Pena di morte ai manichini femminili

di Francisco Soriano

È giunta l’ultima sentenza promulgata dalla misoginia talebana: la decapitazione di tutti i manichini che rappresentano effigi femminili. I manichini vengono considerati oggetti trasgressivi nei confronti delle regole islamiche shariatiche. Già in altre occasioni, tuttavia, si era ben compresa l’ossessione dei divieti imposti dai millenials studenti di dio nei confronti delle donne. Era chiaro che il ritorno talebano si sarebbe connotato per la violenta vendetta contro tutto ciò che, nel recente passato, si era distinto da loro e tuttavia era un cambiamento timido e senza reali fondamenta su cui poggiarsi. Prima cancellando e umiliando ogni modello o simbolo che, in qualche modo, potesse anche soltanto raffigurare le donne al di fuori della “grata” di un burqa, successivamente escludendole da ogni contesto di vita civile e sociale. Era solo una questione di “passaggi” e di gradualità nell’imporre una condizione che calpesta ogni diritto umano e di genere. L’insopportabilità di questa deriva lascia attoniti perché forse senza una reale prospettiva di porre fine all’oscena persecuzione del genere femminile in Afghanistan.

La nuova ondata di violenza nei confronti delle donne accade dopo poche settimane dalla riconquista di tutti i territori dell’Afghanistan, sprofondato in un incubo dai contorni sempre più inquietanti. A sancire questo deprecabile atto di orrore seppur nei confronti di manichini, è stata una direttiva emanata dal Ministero della Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, dicastero della provincia di Herat. Come capita molto spesso con le parole, anche in contesti occidentali, quando vengono utilizzate come veri e propri macigni lanciati in azioni di linciaggio contro oppositori, dissidenti, donne ed estese categorie di persone emarginate, questo gesto simbolico della decapitazione dei manichini, in pubblico, ben rappresenta le reali intenzioni dei talebani di soffocare e ridurre in schiavitù schiere di donne alle quali viene riservata soltanto la fecondazione e le mansioni domestiche. Secondo l’indirizzo morale fondato sulle leggi della sharia interpretata dai talebani, l’esposizione dei volti femminili in vetrine di abbigliamento offenderebbe gli astanti, provocherebbe ribrezzo, stimolerebbe al vizio, inficerebbe le virtù soprattutto maschili. Lo sostiene il signor Aziz Rahman, capo del dipartimento locale del ministero che ha definito i suddetti manichini come delle “statue” da adorare, dunque suscettibili di divenire anche atti di idolatria che sono profondamente vietati e puniti dall’islam più radicale. Severe e inflessibili punizioni, inoltre, verranno inflitte ai commercianti che non si atterranno alle raccomandazioni ministeriali. Per questo motivo, nelle stesse ore, pur rimuovendo prontamente le teste degli incolpevoli manichini femminili con seghetti e taglierini, i venditori di abbigliamento per donne hanno timidamente protestato: il presidente dell’ordine dei commercianti di Herat ha sostenuto che l’azione dei talebani provocherà una grave perdita economica per la categoria.

Ci si era accorti della revanche talebana contro donne e artisti sin dalle prime ore dall’insediamento di questi individui, che non hanno pari nelle pur numerose fattispecie elencate nel diario degli orrori della Storia umana nei confronti di donne, omosessuali e oppositori di variegata origine: prima veniva mostrata l’uccisione di un clown deriso e torturato, tragicamente zittito con un colpo alla testa; qualche ora dopo si provvedeva alla pubblicizzazione di un video che mostrava la distruzione di strumenti musicali in un conservatorio; successivamente, sui telegiornali, venivano inviate le immagini delle raffiche di mitra sparate da giovani talebani su una sparuta rappresentanza femminile nella piazza di una città, forse Kabul; non più di due settimane dall’arrivo trionfale degli studenti e già si contavano le prime condanne a morte per quelle donne che si erano “macchiate” di adulterio; in successione temporale perfetta a questi eventi si determinava la divisione, nelle scuole, fra studenti di sesso maschile e femminile; infine l’esclusione delle bambine dalle lezioni nelle province più lontane dai grossi centri per giungere, come da copione, alla cancellazione totale della loro esistenza dal “mondo della luce”. Finalmente si realizzava materialmente in pochi mesi il verbo dell’esclusione e la sublimazione della cancellazione delle donne da questo manipolo di personaggi, che rappresentano la prova di quanto oggi questa umanità possa rappresentare, in termini di orrore e insensato odio, un avamposto dell’inferno.

