Che il settore del giornalismo sia uno di quelli con il grado più alto di precarietà è cosa nota da tempo. Nonostante siano passati 10 anni dall’entrata in vigore della Carta di Roma, nel 2021 solo un terzo dei 120 mila iscritti all’Ordine poteva vantare una retribuzione continuativa e solo il 10% del totale un regolare contratto.
Se a questa atavica precarietà si aggiunge un tentativo di organizzarsi per migliorare la propria condizione, allora si rischia addirittura di essere percepiti come una minaccia e ci si può trovare da un giorno all’altro in mezzo alla strada, magari dopo anni di “gavetta” e sacrifici di ogni tipo. È il caso di Massimiliano Salvo, da 10 anni nella redazione genovese di Repubblica, a cui il capo redattore ha comunicato all’alba del nuovo anno che l’azienda lo aveva messo alla porta: il suo contratto da precario con partita Iva, reiterabile annualmente, non è stato rinnovato.
Una vicenda vile e drammatica come tante, senza dubbio. Ma in questo caso c’è un’ombra di malafede che grida davvero vendetta e che getta l’ennesima maschera su quanto sia politicamente osteggiato l’impegno sindacale a Repubblica come in tutta la grande editoria. «Ho deciso di denunciare e provare a combattere il precariato che caratterizza le vite di tanti giornalisti. Ovvero, fare sindacato» scrive Massimiliano in uno stato su Facebook, «ho raccontato il precariato dei giornalisti in piazza, sui social, durante le manifestazioni di altri lavoratori. Parallelamente, con il Coordinamento dei precari di Repubblica (che raggruppa 90 precari storici delle redazioni locali) abbiamo cercato di ottenere un incontro con l’azienda per discutere e migliorare i nostri contratti».
L’impegno di Massimiliano diventa sempre più intenso: è tra i giovani che danno vita al coordinamento nazionale dei precari di Repubblica, diventa membro della giunta del sindacato ligure dei giornalisti e rappresenta la Liguria nella Commissione Lavoro autonomo della Federazione nazionale della Stampa italiana. E alla fine dello scorso anno, dopo i continui muri alzati dall’azienda, insieme ad altri giornalisti precari delle varie redazioni di Repubblica decide di rivolgersi a un giudice del lavoro.
Insomma Massimiliano ha tutti i requisiti del giornalista “scomodo” tanto per la proprietà quanto per la direzione editoriale, di quelli che la precarietà non solo vuole scrollarsela di dosso, ma vuole raccontarla, farla diventare un elemento associativo per l’intera categoria e combatterla in forma organizzata. Una vera e propria “serpe in seno” per Repubblica, per usare un’espressione di carattere popolare. E infatti viene messo alla porta, dopo aver portato in dote al giornale ben 4 mila articolo, una media di 400 all’anno. «Non posso sapere se la vicenda politico-sindacale e le mie rivendicazioni personali per avere il giusto riconoscimento del mio lavoro e di quello degli altri abbiano indotto Repubblica a non rinnovarmi il, seppure illegittimo, contratto» commenta Massimiliano, «di sicuro, improvvisamente, le strade con la testata cui ho dedicato tutto me stesso nei primi 10 anni della mia vita lavorativa si separano, almeno per il momento».
Una storia che potrebbe assomigliare a quella di un rider, di un facchino, di un lavoratore o lavoratrice dello spettacolo. Una storia che lascia l’amaro in bocca, ma anche tanta rabbia, come scrive l’Associazione ligure dei giornalisti: «altro che tutele crescenti. Altro che modernità. O mangi sta minestra o salti dalla finestra. E’ la stampa precaria, bellezza. Ma noi non ci rassegniamo. Oltre a descriverla con sdegno ci ostiniamo ad impegnarci per cambiare la condizione di tutti i precari e dare cittadinanza al lavoro».