dal “codice rosso” per l’umanità dell’ultimo rapporto Ipcc, dal pandemiocene che bussa alle porte – e che per alcuni è già in atto -, da un livello di distribuzione della ricchezza che è sempre più diseguale (l’ultimo rapporto Oxfam afferma che «le mille persone più ricche del mondo hanno recuperato in appena nove mesi tutte le perdite che avevano accumulato per l’emergenza Covid-19, mentre i più poveri per riprendersi dalle catastrofiche conseguenze economiche della pandemia potrebbero impiegare più di dieci anni»).

In questo quadro, da diversi anni è emersa una soggettività che si muove nello spazio della crisi climatica: giovane, intersezionale, transnazionale, che ha interiorizzato l’urgenza dell’azione, ma che allo stesso tempo si orienta non solo sul breve periodo. Una soggettività che avevamo già visto alle prime mobilitazioni di Ende Gelände alla miniera di Hambach, nella Germania nord-occidentale, alle quali abbiamo partecipato. Dalle lande desolate della Renania alle metropoli invase dai climate strike, ha trovato in Fridays for Future e nell’esplosione globale dei movimenti climatici un terreno per moltiplicarsi e organizzarsi. Sono emerse ad esempio realtà che sono state in grado di innovare non solo l’azione e la comunicazione politica, ma anche i modelli di aggregazione e partecipazione, prima fra tutte Extinction Rebellion.

A Milano, per la prima volta in Italia, la “soggettività climatica” ha messo a nudo ma allo stesso tempo ha intrecciato le sue molteplici “anime”; ha reso cooperanti azioni, biografie e culture politiche diverse non a partire da alleanze predeterminate, ma nella pratica del conflitto. Blocchi stradali, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni, acampada, manifestazioni moltitudinarie hanno trasformato lo spazio metropolitano in un laboratorio conflittuale inedito, che probabilmente è destinato a segnare in modo importante forme e immaginari delle lotte in questo Paese. Ed è in questa rottura che è necessario orientare la risposta al quesito ontologico che ponevamo prima, in una situazione in cui – è innegabile ammetterlo – si riscontra un’arretratezza di fondo da parte delle tradizionali realtà di movimento, sia in termine di visione strategica che di iniziativa politica.

Una narrazione sovvertita

C’è un altro dato che ci restituiscono queste giornate. Questo riguarda non solo la messa in crisi dell’ordine pubblico, completamente impreparato a contenere azioni decentrate e diffuse, ma anche la faglia creata nella narrazione preconfezionata che era stata fatta della Pre-Cop. Già nei giorni che precedevano l’inizio dei lavori, i media mainstream avevano dato grande risalto agli incontri tra i volti più noti dei movimenti climatici (nella fattispecie Greta Thunberg e Vanessa Nakate) e i maggiori rappresentati dell’esecutivo italiano, il ministro Roberto Cingolani e il premier Mario Draghi. Il grottesco siparietto prima della Youth4Climate, con Cingolani che paternalisticamente invita la giovane attivista svedese a “proporre soluzioni” la dice lunga sugli intenti di questa Pre-Cop: dare all’esterno l’immagine di uno spazio aperto al dialogo, per poi convergere su soluzioni tutt’altro che democratiche, tra cui la strada spianata alle note politiche di greenwashing e l’affermazione di un’idea di transizione altamente conservativa, sul piano sociale e degli spazi decisionali.

Ma c’è di più: la Pre-Cop aveva tutta l’intenzione di mostrarsi in grado di internalizzare anche la protesta, restituendo l’idea che le istanze dei movimenti climatici potessero essere accolte, a patto che rimanessero nell’alveo della compatibilità, di forma e di sostanza. In questo alcune componenti “di movimento” hanno provato ad essere della partita, giocando fin dall’inizio a frazionare e isolare, ma dimenticandosi che i tatticismi e i goffi tentativi di avere ruoli egemonici sono fortunatamente stati riposti per sempre nel cassetto dell’archeologia politica.

