di Pino Cosentino (Attac Italia)
“Inequality is a political choice, not an inevitability”[1]
Questa sentenza, che Piketty enuncia come suprema sintesi del suo (e dei suoi numerosi collaboratori) immane lavoro, sembra a prima vista del tutto ragionevole, perfino ovvia. È invece il primo passo verso il vicolo cieco concettuale in cui si infila il pensiero, diciamo così, “alternativo”. Essa veicola un letale groviglio di equivoci. Nelle vicende umane ben poco è ineluttabile. Un detto popolare afferma che nulla è certo, tranne la morte. La sovrapposizione di due tendenze contrapposte, quella dell’avere, che spinge a uniformare, e porterebbe tutte le concrete formazioni sociali a convergere verso un unico modello, e quella dell’essere, che spinge in direzione opposta, verso la massima divergenza e differenza collettiva e individuale, confonde parecchio le acque e precipita il pensiero in un labirinto da cui è difficile districarsi.
Il filo di Arianna si può afferrare in molti modi, ma certamente hanno tutti in comune una modifica della frase sopra citata. Può sembrare una pignoleria, ma costituisce invece la condizione per non perdersi nel labirinto. La frase corretta suonerebbe più o meno così: “La misura delle disuguaglianze economiche dipende in parte da scelte politiche”. O, come si trova correttamente nel Report precedente: “Economic inequality is widespread and to some extent inevitable”[2] .
Le disuguaglianze, come documenta e spiega benissimo Piketty nei suoi volumi usciti finora[3], sono connaturate con ogni forma di dominio che si è succeduta nella storia. In altri termini, le disuguaglianze sono oggi l’effetto visibile del funzionamento del capitalismo, che con la sconfitta dell’URSS e la resa della Cina ha riaffermato l’universalità planetaria del suo dominio. L’inesorabile richiudersi della “finestra” aperta dal passaggio dell’URSS all’offensiva, dopo la sconfitta planetaria del fascismo e del colonialismo prima maniera, è la dimostrazione che il capitalismo, in assenza di efficaci controtendenze, funziona come una centrifuga, che proietta da una parte i popoli, dall’altra la ricchezza sempre più concentrata in poche mani. È una legge universale, che opera in ogni singolo segmento territoriale in cui si organizzano e si distribuiscono tutti i popoli del mondo, dando vita, secondo l’indole e le vicende specifiche di ogni popolo e individuo, a una grande varietà di forme storiche. Il secondo fattore di confusione è la mancata o poco compresa distinzione tra ricchezza (al netto dei debiti) distribuita nella popolazione, che rappresenta un differimento di consumi, e capitale, ricchezza indipendente dalle necessità di consumo, ma che ha la capacità di accrescersi quasi per virtù propria.
Il capitale, inteso come proprietà, come stock di valore concentrato, ha due funzioni principali: separare nettamente la classe dei governanti da quella dei governati; stabilire le gerarchie interne alla classe dei governanti. La remunerazione del capitale non è affatto una legge di natura, né la condizione per effettuare investimenti con efficienza, ma una convenzione, una regola del gioco imposto dai detentori di capitali. La pandemia ha costretto tutte le economie avanzate, per la seconda volta in pochi anni, a infrangere alcuni dogmi portanti dell’ideologia neoliberale, riassumibili nel mantra dell’inviolabilità dei vincoli di bilancio e nella interdizione di interventi statali o comunque pubblici a sostegno di aziende in difficoltà, o in bancarotta. Tuttavia ciò non sembra produrre una profonda revisione critica delle teorie neoliberali. Anche chi non arriva a sostenere che le difficoltà odierne nascono da ritardi nel privatizzare, esternalizzare ecc., propone correttivi ad hoc, caso per caso.
La vittoria anche intellettuale del capitalismo si misura dalla scomparsa di ogni progetto di cambiamento a monte e non a valle dei processi produttivi, quali l’eliminazione dei due feticci che reggono il capitalismo e ogni società divisa in classi più o meno stabili: la remunerazione del capitale, inteso – il capitale – come ricchezza accumulata, e il carattere perpetuo della proprietà, trasmissibile per via ereditaria.
Ma le tendenze attuali del capitalismo dimostrano che non è fallito solo il comunismo, almeno in quanto movimento storico reale (per “fallimento” intendo che ha contraddetto sé stesso). È fallita anche la socialdemocrazia, che ha dovuto arrendersi alle pratiche politiche più o meno ispirate alle teorie neoliberali. La redistribuzione a valle dell’organizzazione dei processi produttivi e dei rapporti di proprietà si è dimostrata fragile e reversibile, incapace di aprire la strada a una forma di vita più elevata, destinata a soccombere davanti alla riscossa del “sacro egoismo” dei benestanti che non trovando più ostacoli si dispiega senza freni.
[1] “La disuguaglianza è una scelta politica, non una fatalità” in World Inequality Report 2022, p. 11.
[2] “La disuguaglianza economica è diffusa in tutto il mondo ed è in qualche misura inevitabile” (evidenziazione mia) in World Inequality Report 2018.
[3] Principalmente Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani 2014 e Capitale e ideologia, La nave di Teseo 2020 (ed. originali rispettivamente 2013 e 2020)
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