di Paolo Lago
[Nel 2020 è uscito, per i tipi di Caffèorchidea, Nuvole corsare, a cura di Francesco Borrasso e Giuseppe Girimonti Greco, una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani ispirati alla figura e all’opera di Pier Paolo Pasolini. Il testo che segue – riproposto adesso a quasi due anni dall’uscita del libro e a quasi cento dalla nascita di Pasolini – è la mia postfazione. PL]
L’opera di Pasolini continua a suscitare grande interesse, generando studi che la affrontano e la analizzano da molteplici punti di vista e dando luogo alle più disparate forme di ricezione e ricodificazione. È nata anche una rivista internazionale, «Studi pasoliniani», dedicata agli studi critici sulle varie espressioni artistiche di Pasolini, dalla poesia alla narrativa, dal cinema al teatro. Come ha sottolineato Tullio De Mauro, Pasolini è probabilmente «il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale nel mondo di oggi»1.
All’interno di questa “multimedialità” dell’opera di Pasolini è possibile incontrare, se così si può dire, una sorta di “narratività primaria”. Infatti, alla base delle singole opere è presente una fondamentale volontà di narrazione: dalle poesie, che spesso si srotolano in veri e propri racconti in versi, fino al cinema e al teatro. Ed è proprio nel solco di questa “narratività primaria” che si inserisce il progetto di Nuvole corsare, una rilettura appunto narrativa (e a tratti meta-narrativa) dell’intera opera e della figura stessa di Pasolini. Ma i racconti qui raccolti non rappresentano affatto l’ennesimo prodotto agiografico; non sono una fra le tante sorprese che si possono trovare nell’«ovetto Kinder» Pasolini2. In Nuvole corsare l’opera e il pensiero di Pasolini vengono trasfigurati in forma delicata e poetica e la sua stessa presenza fisica appare sfumata, inserita in arditi e coinvolgenti giochi metacronici.
L’aspetto dell’opera pasoliniana che è stato prevalentemente recepito dagli autori di questa raccolta è quello legato alla dimensione performativa della provocazione e dello scandalo, all’esposizione del corpo (suo e dei suoi personaggi), all’aspetto più “profetico” e “apocalittico” della sua opera. Quindi, oggetto privilegiato di ricezione è stato sicuramente l’ultimo Pasolini, con le sue disquisizioni sul potere, coi suoi interventi “corsari” sulla società e sulla politica italiana degli anni Settanta. Però non manca neppure, come già accennato, una dimensione più poetica e delicatamente figurale: quella legata alla rappresentazione di personaggi marginali, “dannati” e “perduti”, proprio come i borgatari sottoproletari dei primi romanzi e dei primi film di Pasolini. Nel titolo Nuvole corsare, del resto, sono presenti entrambi gli aspetti. Se le “nuvole” rimandano chiaramente al noto, struggente cortometraggio del 1967 – Che cosa sono le nuvole? –, un vero e proprio film-fiaba in cui appaiono in scena personaggi innocenti e sottoproletari, pur sotto forma di marionette, nel travestimento cinematografico (indimenticabili, tra gli altri, Totò-Jago e Ninetto Davoli-Otello), nell’aggettivo “corsare” è racchiusa la carica polemica e performativa dell’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari, di Salò, del postumo Petrolio.
