di Elisabetta Michielin
Ci sono l’eutanasia e la morte al centro del nuovo romanzo di Houellebecq e, poi, la possibilità dell’amicizia e dell’amore con uno sguardo affettuosamente pietoso del protagonista in concordia con quello dell’autore. Attenzione, però: uno sguardo affettuoso che è circoscritto – come vedremo – alla cerchia familiare e all’altro nella misura in cui questo ti è uguale ed è uguale a se stesso nella propria identità data una volta per tutte. Il perturbante è estromesso e riconosciuto solo in quel che è ovvio: la malattia e la mortalità che però sono anche in qualche modo addomesticate.
Ma riemergendo dalla lettura di corsa di Annientamento (i romanzi di Houellebecq hanno questa particolarità, ti catturano e fan trascurare ogni cosa fino a quando non li hai finiti; anche se hanno lo stesso impianto, ritornano sullo stesso tipo di personaggio, sul declino della Francia, sull’impotenza e la solitudine, sulla stessa mania di descrivere il cibo e infilarci tasselli che sembrano guide turistiche) mi rimangono due domande: perché questo titolo Annientamento e perché questo autore piace tanto alla mia “bolla” di sinistra?
Ma andiamo con ordine. La vicenda è essenzialmente una storia familiare che gira intorno al protagonista Paul Raison (un cognome fin troppo evocativo) che a circa 50 anni è il consigliere di Bruno Juge (“giudice” – altro cognome evocativo) potentissimo Ministro dell’economia francese.
Due uomini con famiglie in crisi, soli, vita sessuale azzerata, intelligenti, personalmente onestissimi e gran lavoratori nonostante la mesta consapevolezza dello “squilibrio sempre più evidente tra le intenzioni degli uomini politici e le conseguenze reali del loro operato.” Per fortuna qualche faglia, vien da chiosare!
Siamo dalle parti dei gran commis e al centro del potere; il padre stesso di Paul è stato un alto funzionario dei servizi segreti e della difesa della Nazione.
In questa vita così privilegiata e così personalmente insensata e arida intervengono due tsunami a sconquassarla. Che no, non sono legati al covid. Prudentemente e forse per non dover ristrutturare tutta l’architettura del proprio pensiero, Houellebecq sposta la vicenda nel 2027: un tempo in cui il virus non esiste più e non ha lasciato strascichi di sorta, così che il mondo possa seguire gli stessi binari della sua opera precedente e la Francia, con i suoi francesi “purosangue”, continuare a declinare negli stessi parametri.
I due eventi sono la gravissima malattia del padre di Paul e una serie di attentati non facilmente attribuibili a terroristi di destra o di sinistra e tantomeno islamici.
La serie di attentati, che peraltro avvengono fuori dal suolo francese anche se influenzano la politica francese che ne trae vantaggio, sono in realtà piuttosto pretestuosi nella trama del romanzo e sembrano avere solo una funzione di sfondo, un memo per ricordare al lettore di cosa sia fatta la nostra epoca, vale a dire la migrazione, la centrale circolazione delle merci, la procreazione surrogata o artificiale.
L’improvvisa malattia del padre di Paul che rimane completamente invalido con la sola residua capacità di comunicare muovendo gli occhi, è il motore del romanzo che introduce la famiglia di Paul (composta da una sorella, un fratello con rispettivi congiunti e la seconda compagna del padre). La necessaria riconfigurazione dei rapporti che un evento così importante determina mette al centro il tema del romanzo: l’eutanasia e il posto che hanno oggi i vecchi nel mondo liberista Occidentale, cose quest’ultime che ci vengono raccontate nei consueti modi mainstream o che, ahimè, già conosciamo per diretta esperienza. È Maryse “modesta ausiliaria africana” – prima di tornarsene in Benin – a sentenziare sulle miserevoli condizioni degli anziani disabili in Francia con le parole che tutti i contrari all’immigrazione amerebbero sentirsi dire (per non doversi definire razzisti): “cose così [in Africa] non sarebbero successe, se questo era il progresso non ne voleva la pena.” Se il personaggio di Maryse è costruito sul più puro esotismo e la figura della cognata Indy (rieccoci con i nomi) è quanto di più stereotipato Houellebecq abbia mai scritto su una odiosa donna di sinistra, lo stesso non possiamo dire della sorella Cécile che, per quanto dipinga senza mezze misure un tipo (fervente cattolica, casalinga, materna che nutre tutti con la sua squisita cucina, austera ma comprensiva, di destra ma non estremista) è davvero un personaggio ben riuscito, che, nella sua parzialità, risulta autentico e sorprendente suscitando nel lettore curiosità ed empatia.