Il risultato è stato completamente diverso rispetto alle (loro) aspettative e l’immagine di copertina di queste giornate non ha nulla di conciliante. A “rubare la scena” sono infatti le tende di attiviste e attivisti di Rise Up 4 Climate Justice in piazza Affari, che mettono sotto i riflettori un aspetto della crisi climatica che il più delle volte viene tralasciato dalla narrazione mainstream, ossia il legame indissolubile con il capitalismo finanziario. La Borsa diventa di colpo uno dei simboli delle proteste sul clima, rimandando a immaginari legati ad altre importanti movimentazioni sociali che ci sono state negli ultimi anni e allargando l’orizzonte stesso del movimento ambientalista, spesso descritto in maniera piatta e stereotipata. 

Ma la cosa forse ancora più importante è quanto accaduto il venerdì mattina, al corteo “Young for Future” che è passato per Piazza Affari. Le migliaia di giovani non solo hanno applaudito chi dalla sera prima era lì con le tende, ma si sono sentitə parte di quella cosa, si sono tintə le mani della vernice rossa con cui era stato simbolicamente sanzionato l’ingresso della Borsa e hanno iniziato a fare lo stesso costringendo la celere a schierarsi. Una scena potente, che fa capire quanto le azioni possano diventare riproducibili e quanto sia fittizia quella distinzione tra “buoni e cattivi”, “violenti e non violenti” che ci ha accompagnato negli ultimi decenni.

Non si tratta qui di avallare feticci o esaltare coup de théâtre ben riusciti, ma constatare che l’immagine pubblica del “movimento climatico” oggi è completamente sovvertita rispetto ai giorni che precedevano la Pre-Cop e questo apre uno spazio di espansivo reale per la movimentazione sociale.

In definitiva, questa Pre-Cop chiarisce meglio due grandi aspetti. In primo luogo, quel campo di contesa intracapitalista tra conservatorismo fossile e new green capitalism si va risolvendo lasciando in tendenza la prima opzione nella marginalità, complice la sconfitta di Trump negli USA, la crisi economica che si profila in Cina e i piani di rilancio anti-Covid (in primis Recovery Fund e American Rescue). La chiave di questa contesa é il modello energetico e sono proprio i grandi colossi dell’energia a giocare il ruolo, non più sottinteso, di protagonisti, un po’ come facevano i grandi rentier più illuminati tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento investendo i loro capitali immobilizzati nella nascente economia industriale.

In secondo luogo, le mobilitazioni che ci sono state e il modo in cui si sono snodate rendono palese il fatto che per la governance globale della transizione sarà impossibile agire in un tempo e uno spazio pacificati. È la transizione stessa ad essere al centro del conflitto, in cui battaglie per la democrazia, i beni comuni e la redistribuzione della ricchezza avranno un nuovo ruolo. Per questo possiamo affermare che le giornate di Milano ci restituiscono un senso di possibilità che prima non c’era – o quantomeno non era così evidente – e che è stato conquistato centimetro per centimetro, senza sconti o scorciatoie di sorta.

Prospettive

Pensare al “dopo” è sempre la cosa più ardua, perché il pericolo di farsi trasportare meccanicamente dall’entusiasmo è dietro l’angolo. È anche vero che giornate del genere non possono non creare aspettative, che vanno trasformate in indicazioni strategiche.

La prima questione ad essere sollecitata è quella dei contenuti, dei piani di un discorso pubblico e politico sulla crisi climatica che ha oggi una consapevolezza molto più matura sulla complessità che abbraccia. Per spiegare meglio proviamo a fare due esempi, che sono altrettanti interventi stralciati dalle tante cose che sono state dibattute al Milano Climate Camp. Il primo è la parte iniziale dell’intervento di Dario Salvetti – operaio di Gkn – al panel “I costi sociali della crisi ecologica” che spiega con grande lucidità come l’estrattivismo, la gestione delle risorse e le scelte energetiche incidano direttamente sugli operai che vengono licenziati o che vivono in un costante stato di precarietà negli stabilimenti industriali. Il secondo è il messaggio dato da Carola Rackete – che gran parte di noi aveva conosciuto come attivista per i diritti dei migranti – all’assemblea finale della Climate Justice Platform, in cui chiarisce in maniera lineare perché lottare per la giustizia climatica sia la stessa battaglia che si fa quando si salvano vite nel Mar Mediterraneo o quando ci si oppone all’imprinting patriarcale e coloniale dell’Occidente.

Queste saldature non sono solo evocazioni politiche, ma il frutto di una visione strategica che sa leggere dentro il disastro climatico una nuova autodeterminazione di classe che sappia impattare le quattro linee fondative dello sviluppo capitalista: il lavoro, la razza, il genere e la natura. Come scrive Razmig Keucheyan nella parte finale del suo ultimo libro I bisogni artificiali, il superamento della divisione tra ambiente e lavoro, che ha strutturato il campo politico per buona parte del secolo scorso, è la sfida imprescindibile per costruire un movimento anticapitalista contemporaneo. Per questa ragione «l’idea di un movimento sociale che includa tutta l’umanità è una contraddizione in termini. Questa è la ragione per cui il discorso ecologista mainstream, fondato sull’idea che l’umanità debba “superare le sue divisioni” per trovare delle soluzioni alla crisi ambientale, non può funzionare. Il conflitto di classe deve essere intensificato perché si possa vedere un inizio di soluzione alla crisi: da un lato coloro che hanno interessa al cambiamento, dall’altro coloro che hanno interesse allo status quo» (p.134).

Dobbiamo riconoscere che su questo punto il tessuto sindacale italiano è in forte affanno, e non basta la spianata di bandiere identitarie alla Climate March del 2 ottobre a far avanzare una cultura ancora fortemente ancorata al “modello Ilva” (ricordiamo bene il Landini contestato a Taranto nel 2012 perché difendeva a spada tratta il “lavoro” contrapponendolo chiaramente al diritto alla salute). Ma ci sono alcune cose che lasciano ben sperare. Pensiamo ad esempio all’Adl, che da anni ha interiorizzato le tematiche legate alla crisi ecologica a partire proprio dalle lotte nella logistica, uno dei settori a più grande impatto ambientale. Ma pensiamo anche alla già citata GKN, una delle lotte operaie più importanti degli ultimi decenni, i cui operai scelgono chiaramente da che parte stare scrivendolo chiaramente nel documento della loro ultima assemblea, di cui citiamo testualmente un passaggio: «dopo il 18 settembre, abbiamo assistito a una manifestazione di 50mila persone a Milano per la giustizia climatica. Come noi, quella piazza rifiuta ogni contrapposizione tra rivendicazioni sociali e ambientali. Avete provato a usare la transizione climatica per giustificare i licenziamenti nell’automotive. E avete ottenuto solo la nostra saldatura con le lotte per il clima».

Il tema centrale, in tutto questo, rimane quello dell’organizzazione, e anche qui ritornano le categorie di tempo e spazio. Il global strike del 24 settembre e le manifestazioni di Milano ci parlano chiaramente di una soggettività più consapevole, meno affabulata dal brand della lotta climatica tout court e più interessata alla sostanza profonda che questa implica. Organizzare questa disponibilità era una delle intuizioni che hanno portato alla nascita di Rise Up 4 Climate Justice poco più di un anno fa, dopo il secondo Venice Climate Camp. Adesso è il tempo di passare a una nuova fase costitutiva, di accelerare quel passaggio per il quale «pratiche di lotta e processi organizzativi camminino di pari passo», di approfondire quei legami territoriali che da anni sono il tessuto vivo dei movimenti ambientali e traducono su scala locale la devastazione climatica globale.

Infine lo spazio. Se l’azione territoriale è la linfa, quella che guarda all’organizzazione transnazionale è la visione imprescindibile. «L’Europa come spazio minimo del conflitto contemporaneo» si diceva alcuni anni fa, all’apice del movimento Blockupy contro le politiche della BCE e l’austerity continentale. Questo è vero ancora di più in questa fase e va cercato con forza per non soccombere di fronte alla violenza della nuova ristrutturazione capitalista. Un primo passaggio sarà senza dubbio la Cop-26 di Glasgow e altri se ne prospettano nel breve e medio periodo, ma è nella continuità delle relazioni che questo spazio si costruisce realmente in termini politici.

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** Pic credit: Michele Lapini

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