Classe universale o identitarismo nazionalistico?

di Sandro Moiso

Calusca City Lights e radiocane.info (a cura di), RIOT! George Floyd Rebellion 2020. Fatti, testimonianze, riflessioni, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 256, 17,00 euro

L’ultima fatica saggistica degli infaticabili compagni della Calusca City Light e delle Edizioni Colibrì di Renato Varani tocca, come al solito, un tema non soltanto d’attualità ma anche scottante, soprattutto se si considera l’assoluzione avvenuta, pochi giorni or sono, del diciottenne Kyle Rittenhouse, accusato di aver ucciso con il proprio fucile due manifestanti antirazzisti e averne ferito un terzo, a Kenosha (Wisconsin, USA), durante le proteste dell’estate del 2020 avvenute a seguito del grave ferimento del giovane afroamericano Jacob Blake, a cui la polizia aveva sparato nella stessa città, e che è ora paralizzato dalla vita in giù.

L’episodio si inserisce infatti nel clima venutosi a creare nell’America, all’epoca ancora trumpiana, infiammata dall’uccisione di George Perry Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, in Minnesota, e dall’estendersi dell’epidemia da Covid -19 e dei contraddittori provvedimenti presi all’epoca dal governo in carica. Se, infatti, le proteste, sfociate spesso in vere e proprie rivolte urbane, avevano preso soprattutto avvio dal riproporsi in forme sempre più violente dell’oppressione razziale, è pur sempre vero che altre proteste, quasi sempre armate, si diffusero a partire da una middle class bianca delusa nelle sue aspettative di benessere e continuità dei privilegi economico-sociali cui un lungo trend imperialistico della Land of the Free l’aveva abituata per gran parte della seconda metà del secolo precedente.

Middle class spesso associabile ad una working class bianca che, negli ultimi decenni, ha visto scomparire posti di lavoro, sicurezza economica e la forte riduzione dei livelli salariali precedenti e delle forme di previdenza, per quanto anche quest’ultime legate alle forme dell’assicurazione privata. Una penetrazione finanziaria che ha scosso in profondità le certezze di settori sociali che si ritenevano precedentemente capaci di affrontare, con un certo margine di tranquillità, anche i momenti di difficoltà. E che a partire dalla crisi dei mutui subprime del 2008 ha dovuto fare i conti con scenari assolutamente imprevedibili per quello che a torto o ragione riteneva ancora lo standard dell’American Way of Life (soprattutto bianco).

La raccolta di saggi contenuta in Riot! affronta i problemi posti dalle rivolte americane del 2020 in una prospettiva molto ampia che, pur mantenendolo al centro dell’analisi come è giusto che sia, travalica i limiti discorsivi e politici del fin troppo abusato tema della rivolta razziale o antirazzista.
In quei mesi, negli Stati Uniti, sono venuti alla luce non solo i limiti della “democrazia bianca” statunitense, come il risultato del processo di cui si parlava all’inizio ha dimostrato in questi giorni semmai ce ne fosse ancora bisogno, ma anche i limiti di un’impostazione politica che non cogliendo gli aspetti essenziali del fascismo non riesce nemmeno a cogliere gli evidenti segni del fallimento e/o decadimento dell’ideale democratico borghese, così caro ai più che moderati teorici del politically correct.

Da questo punto di vista appare centrale, almeno per chi qui scrive, il saggio di Paul Mattick Jr., tratto da «The Brooklyn Rail» dell’8 novembre 20081, che, dando per inteso che la vera caratteristica dei regimi fascisti del passato fosse quella di fondarsi su un massiccio intervento statale nell’economia e su una ferrea organizzazione della vita sociale, afferma che:

la presidenza di Donald Trump non ha rappresentato, come molti temevano, l’avvento del fascismo negli Stati Uniti.
Trump non era interessato a costruire uno Stato forte o a preparare l’America a svolgere un ruolo imperialistico dinamico negli affari mondiali, né a mobilitare il patriottismo e il razzismo per schiacciare la classe operaia a beneficio della crescita economica. Lungi dal costituire una forza paramilitare di massa, si è accontentato di ispirare patetiche «milizie» – molto più avvezze alle birrerie che ai golpe […] In effetti, la sua amministrazione si è mossa nella direzione opposta rispetto alla crescita del controllo statale tipica del fascismo […] La stagnazione economica non ha spinto a realizzare investimenti per creare posti di lavoro, ma a effettuare semplici iniezioni di fondi nei circuiti della speculazione finanziaria.
Esultando per il trionfo della democrazia americana, «The New York Times», come tanti altri giornali americani, ha celebrato la promessa di Joe Biden di «ripristinare la normalità politica e uno spirito di unità nazionale per far fronte alle violente crisi sanitarie ed economiche». Non vale la pena di sottolineare che è stata proprio la normalità a produrre queste crisi e che l’unità nazionale può significare soltanto la subordinazione degli interssi di alcune persone a quelli di altre. […] E poiché l’approfondimento della crisi economica, esacerbata dalla pandemia, è soprattutto il prodotto del normale funzionamento del capitalismo come sistema, l’unico rimedio a questa crisi consiste nel deprimere ulteriormente il tenore di vita dei lavoratori di tutto il mondo […] favorendo una ulteriore concentrazione della proprietà del capitale nelle mani di un numero ancora minore di aziende. […]
Un’economia stagnante, con meno risorse da dividere tra quanti fanno parte dell’1% e tutti gli altri, significa che l’auspicata coalizione popolare per la socialdemocrazia è un sogno altrettanto chimerico che quello dei contadini nordamericani, espresso nel loro sostegno a Trump, che l’ininterrotta concentrazione dell’agricoltura, insieme col rapido degrado ambientale, possa essere frenata dai vecchi valori comunitari dei piccoli imprenditori bianchi2.

Fermiamoci qui, per ora, anche se più avanti riprenderemo ancora il saggio di Mattick, soltanto per mettere in evidenza come le proteste dell’estate del 2020, se lasciate sole e indirizzate alle rivendicazioni di maggior democrazia e antirazziste, non potessero portare ad altro che alla vittoria elettorale del candidato democratico. Quel Joe Biden che, riprendendo Mattick, non «intende ridurre le risorse della polizia, che senza alcun ritegno continua a uccidere, picchiare e incarcerare i cittadini. Già campioni dell’incarcerazione di massa, il nuovo presidente e la sua compare ex assistente procuratore sono profondamente consapevoli della necessità che la polizia e le carceri mantengano l’ordine sociale, particolarmente in un momento di crescenti difficoltà economiche»3.

Ecco allora che, tralasciando al momento la disamina dei tanti altri saggi contenuti nel testo curato da Calusca City Lights, sarebbe molto utile affiancare alla lettura degli stessi la visione del film Judas and the Black Messiah, diretto e prodotto da Shaka King che ha anche scritto la sceneggiatura insieme a Will Berson, in cui si parla del tradimento operato nei confronti di Fred Hampton, quando questi era il leader della sezione di Chicago del Black Panther Party, da parte di un altro afro-americano, William O’Neal, all’epoca informatore del Federal Bureau of Investigation, da cui era stato incastrato per il furto di una o più automobili.

Fredrick Allen Hampton (30 agosto 1948 – 4 dicembre 1969), nonostante la giovane età, era anche il vicepresidente della stessa organizzazione in cui rappresentava la componente più apertamente marxista. Proprio per questo motivo, e il film lo chiarisce perfettamente, egli operò per l’unità di tutti gli oppressi, al di là delle caratteristiche etniche e razziali. Cercò, per questo motivo, di creare un collegamento con le organizzazioni portoricane e di altre etnie e giunse anche a frequentare le riunioni dei “poveri bianchi” organizzati intorno ad associazioni di destra e razziste, nel tentativo di chiarire chi fosse il vero nemico contro cui lottare: il capitalismo statunitense ed internazionale.

In un primo tempo, nonostante le difficoltà iniziali, il tentativo riuscì e ciò lo spinse a profetizzare ai suoi compagni che quello sarebbe stato il vero motivo per cui sarebbe stato ucciso dagli agenti delle forze dell’ordine, locali e federali. Profezia fin troppo facile vista la furia con cui fu portata a termine la sua esecuzione, intorno alle 5 del mattino del 4 dicembre 1969.
Fred Hampton fu infatti ucciso con due colpi alla testa sparatigli da un agente, dopo l’irruzione nella casa in cui alloggiava e in cui dormiva acanto alla sua compagna, all’epoca incinta di nove mesi.

Era qui assolutamente necessario ricordare tali avvenimenti, non solo per ricordare ai lettori un film prodotto con la benedizione della famiglia Hampton, premiato al Sundance Film Festival il 1° febbraio 2021 e candidato nello stesso anno a sei premi Oscar, ma soprattutto per riportare alla memoria che se la questione razziale, sia in America che altrove, diventa una pura questione identitaria o di “giustizia”, si rischia di perdere di vista il fatto che questa è, prima di tutto, una questione di classe, e che soltanto in questo ambito potrà essere definitivamente risolta.

