di Paolo Lago
Nelle prime sequenze di Diabolik (2021), dei Manetti Bros., vediamo la Jaguar nera del protagonista che, dopo una rapina a una banca, percorre a tutta velocità una galleria pedonale sotto un palazzo del centro per poi immettersi sulla strada principale ed essere subito inseguita dalle auto della polizia. La strada è circondata da entrambi i lati da palazzoni grigi e cubici, che sembrano delle enormi scatole e tutto l’inseguimento avviene in questo rigido percorso obbligato, come se si trattasse dello spazio di un tunnel. Del resto, anche la precedente versione cinematografica tratta dal fumetto di Angela e Luciana Giussani, diretta da Mario Bava (1968), iniziava con l’inquadratura di due palazzoni cubici che rappresentavano una banca. L’estetica e la rappresentazione dello spazio, nel film dei Manetti Bros., appare sapientemente giocata su un contrasto ed un’alternanza di spazi stretti, angusti e ‘tunnellizzati’ e di spazi caratterizzati invece da ariosità ed aperture. Se l’eroe, già nelle tavole dei fumetti delle sorelle Giussani, si muoveva in luoghi angusti, stretti e cunicolari, il film sembra giocare su questa opposizione in modo nuovo ed inedito.
Lo sfondo dell’immaginaria città di Clerville si trasforma nella greve rappresentazione iconica e monumentale dell’oppressione di un potere rigido e geometrico. L’auto di Diabolik, nelle prime sequenze, percorre uno spazio cunicolare e ‘tunnellizzato’, serrato da case grigie e tetre che sembrano quasi appartenere ad una distopica società del futuro gravata da una pervasiva e crudele dittatura. Possono venire in mente certe sequenze de I cannibali (1970) di Liliana Cavani, in cui vediamo le strade di una grigia Milano del futuro ricoperte di cadaveri, silenziose e allucinate. La Clerville di Diabolik è ricostruita fra Bologna e Milano (nella fattispecie, le immagini dell’inseguimento iniziale sono state girate a Bologna, fra gruppi di palazzoni anni Cinquanta e Sessanta1) e, soprattutto nei momenti in cui assistiamo agli inseguimenti notturni, appare come una città abbandonata, segnata quasi da una catastrofe post-apocalittica. E allora si potrebbe pensare anche agli sfondi urbani romani ‘svuotati’ e catatonici (soprattutto un raggelato Eur) che incorniciano gli spostamenti dell’unico sopravvissuto a una terribile epidemia che ha trasformato tutti gli altri esseri umani in vampiri, in L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona.
L’estetica dello spazio che sta alla base del film dei Manetti Bros. inquadra i palazzi degli anni Cinquanta e Sessanta (secondo una didascalia che compare all’inizio del film ci troviamo a Clerville, alla fine degli anni Sessanta) come se fossero dei vuoti monumenti alla solitudine e alla desolazione, come in certi momenti di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni. Se in quest’ultimo film i palazzoni del boom economico italiano rappresentavano l’emblema di un potere che, in nome dell’edilizia selvaggia, cominciava a devastare gli spazi verdi delle città, nel film dei Manetti Bros. i palazzi e l’architettura rappresentano i monumentali fasti di un grigio e oscuro potere, incarnato dal viceministro Giorgio Caron, ricattatore e corrotto. D’altra parte, bisogna anche notare che gli sfondi della Clerville anni Sessanta (che allude chiaramente a spazi urbani italiani dell’epoca) sono stati ricostruiti in modo pressoché perfetto, così da essere paradossalmente quasi più ‘credibili’ di quelli del precedente Diabolik, girato proprio negli anni Sessanta.
