Il pianto e l’urlo

di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino, dopo la sosta forzata del lockdown, i corsi liberi, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: e tra l’altro la terza stagione di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti. Si propone qui uno stralcio dal libro XVIII: Patroclo è caduto sul campo, i capi achei si sono serrati attorno al suo corpo per difenderlo e hanno mandato il velocissimo Antiloco a portare la notizia ad Achille.]

Subito dopo Ettore

Mentre i compagni nella piana, attorno al corpo, lottano come fuoco che avvampi, Antiloco arriva di corsa da Achille. E lo trova davanti alle navi, «che sospettava nell’animo quanto era cosa compiuta»: ovviamente si sta domandando perché gli Achei siano di nuovo incalzati indietro, in rotta per la pianura.

Temo che i numi compiano sciagure tristi al mio cuore,

come un giorno la madre m’accennava e diceva

che il migliore dei Mirmídoni, me tuttora vivente,

sotto le mani dei Teucri doveva lasciare la luce del sole.

Normalmente si pensa alle profezie fatte ad Achille su di lui e la sua morte: e già si è visto che nell’Iliade il tema è più sfuggente di quanto il mito postomerico canonizzerà. Ma la profezia che avrebbe potuto angosciarlo maggiormente – e solo ora collega a Patroclo, perché sub XVI 50 s. gli aveva smentito di conoscere rumors profetici per lui – riguarda il migliore dei Mirmidoni. Forse l’aveva interpretata come riferibile a qualcun altro (tecnicamente il locrese Patroclo sarebbe mirmidone solo d’adozione), forse l’aveva rimossa o piuttosto si tratta dell’ennesima contraddizione del poema: si è anzi pensato per il passo presente a un’invenzione estemporanea a fini drammatici, come nel caso di altre figure del mito che si trovano a ricordare all’improvviso, al loro compiersi, profezie che li avrebbero riguardati. Comunque ora comincia a dirsi che Patroclo è morto: un’angoscia che rimanda ancora all’idea di penultimità di cui è intessuto tutto il poema, quella dei fatti già consumati ma che per noi non sono ancora certi, col rovello di un mondo già virtualmente frantumato in noi, ma per ora soltanto nel segno del timore. Glielo aveva detto, di tornare alle navi dopo aver rintuzzato i nemici, di non affrontare Ettore…

E mentre così si angoscia, arriva Antiloco. E piange. E gli dà la notizia:

“Ah! figlio di Peleo cuore ardente, molto amara

notizia saprai, cosa che non doveva accadere;

Patroclo è a terra e intorno al corpo combattono,

nudo: l’armi le ha Ettore elmo lucente!”

Disse così; e una nube di strazio, nera, l’avvolse:

con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa

se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello [probabilmente Achille è immaginato sbarbato];

la cenere nera sporcò la tunica nettarea;

e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,

giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.

Possiamo sentire più o meno vicino questo tipo di manifestazione del dolore (espressione di un cordoglio spontaneo, attestato anche in altre culture mediterranee, che differisce dal lamento ritualizzato): ma comprendiamo bene il contenuto. Anzitutto c’è la dimensione della perdita, qui la morte improvvisa e terribile di un compagno caro a tutti, ma in particolare da Achille teneramente amato: un rapporto che nel testo omerico non esplicita ancora quei connotati omoerotici poi presenti almeno a partire dai perduti Mirmidoni di Eschilo. Anche se può essere utile fino a un certo punto avanzare troppi distinguo sul tipo di rapporto che li lega: certo di amicizia profondissima e dialogo continuo, ma non necessariamente esclusivo di qualche dimensione erotica e fisica. Però il problema non è solo la perdita in sé: il fatto è che Achille sta rivedendo come in moviola quanto ha vissuto lui stesso, la terribilità di un desiderio esaudito, una sorta di tradimento verso compagni che ha chiesto a Zeus di sanzionare con sconfitte e morte, e quello è il risultato. Il senso della misura che Menelao ha citato in più occasioni come sempre violato dai Troiani, Achille non l’ha rispettato nella sua ira, e quello è il risultato. Ad arrivargli addosso è insomma la terribilità di una categoria-morte che non si esaurisce nel fatto materiale ma colpisce tutto attorno, raggiunge le scelte passate, esonda sul sentire futuro: ed ecco di nuovo la penultimità. Quella cenere di cui Achille si impiastriccia non è dunque solo la cenere di un dolore, di tutti i giorni condivisi con Patroclo e idealmente quella del rogo funebre di lui, ma annuncia già la pira di Achille, già e non ancora morto nelle sue scelte precedenti di recedere dalla lotta e anche di permettere la discesa in campo di Patroclo, causandone in qualche modo la morte.

