Politiche della moltitudine, assemblea come strategia (seconda parte)

Il giorno 8 novembre 2021 al Laboratorio Occupato Morion di Venezia si è tenuto l’incontro “Politiche della moltitudine. Assemblea come strategia”, decimo della rassegna Art of Assembly[1], in collaborazione con il Goethe Institut all’interno del programma Performing Architecture 2021. L’incontro ha visto come ospiti il filosofo Toni Negri[2], l’attivista di Rise Up 4 Climate Justice Anna Clara Basilicò[3] ed è stato moderato da Marco Baravalle, ricercatore, curatore e attivista. Di seguito l’intervento di Anna Clara Basilicò.

Ascoltando l’intervento che mi ha preceduta, vorrei provare a riprendere e a interloquire a partire dal presente – o dal passato più recente – dei movimenti, per provare una lettura dei tentativi di produzione di forme del comune in atto. Nel fare ciò, vorrei partire da alcuni dati di cronaca – che non di sola cronaca sono – delle ultime settimane inserendole nel quadro di una lettura sindemica della pandemia di Covid-19.

L’interrelazione tra fattori sociali, economici, razziali, di genere e sanitari non ha sorpreso; è fatto storicamente assodato ed è una realtà che abbiamo ampiamente esperito negli ultimi due anni. Stante ciò, le governance occidentali hanno deciso di intervenire non solo primariamente, ma unicamente sul fattore medico della pandemia provvedendo a una distribuzione ineguale dei vaccini, a una distribuzione che ha seguito precisamente le linee di discriminazione razziale, sociale ed economica.

Se la narrazione di quest’interrelazione è stata assunta, talvolta, anche dai media mainstream, il discorso pandemico ha glissato sulle certain social and political conditions che Butler descrive esacerbare le vulnerabilità proprie di ciascun corpo. Se, ad esempio, le comunità razzializzate, anche all’interno del Nord Globale, sono state quelle più colpite dalla sindemia, è perché le disparità sociali ed economiche, il razzismo, le discriminazioni, i pregiudizi, la precarietà occupazionale, le disuguaglianze nella prevalenza di condizioni che aumentano la gravità della malattia tra cui obesità, diabete, insufficienza cardiovascolare e asma (la lista è tratta dai report della Public Health England) sono condizioni che ad oggi caratterizzano i gruppi marginalizzati della società.

In questo contesto, un contesto che per riprendere la descrizione di Negri ha visto diffondersi forme di caos, credo che provare a ragionare sul ruolo della resilienza sia un esercizio produttivo. La sopravvivenza alle forme sempre nuove di disciplinamento e controllo attraverso l’adattamento e la resilienza, condivide molto con quello che la lettura di Sandset dà di chronic state of acceptance. Lo stato di accettazione, a differenza dello stato di eccezione, non si definisce in un delta temporale, non stabilisce una forma di temporalità in cui l’eccezionale sospensione dei diritti ha luogo. Non è un caso se il concetto di stato di accettazione è stato associato alla categoria di slow violence di Nixon (2011), a una forma di “violenza che si impone gradualmente e di nascosto, una violenza di distruzione differita che si disperde nel tempo e nello spazio, una violenza di attrito che generalmente non è vista affatto come una violenza”. Pensiamo allo smantellamento della sanità pubblica, alla svendita del diritto alla salute: è una forma di violenza lenta del biopotere che però, non svelandosi nel suo svolgersi, contribuisce a costruire quello stato di accettazione resiliente nelle singolarità o nelle moltitudini assemblate dalla governance.

L’estensione del concetto foucaultiano di biopolitica che propone Mbembe nel 2003, in cui al diritto di far vivere o lasciar morire si somma il biopotere di esporre le persone, le comunità, a condizioni talmente avverse alla salute da provocarne inevitabilmente la morte prematura, ha trovato nel tempo della pandemia applicazioni vastissime.

Ha probabilmente contribuito ed esacerbato il sentimento di paura che il caos già instillava e innestava. Di fronte a questa situazione, le reazioni che si sono potute osservare sono andate – almeno – in due macrodirezioni. Da un lato la resistenza del personale medico, l’assemblaggio nel mutualismo, nella costruzione del comune intorno al tema dell’accesso al vaccino e alle cure – e su questo tornerò più tardi. Dall’altro, il crescere e il radicarsi di tensioni reazionarie cavalcate da opzioni politiche alle volte buffone, alle volte materialmente pericolose (come nel caso di Bolsonaro o Trump).

Nelle ultime settimane si è detto molto – sicuramente troppo – circa queste piazze no green pass, si è provato a fare dei distinguo. Nonostante questi esercizi, quelle piazze continuano a mantenere un unico punto fermo, a fronte della rinuncia a tratti identitari, ed è quello dei No Vax. Non c’è distinzione operabile tra no green pass e contrari alla vaccinazione, ha smesso di poter essere ipotizzata anche per quel caso particolare che doveva essere la città di Trieste.

