Il report completo del tavolo di lavoro “i sistemi produttivi e la transizione ecologica”, tenutosi al Venice Climate Meeting di Rise Up 4 Climate Justice.
L’obbiettivo del tavolo di lavoro era di analizzare il rapporto tra il sistema produttivo e la crisi climatica, provando a far emergere possibili elementi di convergenza tra le lotte operaie messe in atto da chi dentro i posti di lavoro riesce ad organizzarsi per rivendicare condizioni migliori e le lotte climatiche.
Siamo partitə dall’analisi del conflitto tra lavoro e ambiente, che spesso viene utilizzato da chi amministra la governance politica, economica e finanziaria per legittimare e imporre determinate scelte che spesso vanno a discapito dei/lle lavorator* dell’ambiente, ma che affonda le radici su questioni per nulla banali: da un lato l’assenza di alternative rispetto al lavoro salariato per avere una possibilità di sostentamento e di accesso ai diritti minimi (su tutti vale l’esempio della casa), dall’altro la visione culturale positivista che vede nella tecnologia l’unico orizzonte di sviluppo, e che dovrebbe liberarci dal lavoro mentre invece nella applicazione è usata come strumento per aumentare la produzione in un ottica di crescita infinita.
Ciò che non viene messo in discussione è il modello consumistico di cui sono naturali rappresentazioni ad esempio Amazon ed il commercio al dettaglio online, le piattaforme digitali, la grande distribuzione alimentare ed in forma diversa il turismo online.
Il dato che accomuna queste esemplificazioni è la velocità, vero elemento pervasivo del capitalismo nelle nostre vite.
Abbiamo sottolineato come il fine unico del capitalismo sia il il profitto e che in questa ottica l’inquinamento e lo sfruttamento sono strumenti che nella fase attuale permettono di massimizzare l’accumulazione di ricchezza: in questa luce vanno letti ad esempio la nascita di nuovi poli logistici o la strenua difesa del passaggio delle grandi navi da crociera nella laguna di Venezia: scelte che si vorrebbe imporre senza dare la possibilità decisionale a chi vive nei territori, determinando quindi un modello predatorio e universale di produzione e che produce il conflitto tra salute, ambiente e lavoro.
Partendo dall’esperienza del coordinamento “No Maxi Polo” della logistica di Casale Sul Sile, Roncade e Quarto d’Altino abbiamo visto come ci sia un preciso sistema secondo cui i grandi committenti come Amazon scelgano delle aree già compromesse, mandando avanti altri soggetti formalmente locali, forzando l’iter legislativo e facendo leva sullo scarso potere decisionale di piccoli comuni, per provare ad insediarsi imponendo valori di consumo di suolo e di inquinamento con un impatto devastante sulla popolazione, e stravolgendo il sistema economico ed urbanistico dei luoghi in cui costruiscono.
Abbiamo anche visto però che grazie all’organizzazione e al lavoro di inchiesta e di studio fatto da realtà ben radicate nei territori è possibile diventare la sabbia nell’ingranaggio di questi grandi colossi: in questo senso la battaglia condotta dal Coordinamento No Maxi Polo a Casale Sul Sile ha visto, grazie all’impegno di tante e tanti, l’interruzione del progetto di costruzione del nuovo maxi polo (che si presume avrebbe ospitato un HUB di Amazon).
Questo è stato possibile cercando di costruire punti comuni di lotta che mettessero in luce non solo le criticità dal punto di vista climatico della costruzione di un maxi polo, ma anche, grazie alla relazione con ADL Cobas, l’impatto dal punto di vista lavorativo e sociale, cercando di smontare la retorica dell’aumento dei posti di lavoro e di inquadrarla in un contesto di sfruttamento e costruzione di una monocultura della logistica che sottomette i territori e chi ci lavora alla volontà dei grandi colossi.
Questo esempio ci ha permesso di analizzare il concetto di estrattivismo, che vede la gestione del territorio come un piano cartesiano in cui le variabili non prendono in considerazione il concetto di cura e l’ambiente, e di evidenziare la visione che vede il consumo del suolo come unico paradigma dello sviluppo.
L’intervento di ADL Cobas ha evidenziato come i valori di produttività siano aumentati, ma che questo non abbia avuto alcuna ricaduta in termini di “liberazione dal lavoro”: gli orari di lavoro al posto di diminuire aumentano, in una ricerca della maggiore produttività e senza che venga messa in discussione la liberazione del tempo per la vita.
In questo contesto è necessario evidenziare come la logistica sia un asse fondamentale che permette di massimizzare i tempi di estrazione di profitto, ed in questo senso il “just in time” e la delocalizzazione sono due aspetti chiave che dimostrano per altro come la tecnologia non sia di per sè un valore, ma che spesso invece viene usata come espressione e strumento di esercizio del potere: basti pensare a come l’automatizzazione di tanti impianti logistici abbia portato all’aumento dei turni di notte, con conseguenze dannose sulla vita dei/lle lavorator*, e alla necessità di costruire nuovi poli sempre più grandi devastando i nostri territori.
Allo stesso modo però eventuali blocchi alla circolazione delle merci producono danni incalcolabili: basti pensare al clamore per la nave incagliata nel canale di Suez.