A quel punto ecco ululare e correr fuori attorno ad Achille anche le schiave – ci viene specificato – conquistate da lui e Patroclo: cioè ragazze fatte in fondo prigioniere nell’eccidio dei loro cari, traumatizzate e (parliamoci chiaro) probabilmente stuprate, anche se a paragone dei re colleghi i due capi mirmidoni hanno mostrato una non comune delicatezza verso di loro. Sono «straziate in cuore», si battono il petto e a tutte si sciolgono le gambe, e più avanti il Cieco chiarirà meglio come la morte di Patroclo finisca col richiamare per risonanza i personali dolori di ciascuna. Ma in quello strazio ci sono anche un obbligo impastato di timore verso i propri padroni, un riflesso rituale di solidarietà verso l’enormità dell’evento-morte, e forse insieme un genuino dolore. Qualcuna di loro può aver condiviso il letto di Patroclo, uomo attraente in tutti i sensi e gentile anche verso le ragazze prigioniere (per non parlare di meccanismi come la sindrome di Stoccolma, che probabilmente è sempre esistita).

E dall’altra parte piange Antiloco, tenendo le mani di Achille che singhiozza, timoroso che si sgozzi per il dolore. «Gridava terribilmente», e lo sente la madre Teti, seduta accanto al padre Nereo negli abissi del mare. Lo sente ma – scopriremo tra poco – non sa perché soffra, sente solo le sue grida di dolore: e da quelle profondità – che sembrano richiamare per omologia poetica le stesse profondità del dolore di lui, ma soprattutto quelle di una viscerale partecipazione materna – quelle grida le strappano un gemito, e le sorelle Nereidi le si fanno intorno. Il Cieco qui ne cita trentatrè – oltre a lei, Glauche, Talia, Cimodocea, Nesea, Spio, Toe, Alie, Attea, Cimotoe, Limnorea, Melite, Iera, Anfitoe, Agave, Doto, Proto, Ferusa, Dinamene, Dessamene, Anfinome, Callianira, Doride, Panopea, Galatea, Nemerte, Apseude, Callianassa, Climene, Ianira, Ianassa, Maira, Oritia, Amatia – però aggiunge «e l’altre Nereidi che son nell’abisso del mare». In effetti Esiodo ne menziona cinquantuno, autori successivi parlano di numeri tra i quarantacinque e i cinquanta, ma il Cieco lascia l’elenco aperto come a richiamare il mistero delle pluralità teologiche, persino rimarcato in questo caso dall’ignoto delle profondità marine. Si è proposto di escludere questo elenco (già assente in alcune “edizioni” antiche del poema, per esempio quella di Argo) che spezzerebbe il ritmo, ma in realtà il problema emerge nel caso di tutti i diversi cataloghi del poema, che consegnano agli ascoltatori la memoria necessaria; quanto all’ipotesi che si tratti di un’imitazione esiodea, non si può invece neppure escludere che l’uno e l’altro attingano a una fonte precedente.

«La grotta splendente fu piena di loro: e tutte insieme / si battevano il petto», in una sorta di enorme coreografia in eco del dolore di lei: e Teti inizia il lamento rivolgendosi alle sorelle, perché sia chiaro a tutte – sottolinea – quanto strazio abbia in cuore. Lei infelice, madre di un figlio eccelso tra gli eroi, l’ha «cresciuto come un germoglio, / […] allevato come pianta in conca di vigna, / e […] mandato a Ilio con le navi curve», ma non lo riavrà vivo dalla guerra nella casa di Peleo (mostrava di conoscere una sua morte prematura già in I 416 s. e 505, qui aggiunge che ciò si consumerà prima del suo ritorno da Troia, e si è evinto che il Cieco non conosca ancora la storia della separazione di Teti da Peleo poco dopo la nascita di Achille). E il paradosso è che

[…] mentre ancora l’ho vivo, mi vede la luce del sole,

è afflitto, e io non posso, anche andando, aiutarlo.