Sembrano dunque essere passati anni luce da quando Zabiullah Mujahid rassicurava, in conferenza stampa, alla presenza di giornalisti di tutto il mondo che: “le donne sono un elemento importante in Afghanistan”. Oggi non vi è la possibilità di interpretare la parola “importante” come si era tentato di farlo con qualche infantile speranza da parte di molti analisti occidentali. In continuità con questa evidente falsità, seguivano le parole di Suhail Shaheen il 17 agosto del 2021, il quale come portavoce dei talebani asseriva che non sarebbe stato necessario il burqa, e che le donne avrebbero potuto scegliere di indossare l’hijab, in linea con quanto avviene in altri paesi islamici come l’Iran e l’Iraq. Questo mondo che oggi ci appare sempre più oscuro e pauroso è stato invece sottovalutato perché troppo presto si è dedotto che i talebani avessero subito negli anni un presunto cambiamento, nella direzione politica e nella imposizione dei dettami religiosi. Questa idea si fondava sul fatto che le nuove generazioni di studenti avessero comunque avuto contatto con il mondo esterno attraverso gli strumenti informatici e tecnologici.

Con tutte le critiche all’occupazione statunitense e di tutti i loro alleati inclusa l’Italia, nonostante gli enormi errori e l’incapacità di coordinare uno strutturale cambiamento soprattutto in campo sociale, la Costituzione post-talebana del 2004 conferì alle donne maggiori diritti e una “agibilità” sociale ed economica che oggi è stata cancellata. I dati parlano chiaro: nel 2003 meno del 10% delle bambine era iscritto alla scuola primaria. Nel 2017 si arrivava al 33,4%, molto poco ma significativo. Nell’istruzione secondaria si passava dal 6% del 2003 al 39% del 2017. Parliamo di cifre che non hanno mai raggiunto neppure la metà delle donne afgane. Tuttavia, sempre nel 2017, circa 3 milioni e mezzo di giovani afgane frequentavano la scuola e 100.000 studiavano nelle università. La media nelle aspettative di vita delle donne era aumentata, sempre riferito a dati del 2017, dai 56 anni ai 66. Il numero dei decessi per parto era diminuito da 1.100 ogni 100.000 nati vivi nel 2000, a 396 ogni 100.000, nel 2015. Nel 2020 il 21% dei dipendenti pubblici era costituito da donne, mentre il 16% riusciva a ricoprire incarichi dirigenziali. In periodo talebano la stima del numero delle donne nell’amministrazione pubblica era vicina allo zero. In Parlamento invece grazie ai seggi riservati per quote rosa, il 27% veniva occupato da donne. Si parla di dati che interessavano aree urbane, in contesti tribali o delle province più lontane la stima rimaneva drammatica in negativo: il 76% delle donne non aveva nessuna voce in capitolo.

Domenica 26 dicembre del 2021 i funzionari talebani annunciavano che le donne dovranno essere accompagnate durante i loro spostamenti da un parente stretto di sesso maschile. Protagonista della direttiva è sempre il Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che già nella definizione appare in tutto il suo orrore. Nel precetto ministeriale c’è anche una nota di maggiore chiarificazione: tutti i proprietari dei veicoli dovranno offrire passaggi solo alle donne che indossano l’hijab. Il portavoce del Ministero che ha specificato questa nuova regola per le donne che intendono viaggiare per più di 45 miglia è il signor Sadeq Akif Muhajir. A questa nuova ondata di restrizioni si è arrivati dopo che il ministero aveva intimato alle TV di stato di interrompere la trasmissione di soap opera soprattutto perché includevano protagoniste donne. Sempre Zabihullah Mujahid si era rivolto alle donne afgane che lavoravano in uffici o nel privato di rimanere in casa fin quando non fossero stati adeguati i parametri di sicurezza nei loro confronti. Il cinismo e l’assurdità di tale motivazione accresce il senso di tragicità della situazione. Il Ministero per gli Affari Femminili è stato chiuso il 7 settembre 2021 e sostituito dal famigerato Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio.