Ebbene, cosa esprime questa moltitudine? Quali sono i motivi di un assemblaggio di questo tipo se non un’idea di libertà senza solidarietà, di libertà individuale, singolare, soggettiva che non produce – né vuole farlo – forme del comune? Un’idea che segue quell’illusione neoliberista che è l’apparente smaterializzazione della catena produttiva. La sommatoria delle prestazioni individuali della produzione cooperativa – che, come diceva poco fa Negri, hanno via via superato la centralità della fabbrica divenendo attività intellettuali, servizi immateriali, soggettivazioni produttive (per citarne alcune) – investe ormai la vita sociale tutta. Al netto della percezione, quindi, di una frammentazione, come hanno scritto Negri e Hardt, «le persone impiegate nella produzione e nella riproduzione sociale hanno le mani su tutte le leve dell’apparato». Ciò nonostante, l’insieme biopolitico delle singolarità non riesce oggi a produrre e mantenere un cambiamento duraturo nel segno di processi democratici giusti. Ma anche su questo torneremo a tempo debito.

Le piazze no green pass, dicevamo, sono assemblee che esaltano una libertà mutila, autoriferita e autoreferenziale. Non è un caso che queste piazze si siano date nel Nord Globale, in piena contrapposizione con chi, nel Sud del mondo, costruiva forme del comune sul diritto alla vaccinazione, sulla sottrazione della salute dalla catena della discrezionalità necropolitica.

Di fronte a questo scenario, al caos dei comportamenti della moltitudine, la domanda che ci poniamo è come recuperare al comune un concetto di libertà che non faccia a meno della solidarietà di classe? E, ancor prima forse, qual è il terreno di produzione del comune che riesce ad assemblare singolarità in una moltitudine che possa produrre forme di organizzazione? Se la pandemia è stata un sintomo della crisi climatica, o se, per meglio dire, la pandemia è in realtà una sindemia che origina dal modello di produzione capitalista, allora il terreno della giustizia climatica è esattamente il terreno in cui rimettere in moto il libero assemblaggio sociale, il luogo in cui costruire le premesse per una soggettivazione artistica della moltitudine.

Nell’era del Capitalocene, l’estrazione di valore avviene a partire dallo sfruttamento di quella che Jason Moore definisce natura a buon mercato. Forza lavoro schiavizzata (spesso razzializzata), lavoro riproduttivo non salariato, risorse naturali: abbiamo di fronte gli assi su cui il capitalismo ha agito discriminazioni. Nel suo volume Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Moore definisce il capitalismo non come un modello di produzione che ha un regime ecologico (insostenibile), ma come un regime ecologico di per sé: guardando al capitalismo come a un modo di organizzare la biosfera, le relazioni sociali, le relazioni produttive, si riconoscono i nodi intersezionali, e su questi si producono forme del comune.

La premessa metodologica non è un vezzo sociologico, ma è il posizionamento che consente di superare la passione triste della resilienza e di trasformare il movimento delle singolarità in concerto resistente. La responsabilità individuale, l’addossare le colpe al singolo è un vecchio trucco del capitalismo, che in tempo di crisi climatica può raccontare la favola bella dei piccoli gesti che salveranno il mondo e in tempo di pandemia omettere le mancanze strutturali e pretendere disciplina e cieca obbedienza a norme che poco hanno a che vedere con la cura collettiva e tutto con il mantenimento dei livelli produttivi.

Per questo parlare di Capitalocene in luogo di Antropocene ha un peso, perché significa riconoscere nel sistema dell’organizzazione della produzione il cuore della crisi. Di più, significa riconoscere nell’anticapitalismo necessario dei movimenti per la giustizia climatica un terreno in cui costruire, come dicevo, il comune. Un comune cui partecipano le forme non solo dell’ecologia, ma della giustizia sociale, della giustizia razziale e della lotta al patriarcato.

E proprio per questo, le forme dell’assemblea che vengono e che devono venire devono far tesoro di una critica all’antropocentrismo, la moltitudine dev’essere luogo di assemblaggio non solo delle singolarità dei contesti a più avanzato capitalismo, ma deve accogliere nuovi paradigmi epistemologici. Da questo punto di vista, i saperi indigeni devono essere il nuovo orizzonte entro cui costruire relazioni biopolitiche, perché rappresentano una risposta reale, concreta al biopotere che, come diceva Negri, ci assembla per ucciderci. La simmetria nel rapporto con la natura non umana annulla qualsiasi margine estrattivista, costringe a ripensare le relazioni produttive e riproduttive, le reti associative. Lo stesso dicasi per la critica transfemminista, che alla logica produttiva oppone il terreno della cura come pratica rivoluzionaria ed elimina l’estrazione di valore dall’equazione relazionale.