Ma andrò per vedere la mia creatura e sentire

che pena l’ha colto mentre è fuori dalla guerra.

Così lascia la grotta e le sorelle la seguono in lacrime, e intorno a loro si apre la schiuma del mare: e, raggiunta la spiaggia di Troia, vi salgono in fila presso le navi dei Mirmidoni. Achille è lì che singhiozza: la madre si avvicina e con un lamento gli prende la testa tra le mani (gesto di protezione, ma che fa pensare a quelli del compianto funebre), e commossa gli pone la stessa domanda, con le stesse parole – creatura, perché piange? quale strazio ha colto il suo cuore? – di quando era stato oltraggiato da Agamennone e si disperava. Un ricordo che probabilmente finisce con lo straziarlo persino più a fondo: tanto più che Teti chiede di spiegarle, vorrebbe capire, in fondo Zeus ha fatto proprio come lui ha chiesto, la rotta degli Achei fino alle navi, e il loro doloroso incassare l’assenza di lui…

E Achille risponde con un gemito pesante che sì, Zeus ha fatto tutto quello, «ma che dolcezza è per me, s’è morto il mio amico», quel Patroclo che per lui era più degno d’onore tra tutti, quanto la sua stessa vita: una condivisione empatica tra guerrieri che diventa quasi identificazione e che ha fatto pensare al rapporto tra Gilgameš e l’amico Enkidu, attraverso una lunghissima tradizione eroica. «L’ho perduto!»: un’espressione dove si avverte tutto il senso del perdere, dolore, apnea, fallimento, frustrazione… Ed Ettore che l’ha ucciso – aggiunge, ciliegina sulla torta – si è preso le armi che gli dei avevano dato a papà Peleo quando avevano fatta entrare lei, Teti, nel letto di un mortale: un’espressione amarissima su quelle nozze in fondo pilotate – diranno i mitologi – per rendere innocuo alla stabilità olimpia il figlio più grande del padre che Teti era destinata a partorire. Ma sarebbe stato meglio, aggiunge Achille, che lei se ne fosse restata in mare tra le sorelle immortali e Peleo si fosse scelta una donna mortale: tanto più che il dolore adesso raggiungerà anche Teti, non appena lui stesso, Achille, sarà ucciso senza rivedere la patria. Infatti non  ha più voglia di vivere e di restare tra gli uomini, se prima non avrà ammazzato Ettore a ripagare della morte di Patroclo.

«Teti allora versando lacrime disse: / “Ah! sei vicino alla morte, creatura, come mi parli. / Subito dopo Ettore t’è preparata la Moira”»: ed eccola, la profezia che definisce compiutamente il senso della penultimità per Achille. La morte di Ettore precede di poco quella di Achille: e a quest’esito fatale conduce tutto l’itinerario dell’Iliade.

In un complicato puzzle di allusioni e profezie parziali ecco l’ultimo tassello che va a posto. E Achille incassa, con un gemito grave: vorrebbe morire anche subito, lui che ha lasciato l’amico morir solo, lontano dalla patria, senza difenderlo. Lui che in patria non deve tornare, che non saputo esser luce né a Patroclo né ai compagni né a tutti gli altri massacrati da Ettore, e ora siede lì presso le navi, «inutile peso della terra», lui che almeno sul campo – non in consiglio, dove eccellono altri – resta il più forte dei Danai… (sul tema del peso su Gea/Terra ricordiamo che proprio per sgravarla da quello eccessivo dell’umanità, secondo un topos documentato anche presso altre culture, gli dei avrebbero deciso le guerre di Tebe e di Troia). Ma a questo punto in lui sta scattando qualcosa: Achille non è Agamennone, la cui risposta ai constatati errori è un vittimismo da bullo. Potesse la discordia – medita Achille – svanire per sempre dal cuore degli dei come degli uomini, e anche quella collera che vince persino chi è saggio con le sue seduzioni (è detta molto più dolce del miele) e cresce come fumo nei petti degli uomini come avvenuto a lui con Agamennone… Ed ecco la svolta: basta, è necessario superare il passato pur con tutto l’avvilimento e soffocare la rabbia. Per cui adesso andrà a scovare chi ha ucciso la sua vita (letteralmente la sua testa), appunto Ettore, e accoglierà la Chera di morte quando vorranno Zeus e gli altri dei (qui il Cieco sembra alludere al ruolo di Apollo nella futura morte di Achille). In fondo neanche il supereroe Eracle, tanto caro a Zeus, ha potuto evitarsela, domato dalla Moira e dall’ira di Era. Lo stesso varrà per lui: ma adesso – ringhia –