I palazzi del potere, come anche l’albergo di lusso nel quale alloggia Eva Kant, sono tante scatole nelle quali si riproduce l’oscuro e vuoto discorso del potere, dove gli stessi rappresentanti di quel potere si muovono discutendo di futilità mondane, come nei film dell’ultimo Buñuel. Dopo l’inseguimento iniziale la scena si sposta proprio negli ambienti dell’alta borghesia e della nobiltà di Clerville, in una sontuosa località montana ricostruita a Courmayeur: gli interni sono quelli in cui si ripete inesausta la parola contemporaneamente lugubre e canzonatoria della classe sociale che detiene il potere. Nei discorsi che i principali esponenti di questa classe rivolgono a Eva Kant, appena arrivata col suo prezioso diamante rosa, la figura di Diabolik appare come un personaggio che si situa al di fuori della società, il pericoloso bandito e criminale sovvertitore dell’ordine costituito. Egli è un vero e proprio personaggio “del fuori”, che si situa al di là del potere che cataloga e che divide, che crea le griglie urbane della moralità e della legge. Il criminale mascherato, in quanto simbolo del lato oscuro della società, del lato che sta in ombra, sembra appartenere a quella «esperienza del fuori» messa in luce da Michel Foucault, quando il pensiero «diviene pensiero del limite, della soggettività spezzata, della trasgressione; con Klossowski, e l’esperienza del doppio, dell’esteriorità dei simulacri, della moltiplicazione teatrale e demente dell’io»2. Diabolik è l’alfiere della soggettività spezzata, facitore dell’esteriorità dei simulacri, creatore di inquietanti maschere di gomma che riproducono fedelmente i volti di quegli stessi personaggi del potere, a cominciare dal suo acerrimo nemico, l’ispettore Ginko. Diabolik giunge dal ‘fuori’ di quegli interni borghesi, dediti al potere e ai suoi fasti, trama e agisce nella notte e nell’oscurità, da un limite oscuro difficilmente raggiungibile se non si è trasgressori totali. Egli si muove in quello spazio ‘tunnellizzato’, inscatolato, segnato dalla greve materia architettonica del potere solamente per distruggerlo ed annientarlo. Non è un caso, infatti, che Diabolik riesca a sfuggire all’inseguimento iniziale di Ginko uscendo dallo spazio-tunnel fra i palazzi, imboccando una strada periferica piena di curve. Alla linea geometrica e rigida della strada cittadina, egli oppone la linea ondulata e serpentina della strada periferica aperta, dietro la quale si staglia un panorama notturno e nella quale, letteralmente, ‘sparisce’. Infatti, per rifarsi alle teorie sullo spazio di Bertrand Westphal, si può affermare che «la trasgressione interviene quando si disegna un’alternativa alla linea diritta del tempo, alle figure troppo geometriche dello spazio civilizzato»3.
Diabolik è abitatore del ‘fuori’ anche nel senso che appartiene alla terra, sbuca misteriosamente da cunicoli nel giardino dell’elegante villa che usa come copertura. Con la sua Jaguar nera si insinua in reconditi cunicoli scavati nella roccia, lungo un’anonima strada di periferia, per mezzo di marchingegni che mirano ad inceppare l’onnipresente, lugubre marchingegno del potere. Egli appartiene al sottosuolo, non allo spazio elegante e luminoso della villa che, col falso nome di Walter Dorian, abita insieme alla fidanzata. Il film gioca abilmente anche sul contrasto tra Diabolik mascherato e Diabolik senza maschera, come se l’uno fosse il doppio speculare dell’altro. Se il primo appare soprattutto di notte ed è legato ad ambienti cunicolari e ‘inscatolanti’, il secondo appartiene alla luce del giorno e ad ambienti aperti e luminosi. La figura di Walter Dorian, senza maschera, si staglia sulla grande vetrata della propria villa mentre parla con la fidanzata Elisabeth oppure quando, a Ghenf, prepara il suo piano insieme a Eva, avendo alle spalle una vetrata che si apre sulla libera spazialità del mare. Diabolik mascherato, invece, è l’abitatore della notte e del buio, dei suoi misteriosi rifugi o dei cunicoli sotterranei della città di Ghenf, del caveau blindato della banca la cui rappresentazione spaziale appare sullo schermo sotto forma di ricostruzione grafica.
