Tralasciamo la palese connotazione ambientalista e, se vogliamo, il parallelismo con la realtà più recente del Covid. Questo film è un chiaro specchio della comunicazione odierna: l’interna trama è pregna della presenza – e dell’influenza – dei mass media. Si inseriscono nella sceneggiatura gradualmente, fanno la loro comparsa come elementi utili alla narrazione dei fatti, per poi invadere violentemente le scene e diventare il fulcro della storia.
Don’t Look Up parla della comunicazione di massa talvolta in modo un po’ scontato, ma ritrae al meglio il concetto di post-verità e i suoi molteplici significati.
Nel contesto comunicativo attuale non esiste più una verità assoluta, ma molteplici credenze sovrapposte, che coincidono con le fonti d’informazione esistenti. Sembra che la realtà dei fatti, che non viene totalmente annullata, perda semplicemente d’importanza, venendo ridotta a una delle tante versioni dei fatti. Sì, perché non parliamo più di fatti veri e propri, non parliamo più di dati scientifici, ma di discorsi. È qui che avviene il passaggio tra verità (al singolare) e credenze: nel momento in cui si crea una notizia che parla di un fatto, si esegue un atto comunicativo di tipo performativo, ovvero un atto che sembra descrivere un’azione, ma che in realtà la compie. Non si sta più affermando un qualcosa – che può essere vero o falso – ma si sta cercando di produrre un effetto: suscitare reazioni, informare, manipolare…
La post-verità nasce proprio dalla moltiplicazione delle notizie, da questa compresenza di più discorsi relativi a uno stesso fatto, e dallo sminuimento del metodo scientifico come mezzo per il raggiungimento delle proprie credenze.
La potenzialità manipolativa
Non è la prima volta che Adam McKay pone una critica esplicita alla politica statunitense, neanche tanto velata dal tocco umoristico. E il primo ostacolo col quale i protagonisti di Don’t Look Up – e la Verità – si interfacciano è proprio la Presidente americana, insieme agli altri membri dell’Ufficio Esecutivo.
La manipolazione, l’omissione e la creazione di informazioni al fine di ottenere consensi sono azioni propagandistiche attuate fin dai tempi dei regimi dittatoriali: post-verità sempre esistite, anche prima dello sviluppo dei mass media. Negli ultimi decenni ciò che è aumentata è solo la possibilità popolare di affermare e diffondere tali notizie, infatti chiunque può esserne produttore, a prescindere dalla propria carica e autorità. È anche vero che di pari passo sono incrementate pure le possibilità di fact-checking: quando nei primi anni del Novecento venivano diffusi i Protocolli dei Savi di Sion, non esisteva la possibilità di verificarne la validità con pochi click. Inutile dire che attualmente questo controllo dei dati non accade comunque spesso, nonostante l’elevata accessibilità alle reti d’informazione.
McKay non fa altro che descrivere questo scenario terribilmente verosimile, vicino alla realtà italiana tanto quanto a quella americana che prende in causa. E così ci troviamo a guardare Meryl Streep nei panni di una Presidente assorta nei suoi calcoli elettorali e nella costruzione di una narrazione scritta ad hoc per il suo pubblico. La realtà è spettacolarizzata, plasmata in una storia volta a far identificare e coinvolgere lo spettatore tramite un tipo di comunicazione emozionale:“Washington ha sempre bisogno di un eroe”. Allo stesso modo politici, anche italiani, diffondono aggressività, paura e odio – le emozioni più primitive e di conseguenza più irrazionali – tramite la distorsione di fatti e la diffusione di fake news. Non è tanto importante la veridicità di ciò che dicono, il vero messaggio è la propria opinione. E lo stesso vale per coloro che decidono di diffondere, a loro volta, una notizia non verificata: l’intento è una presa di posizione che prescinde dalla notizia, verificata o meno.
La supremazia del pensiero emotivo
La centralità delle emozioni nella logica con la quale un utente si interfaccia a una notizia declassa ovviamente il pensiero razionale. L’oggettività non è più un parametro di riferimento fondamentale, e ne abbiamo prova costante nella mancanza di fiducia verso la comunità scientifica. Anche posti davanti a dati oggettivi – in Don’t Look Up letteralmente di fronte a un evento che è sopra agli occhi di tutti – non c’è proprio volontà di vedere o mettersi in discussione, e lo possiamo constatare in questi mesi più che mai. Se nel caso delle informazioni manipolate dai politici si verifica un’attribuzione di fiducia smisurata in un’autorità ritenuta superiore, e le cui competenze vengono ingigantite, in questo si tratta di una fiducia cieca verso le proprie credenze. È così e basta, e non c’è bisogno di autocorrezione o di mettersi in dubbio.
Oltre alla Presidente degli Stati Uniti e al suo uso di narrazioni emozionali per fini manipolativi, nel film troviamo altro esempio del predominio dell’individualità nel talk show The Daily Rip. Che cosa vuole il pubblico, e cosa gli viene dato? Storie in cui identificarsi, racconti con cui commuoversi, intrattenimento leggero: la focalizzazione è interamente sull’esperienza del soggetto e sul suo coinvolgimento. Lo scopo dello show televisivo è rappresentare la realtà così com’è, utilizzando un linguaggio informale, mettendo in scena dialoghi poco preparati, raccontando storie vere e non recitate. È post-verità dal momento in cui si tratta comunque di una finzione resa naturale, di uno spettacolo quotidianizzato. Nuovamente, non è importante la veridicità dei contenuti, ma l’emotività che suscita, e la vicinanza che riesce a raggiungere con gli spettatori.
La pluralità espressiva popolare
Dalla crisi delle fonti d’informazione autorevoli, e dall’accessibilità dei mezzi di comunicazione di massa, deriva una moltiplicazione dal basso di opinioni, credenze, versioni di fatti…e hanno tutte la pretesa di essere ugualmente vere. In Don’t Look Up sono molte le scene in cui veniamo bombardati da miriadi di messaggi che compaiono sullo schermo a ritmo incalzante e con toni diversi. Nonostante io abbia trovato un po’ banale e indietro coi tempi, quasi forzato, l’inserimento dei meme e delle challenge, penso che introduca bene la connessione tra verità e discorso. È già stato detto che sono due concetti differenti, e che dal primo deriva l’altro. Ma in una realtà in cui la comunicazione massmediatica è così presente e assillante, in ogni momento e in ogni luogo, è inevitabile che la verità entri in un contatto molto più stretto con le pratiche discorsive che la modellano e la influenzano. A volte in senso negativo: il ritratto di McKay del contesto comunicativo odierno è una coltellata, una critica volta non solo alla politica americana ma all’intera società occidentale. Una società che “ha tutto” come conclude DiCaprio negli ultimi istanti, ma che ha perso la capacità di comunicare.
“Mio Dio, non riusciamo neanche a comunicare tra di noi! Cosa abbiamo fatto noi stessi? Come si risolve?”