[…] voglio aver nobile gloria

e ognuna delle Troiane, delle altocinte Dardanidi

con tutte e due le mani sulle tenere guance

asciugando le lacrime voglio far singhiozzare,

capiscano che da troppo manco io dalla guerra.

E tu non trattenermi, anche se m’ami: non potrai persuadermi!

Teti gli risponde triste che «è vero, creatura», è bene che soccorra i compagni in pericolo. Però gli ricorda che le sue armi sono in mano troiana, ed Ettore si vanta d’indossarle: certo non potrà farlo a lungo, la morte gli si avvicina. Ma Achille non si lanci in battaglia prima di vederla tornare, alle prime luci del sole che sorge, con le armi confezionategli dal signore Efesto. Quindi, voltatasi, si rivolge alle sorelle: tornino a immergersi, vadano a raccontare tutto al vecchio del mare loro padre, mentre lei sale all’Olimpo. Per vedere se Efesto è disposto a dare a suo figlio armi congrue…

L’urlo

Le sorelle Nereidi tornano dunque a immergersi, e Teti sale all’Olimpo. E intanto gli Achei in rotta, con un enorme grido, ripiegano verso le navi e fino all’Ellesponto, incalzati da Ettore: compresi i quattro dell’oca selvaggia a difesa del corpo di Patroclo (Menelao e Merione che lo trasportano sollevato, i due Aiaci che li coprono), bersagliati dai dardi, di nuovo raggiunti da guerrieri e carri e da Ettore stesso dall’ardore come fuoco. Che tre volte prende il corpo per i piedi, chiamando in aiuto i compagni, e tre volte gli Aiaci lo ricacciano indietro: ma lui, conscio della propria forza, tra attacchi e ritirate non cede. Come i pastori non riescono a staccare un leone da una carogna, così gli Aiaci non riescono ad allontanare Ettore: che riuscirebbe a strattonar via il cadavere a gran gloria propria, se non succedesse qualcosa d’imprevisto.

Iri piededivento piomba infatti al volo da Achille comandandogli di armarsi, «di nascosto da Zeus e dai numi; Era l’aveva mandata»: lui che è il più tremendo degli uomini accorra a difendere Patroclo, attorno al quale s’è scatenata una lotta selvaggia davanti alle navi, con gente che dai due lati muore per strappare quel corpo. E soprattutto vuole prenderlo Ettore: «il cuore lo spinge a infiggere / la testa, tagliata dal molle collo, sui pali» che dovevano sormontare la cinta muraria. Al di là di pratiche rituali a testimonianza del compimento di una vendetta di sangue (XVII, 39), la decapitazione del cadavere del nemico rientra tra gli usi arcaici che l’Iliade vede consumati – specialmente da guerrieri di particolare ferocia – nel vivo dello scontro (Aiace Oilide, XIII, 202; Peneleo, XIV, 497; Achille, XX, 481), ma non all’esterno di esso, al di là dei propositi manifestati: il Cieco sembra censurare criticamente simili orrori, mostrando forme di sconcio di corpi nemici – quello di Ettore a opera di Achille, come vedremo – che tuttavia non arrivano fino a quel punto. I riferimenti sono però sufficienti a far pensare che, come in altre società arcaiche (e, peraltro, come poi nell’Europa medioevale), la decapitazione del cadavere del nemico sia in questo contesto una pratica non rara. Ricordiamoci comunque questa intenzione di Ettore, quando Achille strazierà il suo corpo appeso al carro, senza però arrivare a mozzargli la testa…