Ed è proprio all’universo sadiano di Salò che rimandano soprattutto due dei racconti che qui presentiamo: La farsa di Diego Bertelli e Possano essere maledetti i miei occhi di Gilda Policastro. Il primo mette in scena un rapporto tra vittima e carnefice che si sviluppa all’interno di un rapporto di coppia: lei impone a lui di eccitarsi guardando dei film porno e a un certo punto, tra i video che dovrebbero servire al compimento di questo rituale erotico, compare anche una scena di Salò. Attraverso questo espediente narrativo, l’autore inserisce nel suo testo, come inatteso pendant del video “scabroso”, dei frammenti che provengono da un’intervista che Pasolini rilascia a Philippe Bouvard il 31 ottobre del 1975, due giorni prima di essere ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il racconto riflette su potere e violenza, temi-chiave in Salò (le cui violenze sono la metafora dell’abbrutimento in cui era precipitata la società dei consumi italiana negli anni Settanta), ma anche sul moralismo che pervade costitutivamente la società borghese e sull’irruzione dello “scandalo”, inteso come il raggiungimento e la consapevolezza del piacere personale in netta contrapposizione con l’idea moralistica del piacere. Il titolo del racconto di Policastro è una citazione testuale da Salò. Nel film, di fronte al pianto disperato di una delle vittime, il carnefice Blangis afferma: «Possano essere maledetti i miei occhi se questa lagna non è la cosa più eccitante che io abbia mai udito». I temi del racconto, scritto in piena pandemia, sono quelli della prigionia, della dittatura e della teatralizzazione delle relazioni di potere. Anche qui viene messo in scena un rapporto di coppia in un momento in cui i personaggi si ritrovano confinati in casa, con una sottile allusione a un preciso periodo (il lockdown della primavera del 2020). Questi due personaggi, non meglio identificati, si trovano a rivestire il ruolo di carceriere e di sottoposto, ruoli tuttavia “dinamici” e suscettibili di un repentino ribaltamento, rispetto al gioco dialettico degli equilibri e delle forze in campo (il ribaltamento dei ruoli è un tema tipicamente sadiano e pasoliniano). Il racconto di Policastro si configura, quindi, come un’altra possibile riflessione sul potere e sulla sua intrinseca violenza simbolica, nonché sulla sua sublime, irriducibile arbitrarietà (motivo, quest’ultimo, che genera un misto di attrazione e repulsione, sia a monte, ovvero in Pasolini, sia negli esiti delle riscritture, nei testi che a Pasolini si ispirano).
Al tema del potere e della violenza, declinato entro una dimensione distopica, rimanda anche il racconto di Elena Giorgiana Mirabelli, Il sarto. In un futuro dominato da un regime oppressivo, il personaggio del Sarto e Tetis (il cui nome è lo stesso di un personaggio demonico di Petrolio) sono coloro che devono infliggere terribili punizioni corporali a chi viola le regole. È ancora una volta l’ultimo Pasolini a essere chiamato in causa, perché, alla fine del racconto, il Sarto pronuncia una frase tratta dall’Abiura dalla “Trilogia della vita”, un testo del 1975, in cui viene formulata l’amara accettazione di un mondo ormai completamente degradato (in una corrispondenza fra l’Italia degli anni Settanta descritta da Pasolini e il distopico mondo futuro in cui è ambientata la vicenda). Tonalità distopiche sono presenti anche nel racconto di Piero Sorrentino, in cui, in un tempo non precisato, a rompere l’idillio campestre di una coppia di amanti irrompe la violenza della macchina da guerra dell’esercito. Non a caso il racconto si intitola Meccanica del freddo e reca in esergo una citazione pasoliniana riguardo alla freddezza con la quale la polizia uccide, a Reggio Emilia, il 7 luglio 1960, cinque operai nel corso di una manifestazione. Come un macchinario perfetto e micidiale, brutale e annientatore, l’esercito irrompe in un lembo di campagna per svolgere le proprie esercitazioni, turbando il silenzio e la pace che i due personaggi si illudevano di aver trovato (lontano dal mondo borghese), e facendo violenza alla natura.
Una riflessione sul potere, non in forma distopica bensì ucronica, è offerta anche da Alessandro Zaccuri nel suo Capo Marrargiu. Il racconto trae il titolo dalla località della Sardegna dove sarebbero dovuti essere imprigionati i cosiddetti “enucleandi” del “Piano Solo”, il golpe ordito dal generale De Lorenzo nel 1964. Nella sua ucronia, l’autore immagina che il Piano abbia avuto successo e che lo stesso Pasolini venga prelevato e condotto in prigionia (negli anni Novanta si venne a sapere che fra i nomi degli “enucleandi” figurava anche il suo). Alla narrazione ucronica Zaccuri unisce il trattato pasoliniano di psicopedagogia Gennariello. Si immagina infatti che il “Gennariello” del trattato sia un giovane carabiniere napoletano di nome Gennaro al quale è affidata la custodia di Pasolini. Quest’ultimo vi compare come personaggio principale del racconto, e al suo interno la riflessione sul potere sembra emergere dalle pagine che Pasolini scriverà in anni successivi al 1964, soprattutto negli interventi degli Scritti corsari sui poteri occulti della politica italiana e sulle stragi di Stato irrisolte e impunite.