Figli e congiunti immediatamente reagiscono con tenero amore (con la ovvia eccezione di Indy che subito definisce il padre di Paul ”un vegetale”) prodigandosi, al limite della legge e con le possibilità che dà loro il privilegio, per garantire al padre una vita residua degna.
Bene! Il tutto è commovente e vitale perché anche l’amore deragliato di Paul e della moglie Prudence si rimette prudentemente in moto per esplodere alla fine del libro in una apoteosi che contrasta in modo poco credibile con la precedente stasi affettiva durata un decennio. Ma è anche terribilmente gretto perché questo amore e questa presa di posizione forte sul diritto a una dignità della fine vita non è per nulla problematizzato e non lascia residui di dubbio sulla possibile autodeterminazione e scelta di come finire. Posto che anche la possibilità di una buona vita riguarda solo il recinto della propria comunità. La morte di 500 migranti in uno degli attentati è mero oggetto di opportunità politiche; che queste persone possano partecipare di un diritto universale alla vita e a una morte degna non è contemplato né da nessuno dei personaggi del libro né tantomeno dall’autore.
Ma non finisce qui: è la morte, intempestiva e briccona, a dare il colpo finale in pagine trattenute e commoventi che sotto la guida rude di Pascal (che punteggia con le sue massime l’ultima parte del libro) fanno oscillare Paul fra “il dolore senza speranza” e il desiderio fortissimo di credere alla reincarnazione, l’offerta salvifica della wicca (l’ultima religione up to date) in cui crede la moglie. L’annientamento del titolo è quindi, se non scansato, sicuramente non radicalmente perseguito.
D’altra parte Houellebecq è troppo accorto per prendere in considerazione la vecchia scommessa pascaliana sull’esistenza di Dio e con questo escamotage ci offre (ironicamente?) una possibilità di salvezza pop e meno attraversata dal dubbio del vecchio matematico francese che invece non si perita di mettere in chiaro che “l’ultimo atto è cruento, per quanto bella sia stata la commedia in tutto il resto; alla fine, ci gettano un po’ di terra sulla testa, ed è finita per sempre.”
Ipotizzo che alla mia bolla, a me stessa, Houellebecq sia piaciuto in questi anni perché fin dal suo Estensione del dominio della lotta (un titolo che è una perfetta summa analitica del liberismo e della globalizzazione) per lunga pezza ci ha accompagnato con la chiarezza e la capacità di urticare che i grandi cinici e moralisti di destra hanno, ci ha demolito favole belle e ci ha consegnato fastidiosi interrogativi.
Ma adesso che Houellebecq è diventato un mite, un romantico che ci fa commuovere, uno scrittore così sapientemente consolatorio, io, la mia bolla, noi, materialisti irrequieti seppur malinconici dove lo ficchiamo nella nostra libreria? Cosa ce ne facciamo della religione wicca dopo aver sostato a suo tempo sul letto di morte di Ivan Il’ic accompagnati dal feroce Tolstoj a ripeterci sgomenti e affascinati che “così si muore”? La luce che il povero funzionario russo vedeva alla fine della sua agonia ci è sempre sembrata artificiosamente posticcia.
Houellebecq ha rovesciato tutto: la morte, la mia, proprio la mia, quella di ogni singolo uomo, il mio personale annientamento sembra possa essere condivisa e sublimata, mentre la buona vita è un affare privato che non merita meditazione alcuna.
Michel Houellebecq, Annientare, La Nave di Teseo, pp. 553, euro 23,00