Comunque, esorta la dea, non se ne stia fermo, si preoccupi che l’amico possa finire alle cagne di Troia, «Biasimo a te, se fra i morti arrivasse sconciato!»: e quando Achille, che l’ha riconosciuta e identificata per Iri – che quindi non ha abbandonato il suo aspetto numinoso, del resto l’eroe è figlio di un’altra dea e forse gli è meno pericoloso vedere gli immortali – le chiede chi l’abbia mandata, spiega che è stata Era. Ma Zeus e gli altri immortali non lo sanno… D’accordo, ribatte Achille, ma come può scendere in battaglia, visto che le sue armi le hanno i Troiani e sua madre non vuole che lui si prepari prima di averla vista tornare con quelle (ha detto) forgiate da Efesto? Non saprebbe oltretutto da chi farsele imprestare, a parte lo scudo di Aiace Telamonio: dettaglio che di primo acchito farebbe pensare a una statura di Achille gigantesca quasi quanto quella del cugino. D’altra parte la sua attrezzatura è stato utilizzata, a parte la lancia, da Patroclo, per cui in teoria Achille potrebbe usare quella lasciata dall’amico… ma non ha troppo senso cercare motivazioni razionali per un episodio dov’è invece centrale il motivo dell’attesa di armi meravigliose. Tanto più che, argomenta Achille, Aiace sta usando probabilmente le proprie sul campo, a difesa del corpo di Patroclo: e a voler chiedere troppo realismo non capiremmo come i re dello schieramento miceneo non dispongano di attrezzature belliche di riserva, sia pure in funzione secondaria all’armatura preferita.

Al che Iri spiega che lo sanno bene, ma la guerra è fatta di tante cose: Achille vada sul fossato e si mostri ai Troiani, hai visto mai che il suo apparire semini il panico a sollievo degli Achei (l’osservazione che «basta breve respiro in battaglia» pare un’interpolazione). E si allontana.

Allora Achille «caro a Zeus» – l’appellativo formulare rischia qui di suonare provocatorio, ma in realtà è proprio così – balza in piedi e

[…] Atena intorno

alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,

e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube

d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.

Come il fumo salendo da una città giunge al cielo,

da un’isola lontana, che i nemici circondano;

quelli per tutto il giorno in lotta tremenda si provano,

fuori dalla città; ma col calare del sole

pire fiammeggiano fitte; alto il chiarore

sale e risplende, così che i vicini lo vedano,

se mai sulle navi accorressero, a scongiurar la rovina;

in questo modo andava al cielo la vampa d’Achille.

Una similitudine bellissima che rimanda idealmente agli attacchi pirateschi consumati proprio alla fine dell’età del bronzo dai popoli del mare.

Quindi il supereroe va a fermarsi sul fossato fuori dal muro, senza mescolarsi con le truppe achee, per attenersi al consiglio di sua madre; e «Qui ritto gridò, e Pallade Atena al suo fianco / urlava: fra i Teucri sorse tumulto indicibile». Un urlo echeggiante come la tromba di nemici che assediano una città – altro particolare molto concreto sulle modalità di far guerra all’epoca del Cieco e forse in età micenea, anche se nell’Iliade le trombe non vengono usate – e all’udirla, a tutti Troiani il cuore segna un sobbalzo. Così i carri invertono la direzione, in previsione di guai grossi, con gli aurighi istupiditi dal panico alla vista del fuoco che aureola Achille, acceso da Atena occhioazzurro. E per tre volte Achille grida forte sopra il fossato, e altrettante Troiani e alleati restano sconvolti, al punto che «dodici eroi fortissimi morirono allora, / sotto i carri e per l’aste loro proprie»: il panico uccide.

La funzione dell’episodio a questo punto è chiara, perché neppure con tutto il loro coraggio i quattro eroi col corpo di Patroclo sarebbero riusciti a salvarlo, senza quell’intervento di Achille, col suo urlo alla Munch colmo di disperazione esistenziale. Mentre ora riescono finalmente a trasportare il cadavere nel campo, lo stendono su un letto, attorno si radunano i compagni piangenti. Tra i quali lo stesso Achille in lacrime

[…] a vedere l’amico fedele

disteso sul feretro, straziato dal bronzo acuto;

l’aveva mandato col suo carro e i cavalli

in guerra, ma non lo riaccolse al ritorno.