Pasolini come personaggio lo si incontra anche nel racconto di Jacopo Narros, Atti relativi alla morte di PPP, nel quale alla morte del poeta viene data un’interpretazione letteraria. L’autore si rifà al Purgatorio dantesco (opera, tra l’altro, insieme a tutta la Commedia, assai importante come fonte di ispirazione per l’intera produzione letteraria di Pasolini, fino a Petrolio), che coincide con il litorale di Ostia, luogo in cui Pasolini è stato assassinato. Gli ultimi momenti della vita del poeta vengono quindi ambientati in questo luogo simbolico, letterariamente così connotato, mentre il titolo del racconto è ripreso da un saggio-inchiesta di Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in cui lo scrittore siciliano si interroga sui molti punti oscuri relativi alla morte, avvenuta nel 1933 a Palermo, dell’autore francese.
Ed è in forma trasfigurata, invece, che Pasolini compare nel racconto di Giorgio Biferali, Finché siamo vivi, nelle vesti di un fornaio di Trastevere. Ma la vera protagonista del racconto è Roma, una città vista attraverso il filtro deformante dello sguardo del protagonista, uno studente di Lettere che sta scrivendo una tesi di laurea su Pasolini. La Roma del racconto appare, quindi, distorta dalla lente “pasolinizzante” dello studente: un personaggio che stravolge, proprio per mezzo della letteratura (che coincide, in questo caso, con l’opera di Pasolini), la realtà che lo circonda, un po’ come l’Encolpio del Satyricon di Petronio, un personaggio “mitomane”, secondo Gian Biagio Conte, che filtra ogni aspetto della realtà attraverso il mito e letteratura “alta”3. Un’allusione a Pasolini personaggio (idolo, icona, maestro di vita, “santino”, ecc.) la ritroviamo anche nel racconto di Ilaria Gaspari in cui la protagonista, un’insegnante di scrittura creativa in una scuola serale per adulti, si imbatte in una sorta di alter ego del poeta e scrittore, «Enrico Pajata, detto Pasolini, meccanico di Ostiense». Il racconto di Gaspari, dopo un sapiente affresco dei personaggi che frequentano la scuola serale, diventa un percorso esplorativo, alla ricerca dei luoghi frequentati da Pasolini, fino alla scoperta finale – vero e proprio colpo di scena – dell’esistenza di un supposto sosia di Pasolini, ancora vivente ai giorni nostri. Sia nel racconto di Biferali che in quello di Gaspari, Pasolini si trasforma in un suo alter ego che, non a caso, è un personaggio appartenente a quell’universo borgataro e sottoproletario cantato e idealizzato dal poeta.
Lo sfondo della Roma sottoproletaria cara a Pasolini è presente anche in Apologia di Giorgia Tribuiani. Il protagonista di questo testo, Nino o Ninetto, rimanda a una figura importante dell’universo pasoliniano, Ninetto Davoli, amico e attore prediletto di Pasolini, chiamato a interpretare personaggi immancabilmente innocenti e indifesi, circonfusi di un’indescrivibile grazia e gaiezza infantile. Il Ninetto di Apologia è un senzatetto, innocente e angelico come il suo omonimo: su di lui grava lo stigma sociale, dovuto a una colpa di carattere sessuale (ha praticato autoerotismo in pubblico). Il tema centrale è il corpo e l’ossessiva ricerca del proprio corpo perduto e delle sensazioni ad esso legate, anche a costo di sconvolgere e turbare il comune senso del pudore e la cosiddetta morale pubblica (che non ha mai esitato a linciare Pasolini come uomo e come artista). Il racconto si dipana in una tenue forma poetica e musicale: è leggibile come l’equivalente di uno spezzone di “cinema di poesia”, e ricorda Il biondomoro, un racconto di Pasolini del 1950 (poi inserito in Alì dagli occhi azzurri), scritto in forma di lunga poesia narrativa.