A questo punto l’analisi dei fatti rimane imbarazzante soprattutto per le responsabilità occidentali nei confronti di questa situazione. La prima critica si rivolge alla propaganda perpetrata ai fini di giustificare una occupazione militare dei territori, quando si affermava con ignobile retorica che la presenza militare fosse in realtà una guerra di liberazione delle donne. Nella realtà i progressi ci sono stati, ma solo nelle aree urbane e fra i ceti medio-alti della società afgana. Il cambiamento non aveva nulla di strutturale e profondo e l’attenzione data a questo problema evidentemente era meno preponderante di altri che riguardavano la gestione armata dei territori. La prova è nel crollo immediato di tutte le “conquiste” non appena i talebani hanno rimesso piede nei centri dirigenziali del potere, facendoci immaginare che forse da quei centri non se ne fossero mai completamente andati. Avevamo denunciato i crimini nei confronti delle giovani giornaliste afgane e delle vessazioni che si facevano sempre più numerose nei confronti delle donne. Gli attentati dinamitardi con decine di ragazze morte presso le scuole ne erano la conferma e la triste prospettiva non tardava a manifestarsi in tutto il suo deprimente corso.

Inoltre la questione della sharia rimane un argomento complesso e di difficile definizione, anche perché l’applicazione dei principi del Corano e dei precetti della Sunna sono comunque il frutto di un procedimento umano suscettibile di interpretazioni che determina variegate soluzioni e applicazioni. Ci sono diverse scuole giuridiche, per esempio sono quattro le principali in campo sunnita e non esiste un’unica interpretazione. Quella dei talebani è chiaramente una visione estrema che lede i diritti delle donne, ma provoca una violenza trasversale che tocca anche gli uomini, certo con una intensità nelle forme punitive inferiore a quella delle donne. I talebani utilizzano la retorica del ritorno alle origini dell’islam che contraddice e confligge con le interpretazioni che altri paesi islamici danno al ruolo della donna, con funzioni in generale più dinamici nelle loro società, anche se anche in quelle realtà il cammino verso la parificazione dei diritti rimane una chimera. Anche per quanto riguarda la copertura del corpo, la scelta talebana rimane una opzione unica nel mondo islamico. L’annullamento che si compie in Afghanistan ha a che fare con la totale e indiscutibile negazione delle donne come esseri che, solo attraverso una retina, possono accedere al mondo esterno. Anche questo accesso differenziato viene concesso e ridotto alla minima possibilità di spostamento. Il corpo femminile subisce l’offesa, la cancellazione, infine la negazione della soggettività della persona.

Non è tuttavia un silenzio assordante. Esiste una organizzazione composta da donne nata negli anni Settanta conosciuta come RAWA, acronimo di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan. L’organizzazione con intenti rivoluzionari si è opposta duramente al regime afgano anche in clandestinità. Si è opposta con analisi giuste e premonitrici se non profetiche all’occupazione occidentale. Si occupa chiaramente dei processi di emancipazione e auto-organizzazione con la rivendicazione dei più elementari diritti allo studio e alla partecipazione delle donne alla vita sociale, civile ed economica nel proprio Paese. Ma come fare per contribuire oggi alla costruzione di una nuova fase che non sia la riproposizione di antiche logiche, militari e di controllo meramente strategico? Fare in modo che non vi sia una sorta di accettazione silente nella considerazione che nulla più possa essere cambiato, rafforzando il finanziamento, la cooperazione, la protezione attraverso canali internazionali di supporto umanitario e finanziario. Non solo donne che scappano ma anche uomini che giungono a piedi e, in ogni altro modo in Europa e in Paesi limitrofi, che sono disponibili ad accoglierli. Deve pertanto essere rafforzato il tema dell’accoglienza e dell’ascolto assicurato a tutte e tutti coloro i quali fuggono dalla violenza dei talebani. Una delle soluzioni è anche nel diritto di asilo senza che alle frontiere si respingano schiere di derelitti nel silenzio ipocrita dei governi europei. L’integrazione delle famiglie e dei bambini nei contesti didattici e sociali dei Paesi che accolgono è fondamentale. Le università dovranno garantire accesso e “vivibilità” nelle proprie accademie alle giovani donne e ai giovani uomini che in diverse condizioni sono riusciti a raggiungerle. Urge l’attivazione di una rete sociale di accoglienza e finanziamento dei progetti di solidarietà internazionale in modo più esteso.

La soluzione può risiedere solo nella proposta di una umanità che riconosce nel prossimo noi stessi, un prossimo che scappa dall’ennesimo e imperdonabile disastro i cui artefici siamo anche noi.

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