Versi che possono sembrare formulari, eventualmente retorici, ma non lo sono affatto: il Cieco sta raccontandoci i pensieri di Achille, quella risacca di pensieri che sempre ci assedia attorno a chi muore, le cause – anche solo parziali –, le conseguenze, le ricadute sulla nostra vita… E, sia miracolo o paradosso temporale tutto interiore (perché quando muore un nostro caro il tempo assume connotati diversi), Era forza suo malgrado il sole a scendere fra le correnti d’Oceano, e quello vi s’immerge, e a quel punto la battaglia cessa. Ci si può domandare perché Era debba forzare il sole verso il tramonto, visto che si chiude qui la giornata iniziata addirittura all’inizio del libro XI, quindi assurdamente lunga: ma torniamo ai paradossi del tempo vissuto, e in fondo alla stessa percezione particolare di un tempo penultimo teso quasi a lacerarsi tra un prima e un dopo.

I due campi

Gli Achei smettono dunque di combattere; e dall’altra parte i Troiani si ritirano nella piana, sciolgono i cavalli dai carri e si raccolgono in adunanza. Un’assemblea però in piedi, nessuno siede, tutti in stato di allarme e terrorizzati per l’inopinata ricomparsa di Achille.

E prende a parlare il savio Polidamante, «egli solo guardava al prima e al dopo», oltretutto reduce dalla morte del fratello Euforbo ma anche fresco di duri scontri con Ettore – di lui compagno, nato (ci vien detto ora) la stessa notte – e con il suo patriottismo protonazionalista; ma se Ettore eccelle con le armi, Polidamante è migliore in quella parola che è anche buon senso. Per cui ora, saggio pensando, esorta gli amici a considerare la situazione nel suo complesso: il consiglio è di ritirarsi in città e non attendere l’alba nella piana, troppo vicini alle navi e troppo lontani dalle mura. Quando Achille era irato con Agamennone (possiamo immaginare che i dettagli arrivino da informatori che i Troiani possono ben avere) gli Achei erano facili da combattere, e Polidamante stesso era soddisfatto di dormire a poca distanza da quelle navi che speravano di prendere. Ma adesso di Achille ha una paura tremenda, considerando che con la sua superbia non vorrà fermarsi alla piana in cui si sta combattendo, ma punterà alla città… cioè a tutto ciò che loro hanno, a partire dalle loro compagne. «Andiamo alla rocca, datemi ascolto, sarà così»: al momento la notte l’ha fermato, ma se l’indomani li trova lì accampati, quando muoverà in armi, «troppo qualcuno / dovrà capirlo» (non necessariamente una frecciata a Ettore, ma certo un avvertimento anche per lui). E in quel caso alla protezione delle mura arriverà chi sia riuscito a scappare, ma molti dei Troiani finiranno in pasto a cani e uccelli: e badino – a scanso di equivoci o di accuse – che non vorrebbe proprio sentire simili notizie, non vorrebbe affatto poter dire che ha avuto ragione. Se gli dessero retta, sia pure a malincuore, l’esercito resterebbe la notte al sicuro tra le mura, accampato nelle piazze (nella rocca, ma Troia ha anche un’immensa città bassa), dietro le grandi porte; e all’alba piantoneranno gli spalti, e saranno dolori per Achille se tenterà l’attacco. Tornerebbe alle navi con un pugno di mosche, dopo aver girato invano col carro tutto attorno alla città… e pur con tutta la sua volontà non potrà superare le mura e distruggere l’abitato, prima di riuscirci finirebbe in pasto ai cani. Troia è imprendibile, dice insomma Polidamante (che oltretutto sappiamo valoroso guerriero): e proprio questa fama di città impossibile da conquistare, di città-labirinto che sperde gli attaccanti e le cui mura sono insuperabili, la città – potremmo dire – più imprendibile del mondo, contribuisce a spiegare la paradigmaticità di questo assedio.