Se è vero infatti, e i saggi contenuti in Riot! lo dimostrano, che nelle proteste americane dell’estate di Floyd si son visti uniti giovani bianchi e afroamericani, latinos e di altre etnie, è anche vero che, soprattutto oggi nell’era post-Obamiana, non saper cogliere il fatto che il semplice identitarismo “del colore”, in un contesto in cui una parta, anche se piccola, di afro-americani fa ormai parte dell’establishment e della medio-alta borghesia statunitense, potrebbe rivelarsi un errore politico-ideologico utile soltanto a dividere ancor più un proletariato già sufficientemente frammentato e ancora troppo spesso nemico di se stesso al proprio interno.
Una replica, ancor più drammatica per le sue conseguenze sociali e conflittuali, di ciò che il movimento hollywoodiano Me Too ha effettivamente rappresentato nel voler conglobare intorno ad un unico fattore la questione femminile, dimenticando oppure volontariamente rimuovendo le enormi contraddizioni di classe che pure sussistono al suo interno.

L’assurdità di un’impostazione puramente identitaria e nazionalistica si manifestò pienamente, anche se questo travalica i limiti cronologici dei saggi contenuti nel testo, nel 1928 quando, nel corso del VI congresso di un’Internazionale Comunista in via di definitiva stalinizzazione, furono adottate le tesi proposte da Haywood e Charles Nasanov, del PCUSA, che sostenevano che i neri negli Stati Uniti erano un gruppo nazionale separato e che gli agricoltori neri nel sud erano una forza rivoluzionaria incipiente, a causa del loro essere oppressi dal sottosviluppo economico e dalla segregazione.

Nonostante questa teoria dividesse il partito americano, compresi i comunisti afroamericani – notevoli oppositori includevano il fratello di Haywood, Otto Hall, che riteneva che in tal modo si ignorassero le differenze di classe nella comunità nera e non che tale risoluzione non fosse appropriato per le condizioni americane, e James W. Ford, che credeva che il il dibattito teorico sul fatto che i neri costituissero una nazione distinta era una distrazione dalla costruzione dell’appartenenza nera – il Comintern ordinò al partito di insistere sulla richiesta di una nazione separata per i neri all’interno di una fascia di contee con una popolazione a maggioranza nera che si estendeva dalla Virginia orientale e dalle Carolinas attraverso la Georgia centrale, l’Alabama, le regioni del delta del Mississippi e della Louisiana e di alcune zone del Texas. Questa linea politica, però, non trovò mai ampio sostegno tra gli stessi afroamericani, né nel nord urbano né nel sud, poiché avevano problemi più immediati e urgenti e il PCUSA aveva pochi punti d’appoggio tra gli stessi e in quelle aree.

Quella linea sostanzialmente ancora ghettizzante, ovvero quella dell’autodeterminazione nazionale degli afroamericani da delimitare in rigidi confini geografici, non ebbe mai molto peso ed oggi riposa come un relitto sul fondo del mare delle lotte che si sarebbero sviluppate in seguito, sia livello di diritti civili che di lotta di classe. Mentre furono invece le rivolte dei ghetti e delle città degli anni ’60 a risolvere parzialmente, ma in maniera dialetticamente efficace, la questione. Proprio a queste esperienze e ai giudizi che su di esse ebbe modo di dare gran parte della sinistra rivoluzionaria e antistalinista dell’epoca è dedicata la terza ed ultima parte della ricerca, intitolata Lo sguardo telescopico sul movimento del proletariato nero statunitense negli anni ’60. Una scelta di testi che rende ancor più indispensabile la lettura di un testo collettaneo già di per sé sicuramente utile e stimolante.

Lo dimostra, a solo titolo di esempio, un articolo tratto dalla prima pagina di «il programma comunista», n. 15 del 10 settembre 1965, riferito alla rivolta di Watts, avvenuta tra l’11 e il 16 agosto di quello stesso anno:

Prima che, passata la buriana della «rivolta negra» in California, il conformismo internazionale seppellisse il fatto «increscioso» sotto una spessa coltre di silenzio; quando ancora i borghesi «illuminati» cercavano ansiosamente di scoprire le «misteriose» cause che avevano inceppato laggiù il «pacifico e regolare» funzionamento del meccanismo democratico, qualche osservatore delle due sponde dell’Atlantico si consolò ricordando che, dopo t utto, le esplosioni di violenza collettiva degli uomini «di colore» non sono una novità in America, e che, per esempio, una altrettanto grave si verificò – senza seguito – a Detroit nel 1943.
Ma qualcosa di profondamente nuovo c’è stato, in questo fiammeggiante episodio di collera non solo vagamente popolare, ma proletaria, per chi l’abbia seguita non con fredda obiettività, ma con passione e speranza.
[…] La novità – per la storia delle lotte di emancipazione dei salariati e dei sottosalariati negri, non certo per la storia delle lotte di classe in generale – è la quasi puntuale coincidenza fra la pomposa e retorica promulgazione presidenziale dei diritti politici e civili, e lo scoppio di un’anonima collettiva, «incivile» furia sovvertitrice da parte dei «beneficati» dal «magnanimo» gesto; fra l’ennesimo tentativo di allettare lo schiavo martoriato con una misera carota, che non costava nulla, e l’istintivo, immediato rifiuto di questo schiavo di lasciarsi bendare gli occhi e curvare nuovamente la schiena.
Rudemente, non istruiti da nessuno -non dai loro leader […]; non dal «comunismo» di marca URSS che, come si è fatta premura di ricordare subito «l’Unità», respinge e condanna le violenze -, ma ammaestrati dalla dura lezione dei fatti della vita sociale, i negri di California hanno gridato al mondo, senza averne coscienza teorica, senza aver bisogna di esprimerla in un linguaggio articolato, ma dichiarandola col braccio e nell’azione, la semplice terribile verità che l’uguaglianza civile e politica non è nulla, finché vige la disuguaglianza economica, e che da questa si esce non attraverso leggi, decreti, prediche ed omelie, ma rovesciando con la forza le basi di una società divisa in classi. E’ questa brutale lacerazione del tessuto di finzioni giuridiche ed ipocrisie democratiche che ha sconcertato e non poteva non sconcertare i borghesi; è essa che ha riempito e non poteva non riempire di entusiasmo noi marxisti; è essa che deve far meditare i proletari assopiti nella falsa bambagia delle metropoli del capitalismo storicamente nato in pelle bianca4.

Come sottolineano in nota i curatori, Amadeo Bordiga, autore dell’articolo, non avrebbe più ripreso esplicitamente questa intuizione, che sarebbe stata completamente abbandonata in seguito dalle organizzazioni richiamantesi alla Sinistra Italiana, ma che, in compenso, la rivolta di Detroit del 1967 avrebbe invece pienamente confermato (qui e qui). Sarebbe poi stato Jacques Camatte, uscito dal Partito Comunista Internazionale – Programma Comunista nel 1966, a riprendere e approfondire la questione posta dall’articolo di Bordiga.

Affermando, a proposito del movimento del Maggio francese del 1968, che questo era «indietro rispetto al movimento proletario nero negli USA. In seno a quest’ultimo certuni elementi hanno compreso la necessità di respingere una volta per sempre la democrazia»5. Ancora nello stesso testo Camatte aveva affermato:

negli Stati Uniti dopo il 1963 si sviluppa un potente movimento nero che dichiara, attualmente, che il fine del movimento non è l’emancipazione del nero, ma quella dell’Uomo, che la società che esso desidera si “avvicina” a quella che Marx descrive sotto il nome di società senza classi. Per questo il movimento del Maggio-Giugno 1968 rappresenta lo straripare di un fenomeno dapprima limitato agli Stati Uniti dove il movimento ha già raggiunto un livello teorico che lo colloca in primo piano e che farà sì che sarà un elemento determinante della riunificazione della classe su scala mondiale6.

Mentre in un altro testo successivo può concludere che: «Il dato immediatamente più importante era che si aveva a che fare con un movimento rivoluzionario che non poneva una determinazione classista, che quindi esprimeva bene l’esigenza indicata in Origine e funzione della forma partito (qui): una rivoluzione a titolo umano»7. E poi a proposito delle lotte di liberazione nazionale avvenute in Africa nel corso degli anni ’60 e delle loro conseguenze politiche:

fummo portati a riconoscere che la lotta delle razze si rivelava talvolta molto più rivoluzionaria della lotta delle classi […] Inoltre non era possibile restare insensibili all’aspetto puramente umano della cosa: la fine di un assoggettamento; l’affermazione di una dignità umana acquisita grazie all’indipendenza e alla scoperta di un’umanità che era stata schernita, negata per secoli. […] Il movimento di liberazione fu molto importante per i neri che nel 1960 acquistarono l’indipendenza; certamente si trattò dell’emancipazione del nero e non dell’uomo, ma ciò ebbe notevoli conseguenze per esempio sul movimento rivoluzionario dei neri statunitensi […] L’essenziale è però che gli algerini, i neri, ecc. non siano più ridotti ad uno stadio peggiore di quello delle bestie8.

