Il Sudan è stato tra i paesi più intensamente attraversati dal ciclo globale di lotte del 2019. Poco più di due anni fa, il movimento popolare sudanese rovesciava il governo di Omar al-Bashir per poi scontrarsi con i vertici dell’esercito, pagando un alto costo in vite umane. Il risultato fu un compromesso in cui un governo di militari e civili avrebbe dovuto condurre il paese attraverso un processo negoziato di transizione politica. Tuttavia, il 25 ottobre di quest’anno i militari hanno ripreso il potere, reprimendo duramente le proteste contro il golpe. Per capire che cosa sta accadendo, proponiamo questa analisi la cui versione originale in inglese è stata pubblicata da Mada Masr. Traduzione di Lorenzo Feltrin.
Poco più di un mese fa, in Sudan, un golpe militare ha messo fine alla partnership civico-militare che aveva sostituito il governo di Omar al-Bashir dopo che la rivoluzione del 2019 aveva fatto cadere il dittatore, al potere per quasi trent’anni. I militari hanno arrestato il Primo Ministro Abdalla Hamdok e altri membri del governo. Nelle settimane seguenti, l’esercito e le sue milizie – le Rapid Support Forces – non hanno perso tempo. Hanno nominato un governo “tecnico” (ovvero allineato), sospeso internet e brutalmente represso le manifestazioni pacifiche contro il golpe e il sabotaggio della rivoluzione. In questo periodo, Hamdok è stato il simbolo della rivoluzione rubata: tradito dai militari, detenuto illegalmente, impossibilitato a comunicare con i cittadini che esigevano il suo ritorno. La sua figura rappresentava l’autorità morale della protesta contro il golpe. Fino a che, per ragioni che né lui né i suoi collaboratori hanno spiegato coerentemente, Hamdok ha accettato di tornare al posto di Primo Ministro. Hamdok però riprende le sue funzioni non in quanto capo di un governo civile che ha sconfitto il tradimento dei vertici militari e rimosso dalla politica sudanese gli alleati dei golpisti nelle forze armate e nelle milizie. Ritorna invece come una foglia di fico per il golpe, uno strumento per legittimare i militari e rappacificare le proteste.
Le intenzioni dei militari e dei loro alleati sono chiare. La traiettoria del golpe è stata più accidentata del previsto, nonostante i tentativi di spianargli la strada. La vittoria immediata dei militari, ottenuta con la mera forza, non è riuscita a darsi alcuna legittimità o giustificazione morale. Durante i preparativi del golpe, i militari avevano surrettiziamente tentato di fomentare una marcia popolare che invocasse il ritorno dei colonnelli per ristabilizzare l’economia. Ma tale “protesta” è stata lungi dal massificarsi. Non potendo fingere che il golpe fosse una decisione presa a furor di popolo, l’esercito si è accontentato di dichiarare che i colpi di stato non c’entrano e che si tratta semplicemente di una “correzione” resa necessaria dall’irresponsabilità di alcuni membri civili del governo. Ma neanche questo ha funzionato, come rapidamente dimostrato dal fatto che né il popolo sudanese né la comunità internazionale hanno accettato il golpe. In particolare, le mobilitazioni di strada sono state tenaci, organizzate da comitati per la resistenza nelle piazze e nei quartieri, determinate anche di fronte ai proiettili e agli arresti, indifferenti al blackout di internet. Nelle ultime settimane, il governo militare non ha avuto un momento di tregua. Il convergere di manifestazioni, proteste e atti di disobbedienza civile ha rivelato un’intransigenza continua. Così, il regime ha giocato una terza carta per imporre la pace sociale, l’accordo con Hamdok per il suo ritorno al posto di Primo Ministro.