Ma ovviamente la risposta di Ettore non si fa attendere, e di nuovo incassando una pessima figura. Lettori abituati a ricordare il suo ritratto idealizzato sui banchi di scuola non possono che restarne un po’ turbati: possibile che il nobilissimo Ettore, additato da un certo buonismo patriottardo di insegnanti e funzionari all’Istruzione come modello dell’eroe nazionale, che difende donne e bambini della sua terra dai cattivi invasori, sia questo ottuso bullo nazionalista che dileggia il buon senso di Polidamante? Il fatto è che l’Iliade viene avvicinata con le lenti del mondo ideologico dei propri lettori, che raramente ascoltano davvero quel che Omero dice. Troppo spesso, oltretutto, non si legge Omero per intero, a partire dalla scuola che scorcia e sconcia l’Iliade in scelte antologiche discutibili: Ettore viene congelato nel modello emergente nel famoso, umanissimo episodio dell’incontro con Andromaca e Astianatte, mentre Achille – magari sulla scorta di letture in sé splendide ma non semplicemente sovrapponibili a Omero, come la Cassandra di Christa Wolf – appare semplicemente “la Bestia”, un massacratore nazistoide. Laddove l’episodio dell’incontro di Ettore con moglie e figlio bambino, pagina splendida e struggente del poema, ha piuttosto la tragicità de La caduta degli dei di Visconti: la crisi di un’elite ambigua che sta per essere travolta dalla storia, dove Andromaca non dismette i suoi panni di principessa e (mancata) futura sovrana, ed Ettore con il suo dolente senso del dovere e l’affetto per la famiglia incassa un po’ di quell’umanità che però perde lungo tutto il corso dell’Iliade in clamorose brutte figure, sparate da tronfio protonazionalista e scelte semplicemente stupide. Omero non è interessato a giudicare Ettore, eroe coraggioso, ma certo non gli lesina una serie di pesanti critiche: il suo vero protagonista è Achille, l’eroe della penultimità che nonostante i suoi errori e il suo stato semidivino sa a un certo punto fare autocritica, tornare indietro, riflettere sui propri (e nostri) limiti umani. Non è un uomo-macchina, non è un campione protonazista: è l’eroe di un mondo arcaico capace però di porsi con sconcerto domande che ancora ci inseguono – come il rapporto tra scelte personali e destino, tra scelte ed errori, tra codici sociali ed etica. A differenza cioè di Agamennone, l’arrogante (diciamo così) presidente del consiglio che accusa sempre qualcun altro dei propri errori; e a differenza appunto di Ettore, coraggioso, nobile, animato da un senso del dovere e della comunità che Omero apprezza, ma in fondo gonfio di stolida alterigia, capace di atti di ferocia persino peggiori di quelli di Achille, convinto di vincere così una guerra d’immagine e destinato a rimanerne travolto. Leggendo l’Iliade per intero, davvero ci rendiamo conto che i fiumi di retorica sull’eroe patriota spesi per tanto tempo sull’onda di modelli puramente ideologici (con quanto di sterilmente nazionalistico si sono portati dietro per decenni) non solo non colgono la complessità del profilo di Ettore, ma neppure percepiscono che proprio tale atteggiamento conduce alla rovina di Troia contro il buonsenso di Polidamante come – ancor prima – di Antenore. Per cui, da parte di Ettore, solito approccio: certo Polidamante non dice cose a lui care, consigliando di tornare a chiudersi nella rocca. Non sono sazi, i Troiani, di restarsene chiusi tra i bastioni?

Prima i mortali la città del re Priamo

chiamavan tutti ricca d’oro, ricca di bronzo,

ma i ricchi tesori dei nostri palazzi ora sono periti,

e molte nella Frigia e nella Meonia amabile

vanno vendute ricchezze, dacché è irato il gran Zeus.