Un’ambientazione in un universo proletario e sottoproletario contemporaneo, dominato però da una violenza quasi cieca, fa da sfondo al racconto di Fabio Rocchi, La catana. Il protagonista è un personaggio diseredato, squattrinato e trascurato dalla sua famiglia piccoloborghese. In un impeto di rabbia, questi progetta, fantasticando-delirando, una sorta di “vendetta sociale”, che dovrebbe realizzarsi attraverso l’oggetto che dà il titolo al racconto, una affilatissima catana, una spada giapponese con l’impugnatura a due mani. Per questo rituale di vendetta il personaggio sceglie una vittima sacrificale: Stivaletto, il gatto della nonna; la narrazione indugia su una possibile, atroce morte del piccolo animale innocente, che dovrebbe essere inferta, appunto, per mezzo della catana. Vengono in mente gli accenti “pulp” presenti nella descrizione del cadavere di un gatto nel racconto pasoliniano Studi sulla vita di Testaccio (incluso in Alì dagli occhi azzurri).
Un ambiente sottoproletario caratterizzato da cieca violenza è presente anche nel racconto di Simone Innocenti, in cui i personaggi progettano una rapina a mano armata, concepita, anche qui, come forma di “vendetta sociale” nei confronti di una classe di “privilegiati” (gli «statali», che vengono individuati come nemico “borghese”). Lo sfondo sottoproletario e malavitoso affrescato da Innocenti con piglio cronachistico può ricordare certe ambientazioni sociali dei film di Claudio Caligari oppure, su un versante opposto, quelle dei “poliziotteschi” degli anni Settanta. Una violenza generata dalla miseria e da una dura condizione di subalternità sociale, stavolta però nata all’interno della struttura della famiglia, viene tematizzata anche da Serena Penni nel suo racconto Estate. L’autrice sembra caricare di maggiore violenza – rispetto a una sua precedente prova narrativa (Il vuoto) – la raggelante, alienata tensione che, in alcuni contesti, regola i rapporti sociali all’interno della famiglia, a tal punto da trasformare quegli stessi rapporti in una sorta di danza macabra. La violenza sembra emergere in modo gratuito, all’interno dei ricordi che il protagonista – anch’egli un emarginato e un diseredato – sciorina tra gli ombrelloni di una crudele estate a Forte dei Marmi, in un resoconto a tinte fosche che ricorda certe atmosfere tondelliane, in particolare quelle di Rimini, in cui le spiagge adriatiche durante la stagione estiva della metà degli anni Ottanta assumono tonalità apocalittiche. Uno sfondo e una violenza sociale che appaiono lucidamente suggellati da un esergo pasoliniano: una riflessione dello scrittore sulla famiglia come microcosmo inevitabilmente oppressivo, come «nucleo di consumatori», e quindi perno di invidie sociali, triangolazioni e desideri mimetici.
In La struttura interna di Ivano Porpora la presenza di Pasolini emerge in modo inedito attraverso la mise en scène della lettura dei suoi libri. Il protagonista del racconto è un personaggio che si presenta come una scoperta proiezione autobiografica dell’autore; nelle notti trascorse negli stabilimenti e nei campi per la raccolta dei pomodori, nell’estate del 2009, fra immigrati extracomunitari, l’io narrante legge di nascosto, con crescente entusiasmo e partecipazione emotiva, gli Scritti corsari e Petrolio. La lettura di questi testi ha luogo clandestinamente, su uno sfondo sociale dominato dai nuovi sottoproletari – gli immigrati appunto – dei quali lo stesso Pasolini (sempre in Alì dagli occhi azzurri) aveva “profetizzato” l’arrivo.