È difficile giustificare la scelta di Hamdok. Raramente la popolarità di un politico crolla così rapidamente. Le piazze hanno immediatamente respinto quello che sembra un ritorno alla situazione pre-golpe, ma che in realtà è solo il ritorno di Hamdok a una posizione di autorità ormai meramente simbolica. Hamdok ha commesso un enorme errore nel ritenere il popolo sudanese tanto ingenuo da credere che il Primo Ministro avrebbe avuto un potere reale nel nuovo regime militare e che il suo ritorno fosse una sorta di sconfitta dei militari. Le dichiarazioni pubbliche di Hamdok dopo la sua liberazione sono state banali e inadeguate rispetto alla rabbia e all’urgenza espresse dalle proteste in un paese dove molti stanno piangendo i caduti assassinati dai suoi alleati di governo mentre lui era in prigione. Hamdok non ha nemmeno dato chiare risposte alle critiche secondo cui il suo ritorno significa di fatto una partecipazione al golpe. Ha presentato la sua decisione come dettata da un travagliato pragmatismo. L’obiettivo, secondo le sue esternazioni, sarebbe quello di fermare lo spargimento di sangue e stabilizzare un paese a rischio di guerra civile.
Al momento, il suo presunto sacrificio sembra vano e potrebbe aver addirittura esacerbato la situazione. Le proteste e le manifestazioni continuano con più rabbia. Il ritorno di Hamdok al governo ha mostrato che il conflitto dipanatosi a partire dalla caduta di Bashir nel 2019 non è solo tra militari e civili. Si tratta invece di una frattura molto più profonda tra il popolo e la classe da cui provengono i dirigenti, militari o civili che siano.
Questa classe è finora riuscita a ricomporsi costantemente in modo da mantenere il potere, attraverso coalizioni civico-militari o, più di recente, tramite accordi con leader ribelli che si sono sempre più trasformati in mini-sultani delle zone storicamente più marginali del Sudan. Tali amalgami di repressione e cooptazione sono riuscite a tenere a bada proteste dal basso. Ma la durevolezza e la solidità delle élite urbane si stanno erodendo. Da un lato l’esercito è stato indebolito e impoverito dai governi di Bashir, che preferivano esternalizzare la violenza ai gruppi di vigilantes e alle milizie. Dall’altro lato, l’élite civile e tecnocratica era già ristretta, concentrata nella capitale e isolata dal resto della società. Ora è disorientata in un paese che per anni è stato governato da militari senza scrupoli, signori della guerra e cartelli affaristici che si sono arricchiti accaparrando e vendendo le profittevoli risorse naturali del Sudan. Queste forze dominanti costituiscono in sostanza la coalizione che ha appoggiato il golpe del mese scorso. Ma la frammentazione e molteplicità degli attori controrivoluzionari, i loro interessi contrastanti e diffidenze latenti – residuo dei conflitti in cui si trovavano dalle parti opposte della barricata – rende fragile la loro coalizione. Non è affatto garantito che siano in grado di stabilizzare il paese attraverso azioni concertate. È chiaro che Hamdok è stato arruolato in questa coalizione, ma l’immediato rifiuto popolare di tale cooptazione rivela che le manovre di palazzo non convincono più le masse sudanesi, le quali capiscono che i propri interessi non saranno mai serviti dall’esercito al potere.
La cattiva notizia è che, non avendo il ritorno di Hamdok placato il dissenso, altri manifestanti moriranno, poiché il paese è stretto in un conflitto tra mobilitazioni di piazza e forze armate che può terminare solo con un massacro o con il capovolgimento del golpe. Il primo scenario è più probabile del secondo. La buona notizia è che la continuazione delle proteste segnala che il vecchio sistema politico, i cui protagonisti cambiano ma che si caratterizza per l’accumulazione di ricchezza e potere a spese dei più, è definitivamente delegittimato. L’unica via d’uscita è l’interruzione del passaggio del testimone, attualmente in corso, a una nuova classe estrattiva. Accettare il golpe potrebbe salvare delle vite, ma sarebbe fatale per la società sudanese stessa.