Questo è il risultato di restare incantonati, un’emorragia progressiva che li impoverisce sempre più e finisce con lo svilire l’identità stessa di Troia. E ora che Zeus ha concesso a Ettore di acquistar gloria presso le navi e respingere gli Achei fino al mare – la logica insomma dei fatti concreti, che la retorica politica (di tutti i tempi) ama vantare –, ora Polidamante si guardi bene, stolto, dal diffondere le sue proposte tra il popolo, «nessuno t’obbedirà dei Troiani, io non vorrò. / Ma su, come io dico facciamo tutti d’accordo» (come a dire questo è l’ordine e voi sarete senz’altro d’accordo): prendano cena divisi per squadre, pensino ai turni di guardia. Poi, insinuando che Polidamante si preoccupi per i propri beni, Ettore se ne esce in una frecciata: «Chi dei Troiani troppo le ricchezze tormentano, / le raccolga e le doni all’esercito, per il pasto comune; / meglio che n’abbiano frutto costoro, ma non gli Achei!». L’indomani attaccheranno le navi: e se davvero Achille ha avuto l’alzata d’ingegno di tornare a combattere, guai a lui. Perché Ettore certo non sfuggirà il confronto, e si vedrà chi ne esce vittorioso. «Enialio [un dio della guerra qui in genere identificato in Ares] è imparziale, e uccide chi ha ucciso [chi sta per uccidere]».

Tale il discorso di Ettore e, qui il Cieco si concede un intervento come scuotendo il capo,

[…] i Troiani acclamarono:

stolti! il senno tolse loro Pallade Atena:

tutti approvarono Ettore che mal consigliava,

nessuno Polidàmante che aveva esposto un buon piano.

Dove il senno tolto ha anche il sapore della logica cieca, protonazionalistica dei bulli che non sanno valutare i propri limiti.

Poi prendono il rancio. Mentre gli Achei passano la notte a piangere Patroclo, con Achille che singhiozzando inizia il compianto, le mani use a uccidere posate ora con tenerezza sul petto dell’amico, i gemiti fitti: come di un leone privato dei piccoli da un cacciatore di cervi, e che angosciato e furioso segue le tracce di lui tra le gole boscose. E Achille torna – come facciamo noi nei nostri lutti, e la sympatheia del Cieco col leone e con lui rivela per l’ennesima volta quanto l’Iliade parli di ciò che siamo –, a pensare a frasi dette, a scelte fatte. Frasi dalla tragica inconsistenza, come quando Achille apprestandosi alla partenza per la guerra aveva garantito a Menezio che gli avrebbe riportato il figlio pieno di gloria e di bottino da Troia distrutta (specifica anche che gliel’avrebbe riportato a Oponto, la città della Locride orientale abbandonata da Patroclo ragazzino per aver ucciso un coetaneo, come apprenderemo più avanti: nel senso che tanta gloria avrebbe fatto revocare l’esilio?).

Ma non tutti i pensieri compie agli uomini Zeus;

è fato che entrambi la stessa terra arrossiamo

qui in Troia; neppure me di ritorno

accoglierà nel palazzo il vecchio cavaliere Peleo,

né la madre Teti; ma qui ha da coprirmi la terra.

E poiché, o Patroclo, dopo di te scenderò sotto terra,

non ti darò sepoltura prima d’aver portato qui d’Ettore,

del tuo uccisore magnanimo, l’armi e la testa.

E davanti al tuo rogo dodici sgozzerò

figli illustri dei Teucri, irato per la tua morte.

Intanto presso le navi curve mi resterai così,

e intorno a te le Troiane e le altocinte Dardanidi

piangeranno, di notte e di giorno, versando lacrime,

le schiave che noi guadagnammo con la forza e l’asta robusta,

atterrando opulente città di mortali.

Dove non solo prevede la consegna rituale della testa del nemico a prova di vendetta compiuta, ma un sacrificio di prigionieri davanti al rogo: rituali arcaicissimi la cui memoria giunge comunque al Cieco.

Poi Achille ordina di porre al fuoco un grosso tripode da bagno, in bronzo, per detergere al più presto Patroclo dal sangue rappresogli addosso: e quando l’acqua prende a bollire, i compagni lo lavano, ne ungono il corpo e sulle piaghe pongono un unguento di nove stagioni. Poi, stesolo sul letto, lo avvolgono di lino dalla testa ai piedi, lo coprono d’un lenzuolo bianco, e tutti attorno lo piangono con Achille per tutta la notte.

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