Ed è alla luce del sole, in uno di quegli interni sfarzosi del potere – il lussuosissimo albergo – che il personaggio subisce il fascino perverso della bellissima Eva Kant, che porta «un nome che è un omaggio al grande filosofo amato da Angela Giussani»4. Il film si ispira infatti, per la maggior parte, all’episodio L’arresto di Diabolik, in cui Eva Kant compare per la prima volta come una donna dal passato misterioso, vedova di un Lord Anthony Kant ucciso da una pantera. Come nel fumetto, anche nel film fra Diabolik e Eva Kant «si stabilisce una storia d’amore basata sulla simmetria totale e sulla condivisione piena di ogni esperienza»5. Essi si configurano come una coppia eroicizzata al negativo e «il loro combattere la legge proviene da una forza arcaica, brutale e animalesca, del tutto antisociale e distruttiva»6. Di fronte alla bellissima Eva, Diabolik non esita a togliersi la maschera del malcapitato cameriere del quale aveva assunto l’identità e che, nell’albergo, avrebbe dovuto servire esclusivamente la ricchissima donna. Nello spazio luminoso della stanza d’albergo il personaggio appare perciò senza maschera e, invece della sua tuta nera, indossa un completo bianco da cameriere.
Gli spazi del potere, nel film, sono quelli del denaro e della politica. Le banche e il ministero sono i luoghi che Diabolik cerca di sabotare per mezzo delle sue potenzialità arcaiche e distruttive, legate al campo semantico della notte. La banca è lo spazio eterotopico perfetto da sabotare, da distruggere, da mandare in tilt secondo precisi calcoli millimetrici. Tutti gli strumenti che la società, guidata da quell’oscuro potere, utilizza per catalogare, separare, discriminare le ricchezze delle classi sociali benestanti devono essere mandati in frantumi. La banca di Ghenf è il vuoto involucro di quel potere, lo spazio-scatola che deve essere scardinato e devastato. Nello stesso modo, devono essere sabotati gli spazi della politica: gli interni del ministero, austeri e monumentali, nascondono un ufficio in cui si accumulano le scartoffie burocratiche di un potere che si tiene in piedi solamente grazie all’inganno e alla corruzione. Ma c’è un altro spazio che deve cadere sotto la distruttiva e notturna vendetta di Diabolik, ed è quello della prigione, del carcere, di una spazialità imprigionante fra le cui oscure mura si eleva la lama del supplizio della ghigliottina. Per combattere le dinamiche imprigionanti del «sorvegliare e punire», il personaggio non utilizzerà la sua versatile abilità fisica ma una forma di catatonia che manderà in tilt la logica del potere. ‘Zombificato’ e quasi ‘mummificato’ in un macabro doppio, Diabolik riuscirà ad evadere dal carcere assestando un duro colpo a quel geometrico e corrotto potere. Le rigide geometrie della prigione e i suoi cunicoli, infatti, assomigliano troppo alla rigidità dei fastosi palazzi della politica e alla cubica perfezione del caveau della banca: prigione, ministero e banca, infatti, non rappresentano altro che le escrescenze materiche di un potere che grava sulla quotidianità dell’immaginaria Clerville ma anche su quella di molti altri luoghi reali.
Dopo spazi imprigionanti e cunicolari, la fine del film sembra offrire nuove aperture: nel simmetrico faccia a faccia fra Ginko e Diabolik (interpretati, rispettivamente, da due bravi Valerio Mastandrea e Luca Marinelli) con lo sfondo ‘aperto’ del golfo notturno e illuminato di Ghenf (ricostruita a Trieste) ma soprattutto nelle sequenze finali sulla barca che vede Diabolik e Eva (interpretata da Miriam Leone) in viaggio verso nuove avventure, avvolti dalla libera spazialità del mare. La luminosità del sole offre di nuovo un Diabolik senza maschera, emerso da un’infernale lotta con un potere meschino e corrotto. Al suo fianco, adesso, c’è Eva Kant e quello spostamento nomadico nella vastità del mare verso nuovi orizzonti probabilmente sta a indicare che la loro lotta trasgressiva e demonica non avrà mai fine.