Strappare sospiri alle onde

Mediterraneo centrale, oggi: l’imprescindibilità di soccorritori e soccorritrici che, a bordo di navi gestite da organizzazioni umanitarie, traggono in salvo migliaia di persone che rischiano la vita per raggiungere l’Europa. La trentunesima puntata della rubrica “Suture”, a cura di Valeria Andreolli.

Il sole è una palla incandescente che non disegna ombre su questa distesa piatta e monotona, illumina indiscriminatamente ogni cosa gli si piazzi sotto. Non fa distinzioni. Così come non ne fa il mare che ondeggia sotto di esso. Bagna allo stesso modo ogni superficie che tocca: le lamiere della nave su cui poggi i piedi, la plastica dei gommoni che arrancano carichi di persone, il legno dei pescherecci, la pelle dei morti e dei sopravvissuti.

La passione per il mare ti era stata trasmessa dal tuo nonno materno con cui da bambina passavi giornate intere al largo a farti narrare precetti e aneddoti che nessun corso di nautica ti avrebbe mai insegnato. Il mare ti piaceva perché lo avevi sempre considerato un amico, una culla dove rifugiarti dalle preoccupazioni e dai problemi della terra ferma. Erano state le immagini alla tv e i titoli sui giornali a farti scoprire, maldestramente, l’altra faccia di quella distesa cristallina e pacata, ad insegnarti che il mare non sempre è amico, non per tutti. Dal momento in cui hai assunto questa consapevolezza, non sei più riuscita a guardarlo con gli stessi occhi, hai cominciato a sentirlo sporco, contaminato, ostile; hai perso la spensieratezza con cui salivi sulle barche, tanto che ad un certo punto quelle uscite al largo han cominciato a costarti molto più di quanto ti davano e hai deciso di non farle più. Poi un giorno di fine luglio stavi lavando i piatti in cucina e una voce alla radio della stanza accanto, con tono monotono ed impassibile, aveva snocciolato una serie di numeri: i morti, i vivi, i dispersi, un elenco sterile e tragico che avevi ascoltato troppe volte. Ma quel giorno questo costante ridurre delle persone a cifre anonime ti aveva esasperato, ti aveva aperto gli occhi sul fatto che forse il tuo posto non era da questo lato dello schermo, ma dentro quelle immagini dalle tinte azzurre ed arancioni. Due mesi più tardi eri su una nave qualche chilometro più a sud di Lampedusa a scrutare il mare, come stai facendo ora, avidamente, con un cannocchiale in mano, gli occhi spalancati e la pretesa di inghiottire con lo sguardo la fetta di acqua più grande possibile. Perché, per quanto paradossale possa sembrare, questa distesa che non offre ostacoli alla vista nasconde, rapisce, uccide.

Il primo salvataggio ti cambia la vita, te lo avevano detto tutti, perché è in quel momento che le immagini che avevi visto tante volte alla tv e suoi giornali si fanno carne, grida, sudore ed acqua esasperante. È allora che, per la prima volta, devi imparare a vincere il panico e l’impotenza e afferrare quante più mani, polsi e braccia possibili, devi imparare a scambiare solo sguardi fulminei con gli occhi spaesati ed imploranti che, dal bel mezzo del mare, cercano i tuoi, perché ci sarà il tempo per ascoltarli, quegli occhi, ma non ora, ora bisogna solo strapparli al gommone che potrebbe rovesciarsi da un momento all’altro e poggiarli su una superficie amica. Perché la morte, in questo insidioso deserto blu, è sempre in agguato: è nell’odore insopportabile della nafta, nella gola asciutta di una bambina, nello sbilanciamento del gommone sfondato dal troppo peso, nelle braccia irrequiete di un ragazzo che non sa nuotare, nel giubbotto di salvataggio lanciato qualche metro troppo lontano; è nei corpi che si inabissano e poi tornano a galla inerti, nei sacchi bianchi che accompagnano il vostro ritorno sulla terra ferma. Anche il primo cadavere ti ha cambiato la vita, ti ha fatta piangere, arrabbiare e pensare all’ingiustizia di dover morire nello sforzo per raggiungere il lato ricco del Mediterraneo in cui tu ti sei trovata a nascere senza aver fatto nulla per meritarlo.

A pochi metri da te un tuo collega, un ragazzo tedesco pressappoco della tua età, è impegnato nello stesso esercizio di contemplazione del mare. Ti volti verso di lui, lo guardi e gli sorridi. Durante queste spedizioni, i membri dell’equipaggio diventano la tua famiglia, è con loro che condividi la frustrazione che segue un naufragio, la gioia di un salvataggio completo, la trepidante attesa dell’assegnazione di un porto e la bellezza dei volti stanchi, ma accesi che popolano la nave. Perché questa famiglia si allarga e si ricrea ad ogni viaggio di rientro: comprende Samber, che ha un occhio gonfio e dice di non vederci bene; Catherine, che non parla nessuna delle lingue che parli tu ma che sembra capisca tutto; Ali, che ha la schiena piena di bruciature guadagnate nelle carceri libiche; Mohamad, che ha con sé la fotografia di una donna con gli occhi chiari e un velo colorato sul capo; Josette, che è stata violentata da tanti carcerieri che non sa dare un volto al padre del bambino che tiene in grembo; Fatiah, che si lascia alle spalle il suo villaggio sulle colline nigeriane raso al suolo da Boko Haram; Saïd, che ci ha messo due giorni prima di regalarvi un sorriso; Brahim, che ha già tentato la traversata del Mediterraneo due volte; Moussa, che è un ingegnere informatico alla ricerca dell’opportunità che non ha avuto in Ghana; Yussif, che ha attraversato il deserto nascosto per nove giorni sul rimorchio di un camion che trasportava pecore. Anche Magdi è parte di questa nuova grande famiglia improvvisata. È nato proprio qui, poco dopo che la sua mamma era stata tratta in salvo da un gommone che stava cominciando ad affondare, ed è stato accolto con canti e balli.

Durante i rientri al porto, la nave si trasforma: si colora dei disegni dei bambini appesi alle pareti e delle magliette stese ad asciugare al sole, si riempie degli odori di verdure cotte e riso bollito preparati in quantità industriali, si fa ambulatorio, farmacia e sala parto, si prodiga in un concerto di respiri che animano il sonno, spesso agitato, sotto le stelle del pontile. Questa nave che sembrava così grande e tranquilla diventa improvvisamente piccola ed affollata, ed è più bella così.

Qualcuno dall’altro lato della nave urla che vede qualcosa all’orizzonte. Le imbarcazioni sono talmente piccole che i radar non riescono ad identificarle. Il comandante esce immediatamente dalla cabina. Abbandoni in fretta la tua postazione per raggiungere quella da cui è partito il segnale.

Probabilmente è arrivato il momento di scendere sul micidiale confine tra mare e cielo.

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