Una forma del comune, quindi, che parta da elementi come questi può essere destinata a durare, può produrre istituzioni democratiche davvero in grado di opporsi al regime neoliberista. Dalla prospettiva da cui parlo, che è quella sui movimenti dal movimento, aggiungo che l’urgenza di questo assemblaggio è massima. E non solo perché i rapporti dell’IPCC parlano di un punto di non ritorno tra 9 anni, ma perché mentre parliamo il sistema capitalista spinge le singolarità verso soluzioni palliative, atte al mantenimento dello status quo. Mi riferisco a quelli che sono gli esiti naturali della sussunzione capitalista della crisi climatica: l’internalizzazione del limite come paradigma di crescita infinita. Di fronte a ciò, la governance costruisce tentativi verticali di forme di assemblaggio: il mito della crescita infinita ha dovuto abbandonare il terreno dell’estrazione del fossile, ma non prima di poter abbracciare la soluzione della green economy o del sustainable development. Ha dovuto assumere il diritto alla salute, ma non prima di aver imposto il concetto necropolitico, ancora una volta, e neocoloniale di zona di sacrificio. La passione della resilienza è diventata obiettivo dell’agenda politica, la sostenibilità sinonimo di compensazione. Il capitalismo si è riorganizzato in modo tale da assumere entro i propri confini le proprie contraddizioni, proponendo una versione aggiornata di sé stesso. Le frontiere dell’estrattivismo avanzano di pari passo con il greenwashing: è così che si riesce ad impegnare una COP nell’attribuzione di uno standard di sostenibilità al gas metano e all’idrogeno blu. È così che il conflitto lavoro-ambiente viene impugnato come giustificazione per licenziamenti di massa e per la soppressione dei diritti dei lavoratori o delle lavoratrici. Ancor di più, è così che i cosiddetti “costi della transizione ecologica” possono essere scaricati verso il basso, socializzati attraverso la narrativa dei “piccoli gesti individuali”.

Ancora, proviamo a fare un piccolo passo indietro e torniamo a quella specifica forma di biopotere che è la necropolitica. Il progressivo spostamento delle zone di sacrificio nel Sud Globale a fronte di corrispondenti investimenti “sostenibili” in Occidente segue esattamente questa traiettoria: nascondere l’effettiva portata della violenza usata nei confronti delle singolarità, porla lontano dagli occhi, investire in comunicazione per imporre una narrazione diversa. Per questo motivo, la prospettiva decoloniale è punto di partenza irrinunciabile nella decostruzione delle spinte assembleari capitaliste e, soprattutto, nella messa in moto di un libero assemblaggio che faccia del caos intersezione.

In uno scenario di questo tipo, in cui la giustizia climatica si fa terreno di convergenza, le singolarità si fanno moltitudine in un orizzonte in cui ad agire è la pulsione anticapitalista: alla moltitudine non spetta il compito di salvare il pianeta, ma di rovesciare il regime ecologico neoliberale. Un obiettivo irrealizzabile senza la decostruzione del paradigma antropocentrico, senza l’assunzione della cura collettiva come pratica rivoluzionaria e fondamento delle reti relazionali, senza la pianificazione di una riconversione ecologica ed energetica basata sulla redistribuzione delle ricchezze.

Esperienze di questo tipo esistono e, credo, la recente gira por la vita condotta dall’EZLN parli di un’esigenza condivisa di renderle durature e, soprattutto, maggioritarie. A fronte di ciò, occorre aprire a forme di organizzazione nuove, che tengano presente la composizione delle singolarità che scelgono di assemblarsi.

Nel suo ultimo lavoro, Manuel Villel, direttore del Museo Reina Sofìa di Madrid, nel proporre una lettura decoloniale e situata degli spazi artistici, inserisce una curiosa considerazione. La lingua maya non possiede nessuna parola che significa arte: al suo posto, quelli che noi vediamo come artefatti sono definiti attraverso vocaboli che attengono al campo semantico dell’ecologia. Ecco, quindi, che rifacendomi al titolo di questo ciclo di incontri, The art of the assembly, mi piaceva concludere con l’immagine di un assemblaggio ecologico, in cui l’arte dei processi rivoluzionari sia descritta nei termini di una rete di relazioni anti-capitaliste.


[2] Toni Negri è filosofo e attivista. A partire dagli anni ’60 è stato uno dei maggiori teorici del marxismo operaista e un punto di riferimento per quanto riguarda Potere Operaio e tutta l’area dell’Autonomia Operaia per tutto il cosiddetto lungo ’68 italiano. Dagli anni ’80 è stato uno dei protagonisti della riscoperta di Baruch Spinoza. A partire dal 2000, in collaborazione con Micheal Hardt ha scritto libri molto influenti e globalmente dibattuti come Impero, Moltitudine, Comune e il più recente Assemblea, pubblicato nel 2017.

[3]Anna Clara Basilicò è ricercatrice universitaria e attivista climatica. È impegnata da anni nelle lotte per l’ambiente. Fa parte di Rise Up For Climate Justice, una piattaforma anticapitalista che raccoglie soggetti e gruppi ecologisti radicali, e affianca alla lettura della crisi climatica come contraddizione cruciale del sistema capitalista la pratica dell’obiettivo attraverso azioni dirette. In ambito accademico è dottoranda dell’Università di Padova e di Ca’ Foscari. Si occupa di Storia Sociale della scrittura e di Storia delle prigioni.

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