Nella logistica abbiamo visto dei cicli di lotte straordinarie: la composizione migrante di lavoratori, le lotte indipendenti e lo sfruttamento del concetto di precarietà tramite lo strumento delle cooperative hanno prodotto soggettivazione, creazione di comunità resistenti e alcune vittorie importanti.
Ovviamente tutto questo non è sufficiente: costruire interconnessioni tra lotte sindacali e lotte climatiche vuol dire renderci conto che ciò ci accomuna è l’essere cittadinə degli stessi territori ed in questo senso la questione del sistema produttivo diventa un problema di esercizio democratico: creare convergenza delle lotte
vuol dire quindi rivendicare potere decisionale sulle scelte ambientali e rivendicare il diritto di auto organizzarsi e di avere la possibilità di scegliere cosa si produce, quanto si produce e come si produce.
In questo senso è necessario che militantə, attivistə e sindacati di base si sforzino di avere una visione complessiva partendo dalle varie specificità, cercando punti di convergenza e non alimentando il gioco di chi vorrebbe compartimentare le lotte.
A tal proposito è emerso come paradigmatico l’elemento della grande distribuzione alimentare che, a partire dagli allevamenti e dalla agricoltura intensiva per arrivare fino alla distribuzione e alla costruzione di sempre nuovi supermercati, racchiude molte delle contraddizioni finora emerse.
Ovviamente la logistica non è l’unico terreno di scontro e di espressione delle contraddizioni.
A livello globale possiamo affermare che l’industria più pesante del ventunesimo secolo sia quella del turismo.
La pandemia ha causato enormi perdite economiche ma con la nuova fase della pandemia il turismo di massa sta riprendendo come prima e più di prima.
Prima della pandemia si stimavano 1,4 miliardi turismo anno, con un profitto annuale di 2500miliardi di dollari.
Le Emissioni di CO² dovute al turismo generano l’8% delle emissioni a livello globale, soprattutto per viaggi aerei nelle tratte più lunghe, shopping e cibo, mentre la topografia urbana dei territori viene stravolta, attraverso la deregolamentazione costruzione e trasformazione del territorio, anche grazie alle amministrazioni locali che fanno passare tutto.
L’overtourism sta cambiando volto soprattutto delle città più antiche, come Venezia. Dalla metà del ‘900 abbiamo visto lo svuotamento della città con il trasferimento delle attività produttive a Porto Marghera, dove per primi gli operai hanno messo in discussione rapporto lavoro-salute-ambiente del polo chimico. La svolta del Giubileo poi, con enormi finanziamenti dati alla amministrazione per i pellegrini che dovevano passare per Venezia per poi andare a Roma: in questa fase anche il settore terziario se ne è andato perché uffici, banche e altro sono stati spostati in terraferma, con una radicale e devastante trasformazione della Venezia insulare.
Venezia è così passata da più di 120 mila abitanti a circa 50 mila, con però un numero di turisti annui che si aggira attorno ai 30 milioni.
Questo svuotamento ha impattato principalmente sui lavorator* che attraverso cambi di destinazione d’uso dei palazzi, aumento del numero dei Bed & Breakfast e precarietà del lavoro legato alla monocoltura del turismo, sono di fatto statə espulsə dalla città.
Anche Mestre e Marghera stanno diventando un dormitorio per turismo mordi e fuggi del centro storico: le promesse bonifiche di porto Marghera sono rimaste ad oggi inconcluse, il numero di lavorator* è calato da 30 mila a 10 mila e la riconversione ecologica ad oggi rimane un miraggio: addirittura si propone di raddoppiare la capacità dell’inceneritore di Fusina e di creare nuovi scali croceristici, aumentando quindi lo sfruttamento e la devastazione del territorio.
Allo stesso modo anche le due grandi istituzioni culturali di Venezia, l’università e la biennale, sono allineate con la logica della monocultura turistica.
Combattere la monocoltura del turismo però non vuol dire imporre un biglietto di ingresso come a un parco divertimenti o un numero chiuso o programmato delle visite, ma alimentare le lotte sociali per il diritto alla casa e per le condizioni di lavoro con un ragionamento di ripopolazione della città.
Ancora una volta l’antidoto non è sperare in imposizioni dall’alto ma piuttosto la costruzione dal basso di comunità resistenti che rivendichino il potere di decidere sul presente e sul futuro dei propri territori: da questo punto di vista non possiamo non citare la vittoria del comitato No Grandi Navi, che va legata all’idea complessiva di salvaguardia non solo del territorio ma anche della composizione sociale.
In conclusione è emersa l’esigenza di costruire spazi comuni e di comunità come strumento fondamentale per sovvertire la narrazione del conflitto ambiente lavoro.
Per fare questo è necessario sviluppare le pratiche di mutualismo e solidaristiche e riaprire un terreno di battaglia sulla decisionalità dal basso nei territori.
Oltre a questi bisogna identificare dei luoghi simbolici di lotta come ad esempio il TAV, allevamenti intensivi e agricoltura intensiva per praticare l’obbiettivo in maniera comune nel rispetto delle differenze, e mettendo in luce come la critica al sistema di sviluppo e di produzione non può essere slegata da un cambiamento radicale del sistema di vita e di consumo.