Ancora nel suo scritto Il KAPD e il movimento proletario (1971), Camatte sarebbe tornato a sottolineare il tema della «classe universale»: «La dissoluzione della società è ormai in atto negli Stati Uniti. L’unità del proletariato come classe universale non può rendersi manifesta che attraverso una lotta tenace, decisa, senza compromessi, contro il capitale e in un certo senso attraverso una lotta in seno alla classe universale stessa. Non si tratta di rivendicare la ristrutturazione del proletariato nella sua classica figura il che equivarrebbe a voler restaurare il passato come hanno compreso certi rivoluzionari neri americani (Boggs9 per esempio)»10. Questione già ribadita, in qualche modo, in un altro scritto del 1969:

Nelle azioni del proletariato nero degli USA possiamo vedere all’opera questa comunità d’azione non precostituita, spontaneamente strutturata sulla base di un vitale bisogno di superamento e di festa, e sulla immediata consapevolezza dell’identità di obbiettivi: l’unificazione , in una parola, del movimento reale della classe. Assistiamo, cioè, al prodursi di quelle condizioni che già Marx, all’epoca del formarsi della Prima Internazionale, aveva colto come momenti cruciali nella formazione del partito comunista mondiale, prodotto storico necessario delle contraddizioni della società del capitale. Il momento più importante di questa manifestazione del comunismo nella prassi è costituito dal superamento della democrazia, vale a dire dal rifiuto del proletariato – quando esso giunge a porre in primo piano le proprie necessità reali – i accettare una qualunque divisione fra decisione e azione, […] su cui si è fondato il meccanismo di rappresentanza democratico-dispotica nell’ambito della vecchia arte di organizzare la società, cioè della politica. […] Questa è l’essenza non stravolgibile di tutto cò che la rivoluzione ha affermato, a partire dalle metropoli del «capitalismo più avanzato»11.

Nonostante non si possano citare tutti gli altri saggi, attuali e passati, presenti nel testo edito da Colibrì, val la pena di citare ancora un breve passaggio, tratto da uno scritto di Guy Debord:

Gli abbozzi di nazionalismo nero, separatista o filo-africano, sono solo sogni incapaci di risponder all’oppressione reale. I neri americani non hanno patria, sono in America a casa propria e alienati, come gli altri americani, ma sanno di esserlo. Così non sono il settore arretrato della società americana, ma il suo settore più avanzato. Sono il negativo dell’opera. «E’ il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia determinando la lotta» (Karl Marx, Miseria della filosofia)12

E’ evidente la distanza, oggi assolutamente incolmabile, tra queste chiarissime riflessioni e ipotesi rivoluzionarie e la trappola democratica e politcally correct che con qualche usurato diritto e la rimozione di alcune statue e titoli di film o romanzi vorrebbe accontentare una fame di comunità e uguaglianza reale che, invece, rimarrà insaziabile fino a quando non saranno abbattute le basi della società capitalista divisa in classi. Così come sembra volerci ricordare Paul Mattick Jr. a conclusione dell’articolo già precedentemente citato:

La reazione collettiva all’assassinio di George Floyd ha dimostrato che a volte il vaso è troppo pieno, che basta un’altra goccia per farlo traboccare. Avendo visto che questa reazione potente e magnifica aveva prodotto poco più che un aumento nella rappresentazione dei neri nella pubblicità, la gente si è comprensibilmente stancata degli scontri quotidiani con la polizia; e in molti hanno sperato che un paio di politici facessero qualcosa di significativo per tutti noi. Di fronte a questo ulteriore fallimento, saremo costretti ancora una volta ad affrontare il vero problema: non un temporaneo allontanamento dalla norma americana, da correggere con un ritorno a qualche passato immaginario, ma la natura sociale della nostra stessa realtà sociale presente13.

Soltanto due cose sono ancora da segnalare, prima di chiudere la recensione di un testo vulcanico e profondo. La prima è la ricchezza di dati e di immagini che accompagna tutto il testo con schede e ampie cronologie degli avvenimenti. La seconda è l’uso della parola «negro» in tanti testi, anche del movimento anarchico, degli anni ’60. Forse, verrebbe da dire, meglio l’uso di quel termine che indica il nemico dell’ordine esistente e delle sue leggi e della sua morale che il tentativo di addolcire il presente, oltre che la storia, e suoi frutti, nel tentativo di addormentare la coscienza profonda di chi, comunque, è costretto a portarne le stimmate sulla propria pelle, attraverso la semplice rimozione di un aggettivo.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento