di Marco Bersani, Attac Italia
Lo avevamo detto in tempi non sospetti (Città e Comuni: quando ce li riprendiamo?) ora è certificato: uno degli effetti della pandemia è il collasso dei Comuni, ovvero degli enti di prossimità degli abitanti di ogni territorio.
É in pieno svolgimento la 19esima edizione della “Settimana europea delle Regioni e delle città”, evento annuale organizzato dal Comitato delle Regioni Ue a Bruxelles.
All’interno dei lavori è stato presentato l’ultimo rapporto relativo all’impronta della pandemia sulle amministrazioni locali.
I risultati sono inequivocabili: stretti tra le maggiori spese da sostenere per far fronte all’emergenza e le mancate entrate dovute alla crisi, gli enti locali a livello europeo sono oggi di fronte a un buco di bilancio di 180 miliardi, pari alla somma delle maggiori spese dovute alla pandemia (125 miliardi) e delle mancate entrate (55 miliardi).
All’interno di questo infausto quadro, il nostro Paese figura al secondo posto, dietro la Germania, con un buco nelle casse degli enti locali di 22,8 miliardi di euro.
Dopo due decenni di trappola del debito e conseguenti politiche di austerità, nei quali i Comuni si sono visti ridurre drasticamente il personale, azzerare le possibilità di investimento e decuplicare il taglio di risorse (da 1,65 mld del 2009 ai 16,665 del 2015), il conto della pandemia sopracitato rischia di essere una sentenza definitiva per la funzione pubblica e sociale delle amministrazioni locali di prossimità.
La pandemia, spiega il rapporto, “avrà degli effetti a lungo termine sulle strutture socio-economiche delle regioni europee (..) e il fatto che le conseguenze possano farsi sentire ancora a lungo dipende dalle caratteristiche strutturali di un’area e dalla velocità della ripresa dei settori più colpiti”.
Se pensiamo al fatto di come, già all’inizio della pandemia, ben 1083 Comuni su un totale di 7904 si trovassero in condizione di dissesto o pre-dissesto finanziario, la drammaticità della situazione dovrebbe risultare più che evidente.
Il paradosso è che proprio la pandemia, avendo messo in crisi un sistema iperglobalizzato, obbliga a riscoprire la centralità dei territori, dei Comuni e delle città come fulcri di un nuovo modello sociale e ambientale.
Se questo è il quadro, sarebbe logico aspettarsi che, all’interno del PNRR e dei fondi del Next Generation Eu, città e Comuni assumano un ruolo centrale in termini di progettualità, investimenti a lungo termine, risorse a disposizione.
Niente di tutto questo. Il governo Draghi sta invece predisponendo -come da “condizionalità” imposte dalla Commissione Europea – il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato, all’interno del quale viene prevista un’ulteriore spinta verso la privatizzazione dei servizi pubblici locali, stabilendo che esternalizzazione e/o affidamento ai privati siano l’ordinarietà, mentre la gestione diretta dei servizi da parte dei Comuni debba essere adeguatamente motivata.
Con le politiche di austerità si sono messi i Comuni con le spalle al muro. Ora arriva l’affondo per costringerli a mettere sul mercato tutti quei servizi che sinora erano riusciti a rimanerne fuori. Annunciando una ripresa che riguarderà solo gli utili degli azionisti finanziari e auspicando una resilienza – che vuol dire muta rassegnazione – delle comunità locali.
In questa situazione, tocca persino ascoltare il quotidiano chiacchiericcio su giornali e talk show, nei quali politici e opinionisti si arrovellano per capire le ragioni del massiccio astensionismo alle recenti elezioni amministrative.
Proponiamo loro di rispondere a due semplici domande: perché andare a votare sindaci e consiglieri comunali se le risorse a disposizione dei Comuni sono vicine allo zero? Quale utilità sociale hanno amministratori locali il cui unico compito è tagliare la spesa sociale e privatizzare beni comuni e servizi pubblici?