Alla tematica dell’eros scoperto e vissuto insieme ai giovani sottoproletari, così presente (e pervasivo) nell’opera di Pasolini, si ricollega Soldati sulla luna di Ezio Sinigaglia. Siamo negli anni Sessanta: il protagonista, un giovane ufficiale di leva a Genova, si compra una Cinquecento usata per adescare e portare in giro le reclute. Nel titolo del racconto possiamo intravedere un riferimento al cortometraggio pasoliniano La Terra vista dalla Luna. La dimensione fiabesca, la grazia, la malinconica leggerezza che caratterizzano questo film del 1967 (e, in generale, buona parte della produzione di Pasolini di questo periodo) si ritrovano nel delicato racconto di Sinigaglia, nel quale la Cinquecento si trasforma in una sorta di razzo spaziale che serve a portare i soldati «sulla luna». Ed è proprio lo spazio lunare, vero e proprio spazio “altro”, connotato – da Luciano di Samosata fino al Voyage dans la lune di Georges Méliès – da una dimensione fantastica e fiabesca a trasformarsi, in modo poetico e surreale, in uno spazio dominato dall’eros, dove possono essere liberate le più recondite passioni, le energie sessuali che pulsano nei corpi dei più vitali tra gli enfants du peuple, i soldati di leva, che molto ricordano i “ragazzi di vita”, personaggi-feticcio, in tutta l’opera di Pasolini, soggetto collettivo e al tempo stesso “sistema di personaggi” che viene indagato a tutto tondo – dal poeta, dal narratore, dal regista –, ben al di là del dato meramente sociologico, dall’omonimo romanzo fino a Petrolio. La tessitura narrativa appare inoltre pervasa da una costante dimensione di gaiezza e innocenza: sia il protagonista che i ragazzi si abbandonano all’eros nel modo più naturale e vitale possibile; e sono i secondi, paradossalmente, a regalare al primo frammenti di esperienza e a rendere quindi possibile un percorso di formazione, un’educazione sentimentale anomala (dopo il viaggio lunare, infatti, non si va da nessun’altra parte: questo l’insegnamento del soldatino umbro nel finale del racconto).
Questa dimensione gaia e vitalistica (sia pur venata di malinconia) ha il suo pendant simmetrico nel racconto di Angelo Di Liberto, L’attesa, in cui la passione di un professore – che non a caso si chiama Paolo (nome con cui gli amici sottoproletari si rivolgevano a Pasolini) – nei confronti di un suo giovane allievo (un altro erede dei “ragazzi di vita” pasoliniani, connotato, stavolta, da tonalità gergali palermitane) si riveste di amari e lancinanti sensi di colpa. In maniera più esplicita che nel racconto di Policastro, inoltre, vi è un riferimento al lockdown della primavera del 2020. La figura del professore – che viene additata come capro espiatorio – si configura quasi come una versione aggiornata, come una straniante declinazione contemporanea del personaggio del professor Giubileo, che, in un racconto di Pasolini del 1950 – Giubileo (relitto d’un romanzo umoristico), poi raccolto in Alì dagli occhi azzurri – è costretto, a causa della sua passione per i ragazzi, a lasciare Roma, vista come città oscurantista, «ruffiana e pinzochera».
Nuvole corsare, insomma, grazie alla forma breve, non fa altro che ribadire la stringente attualità di Pasolini: è un omaggio ispirato alla volontà di ricostituire e rivitalizzare quella narratività primaria cui si è già accennato, così forte in Pasolini. E la forza, la grazia, l’irruenza, la bellezza della sua opera vengono rimesse in gioco anche nei meandri più cupi della nostra iper-contemporaneità: minacciose e irrisolte spirali di violenza e ingiustizia sociale, oscuri rigurgiti di fascismo, pervasività del potere, giochi illogici legati al cortocircuito fra potere e paura (come nei momenti più claustrofobici del lockdown), plaghe irrisolte di povertà che, nonostante tutto, riescono ancora a vivere con grazia e dignità. E di tutto ciò parlano queste “Nuvole corsare”, di bellezza e violenza, di dura realtà e fantasia, di tutta quella “straziante, meravigliosa bellezza del creato” che, con le sue mille contraddizioni, affascina e incanta Totò-Jago alla fine di Che cosa sono le nuvole?