Una dichiarazione – politica e di poetica – sul virus del militarismo nel corpo sociale

Enrico Baj, «Generali», multimaterico s.d.

Nei nostri due libri del 2015 Cent’anni a Nordest e L’invisibile ovunque riflettevamo,  con gli strumenti dell’inchiesta e della letteratura, sul centenario della Grande Guerra e su come l’Italia lo stava celebrando. Lo facevamo avendo in mente le guerre jugoslave degli anni Novanta, nonché alla luce del conflitto in Ucraina. Perché, conviene ricordarlo, in Ucraina la guerra c’è dal 2014.

La conclusione era che, cent’anni dopo la prima guerra mondiale, il nostro Paese e in certa misura l’Europa tutta avevano più che mai bisogno, e sempre più avrebbero avuto bisogno, di anticorpi antimilitaristi, di esempi di diserzione, di rifiuto di ogni intruppamento. Perché quella del continente sul cui suolo non si sarebbero più combattute guerre era una fòla e nient’altro.

Da anni ci occupiamo in vari modi dello “scacco” che ha subito storicamente l’antimilitarismo. Lo ha subito in occidente e in particolare in Italia, dove uno schieramento politico-culturale trasversale ha lavorato alacremente per spargere ovunque tossine nazional-patriottiche, autoritarie, militar-feticiste (quanto sono belle le Frecce Tricolori!), guerrafondaie.

Un’offensiva culturale “sdoganante” i cui promotori, vedendo che c’erano ben poche resistenze, hanno osato sempre di più. Non si sono fermati di fronte a nulla, tra falsi storici, narrazioni tossiche sugli «Italiani brava gente» mai colpevoli di niente – si veda la propaganda revanscista incentrata sulle foibe – e celebrazioni istituzionali di presunti momenti «gloriosi» della patria: la battaglia di El Alamein (ricordiamolo: al fianco dei nazisti), la guerra marinara della X MAS (anche qui al fianco dei nazisti, e ancora nel 2007 la nostra Marina ha battezzato un sommergibile «Scirè» in onore alla X Mas), i bombardamenti illegali sulla Spagna, le bombe sull’Inghilterra (ovviamente al fianco dei nazisti) ecc.

Oggi militarismo e bellicismo sono totalmente sdoganati, non li mette in questione quasi nessuno.

Abbiamo visto due marò accusati di omicidio trasformati in eroi della patria.

Abbiamo visto l’esercito schierato nelle strade con compiti di ordine pubblico.

Lo abbiamo visto fare propaganda nelle scuole elementari.

Soprattutto, negli ultimi due anni abbiamo subito la militarizzazione spinta della gestione pandemica, con il ricorso a una retorica bellicista, il tricolore ovunque e  un generale in mimetica a rappresentare la campagna vaccinale. L’emergenza pandemica come «guerra al virus».

Già nel marzo 2020 facemmo notare:

«Se parlo del contenimento di un contagio come di una guerra, con i suoi caduti, i suoi eroi, i suoi martiri, i bollettini giornalieri dal fronte, gli ospedali come trincee, le battaglie quotidiane, gli alleati, il virus che diventa “un nemico”, questo mi porterà ad applicare la stessa cornice anche ad altri casi, quasi senza accorgermene. In tempo di guerra, chi esprime delle critiche sulla condotta dei generali è un disertore, chi non si allinea al pensiero dominante è un traditore o un disfattista, e come tale viene trattato. In tempo di guerra, si accetta più facilmente la censura, l’esercito per le strade, la restrizione delle libertà, il controllo sociale. In tempo di guerra si è tutti al fronte, tutti sottoposti alla legge marziale, tutte e tutti con l’elmetto in testa. A forza di evocare metaforicamente la guerra, ecco che la guerra arriva davvero.»

Le poche persone che si sono espresse contro la militarizzazione della vita quotidiana e dell’emergenza pandemica hanno subito fuochi di fila di ingiurie e intense campagne denigratorie. Nell’aprile 2021 è capitato anche alla collega Michela Murgia.

Oggi in molte dichiarazioni, in molti titoli di giornale, basterebbe rimpiazzare «Putin» con «il Covid» per vedere che tra le due retoriche belliche c’è piena continuità.

Dopo questo biennio schiacciasassi, non ci stupisce vedere applaudire la guerra – i paesi UE che procurano armi all’Ucraina, la Germania che si riarma, governanti e media che chiamano alla mobilitazione totale delle coscienze… – anche gente che un tempo esponeva sul davanzale la bandiera della pace, si opponeva all’aumento delle spese militari, si indignava per l’acquisto degli F35 ecc.

Certo, loro diranno che anche adesso manifestano «per la pace». E in effetti scendono in piazza, o almeno sui social. Solo che manifestano per la guerra.

Ci sono manifestazioni del tipo (parafrasando) «né con la Nato né con Putin, contro tutte le guerre e tutti gli imperialismi». Quelle sono manifestazioni, semplificando, per la pace. Ma sono poche rispetto alle altre, quelle più mediatizzate, che sono manifestazioni solamente contro Putin, ergo all’insegna del «viva noi, viva l’occidente», del «viva la nostra politica di potenza, viva la Nato, viva l’ordoliberismo UE» ecc. Queste sono oggettivamente manifestazioni per la guerra.

Quando c’è una guerra e si manifesta solo contro il nemico, si sta manifestando a favore della guerra.

Un principio basilare delle mobilitazioni anti-guerra, antimilitariste, pacifiste ecc. dal 1914 in avanti – ma in realtà già prima, quando il movimento operaio manifestava contro le guerre coloniali – fu sempre: «se non si denuncia in primis il proprio imperialismo, non si è credibili quando si denuncia quello degli altri».

Sull’altro versante, il nostrano filoputinismo appare minoritario ma è ripugnante, lo abbiamo sempre trovato ripugnante e lo abbiamo scritto più volte, inimicandoci (ben volentieri!) una parte di autoproclamata «sinistra di classe».

Il culto di Putin lo abbiamo visto crescere nei primi anni Dieci occupandoci delle guerre culturali nel Nordest italiano: l’indipendentismo triestino, le contraddizioni della Lega tra autonomismo e nazionalismo ecc. Da quel quadrante, in pochissimi anni, si è esteso in tutto il Paese, trasversalmente rispetto agli schieramenti ideologici, “rossobrunizzando” il dibattito, mostrando quanto si somiglino – nella politica estera ma non solo – stalinisti e fascisti, seminando confusione, rimpiazzando l’opposizione alla guerra con il tifo geopolitico. Una bancarotta ideologica ed etica.

Bisogna veramente ricostruire, ripartire dall’ABC, recuperare tutta la storia di chi si oppose a eserciti e guerre, di chi sabotò, di chi disertò, delle lotte per il disarmo nucleare, per l’obiezione, per il diritto a dire «signornò».

È un compito urgente, e al tempo stesso di lunga durata. È urgente intraprenderlo, ben sapendo che oggi, mentre la guerra è l’invisibile ovunque, questo è il lavoro culturale più difficile.

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Come spiegato nell’ultimo aggiornamento complessivo, in questa fase Giap funziona “col motore al minimo”. Soprattutto, mancano le energie per gestire lo spazio commenti. Su quanto sta accadendo non potevamo tacere, ma non possiamo nemmeno far partire una discussione-fiume qui in calce. Ecco perché sotto questa dichiarazione mettiamo il “lucchetto”. Ce ne scusiamo, purtroppo va così.

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