di Sandro Moiso
Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l’unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi. ( Domenico Quirico, Con le armi consegnate a Kiev siamo già in guerra con Mosca, «La Stampa», 3 marzo 2022)
Scrivere di guerra durante un conflitto in atto, soprattutto nel corso di uno dalle dimensioni e dalle possibili disastrose conseguenze come quello attuale, implica una grave responsabilità, non solo di ordine politico ma ancor più di carattere morale e civile.
Oggi, sotto il bombardamento continuo di una quantità enorme di missili, disinformazione, proiettili, propaganda, immagini di dolore, fake news e autentica merda ideologica, da qualsiasi parte in conflitto provengano, lo implica ancor di più poiché già il solo scriverne con il distacco necessario per non cadere nelle trappole della propaganda embedded rischia di segnare una cesura incolmabile tra la realtà del dolore e della sofferenza sul campo (sia civile che militare) e l’ancor relativa situazione di pace illusoria e privilegio di chi scrive a distanza.
Detto questo, però, occorre lo stesso contrapporsi al conflitto e al suo allargamento, mantenendo uno sguardo di vista che non sia né da tifoseria calcistica, né tanto meno caratterizzato dall’indifferenza travestita da radicalismo, ma che proprio per questi motivi non può fare uso di un linguaggio del tutto asettico.
Nell’Introduzione alle Leggi di Platone, il cretese Clinia individuava nell’azione di chi aveva preparato la popolazione cretese a combattere su un terreno impervio la condanna della «stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabilì tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori»1. E’ da questo testo che deriverebbe la locuzione latina di cui si è tanto abusato, senza in realtà mai comprenderla pienamente, come si vedrà poco oltre.
Troviamo dunque in un filosofo antico, vissuto tra V e il IV secolo a.C., anche se poi l’autore avrebbe usato l’affermazione di Clinia per poter sviluppare un discorso di diverso carattere, un’affermazione di estrema modernità sul ruolo ultimo degli Stati e della loro funzione: quello della guerra e del guerreggiare, per difendere proprietà, ricchezze, sicurezza, ma anche per ampliare il proprio dominio e i propri possedimenti. Dimostrando, come avrebbe intuito già Michel Foucault fin dagli anni ’70 rovesciando un’altra celebre affermazione, questa volta di Carl von Clausewitz, che «la politica non è altro che una continuazione della guerra in altre forme».
«Se vuoi la pace, quindi, prepara la guerra», anche se la formulazione latina appare in Vegezio, alla fine del IV d.C., come Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum, letteralmente “Dunque, chi aspira alla pace, prepari la guerra”2. Cosa che non modifica il senso della frase, ma che conferma come i discorsi sulla pace e sulla guerra siano intrinsecamente legati. Non in contrapposizione, come potrebbe apparire ad un primo sguardo superficiale, ma in profonda unità di intenti poiché, nella logica degli Stati e della loro azione reale, la garanzia della pace può fondarsi soltanto sul monopolio della forza e della violenza. Come, per esempio, il cosiddetto “equilibrio del terrore” ha dimostrato per decenni
Idea, quella dell’ottenimento della pace attraverso la guerra e il potenziamento delle forze armate e del loro uso, che non segna soltanto l’azione putiniana in Ucraina, ma anche la disordinata e rabbiosa reazione dell’Occidente alla stessa. Per ora più marcata forse in Europa che non negli Stati Uniti. Non a caso, forse, l’uso ufficiale della massima latina apparve, in contesto moderno, prima corredando la stampa del documento del 1892 che celebrava l’alleanza tra la Russia zarista e la Francia in funzione anti-tedesca, mentre, successivamente, sul portone di ingresso della fabbrica Deutsche Waffen und Munitionsfabrik (DWM) passò a identificare le cartucce prodotte da questa con il nome di Parabellum.
Infatti nelle attuali scelte, apparentemente “irresponsabili”, dei governi europei e di quello italiano concorrono alcuni fattori di carattere geopolitico e strategico che non possiamo certo dimenticare.
Il primo è quello del timore europeo di rimanere, in un contesto già di crisi, schiacciati tra gli interessi americani, russi e cinesi, Prova ne sia, non soltanto la decisa azione militare russa, ma la scelta, evidente, degli Stati Uniti di non intervenire direttamente sul fronte Ucraino, non per ragioni di pericolo di conflitto nucleare, come si afferma da parte del governo americano che pur non lo esclude del tutto, ma per fare in modo che si sviluppi in Ucraina una situazione di tipo afghano, in cui siano destinati ad impantanarsi all’infinito tanto gli sforzi bellici di Putin quanto le relazioni economiche e diplomatiche tra alcuni paesi europei (Germania per prima) e la stessa Russia, Con tutte le conseguenti ricadute di carattere energetico ed economico, oltre che geopolitico sulle politiche interne ed estere della UE. Per gli Stati Uniti, nella sostanza, due piccioni con una fava: indebolimento dell’euro e della sua economia concorrenziale a quella del dollaro e del made in USA e del colosso militare russo. Per l’Unione Europea un incubo da cui uscire ad ogni costo. Anche a quello di scatenare una guerra di cui non è difficile prevedere le tragiche conseguenze.
A riprova delle intenzioni statunitensi nei confronti della guerra ai confini orientali d’Europa può essere utile seguire il ragionamento sull’invio di aiuti americani nei confronti dell’Ucraina svolto dalla politologa Jessica Trisko Darden, in un articolo tratto da «The Conversation», che dopo aver dettagliatamente elencatoato l’ammontare degli aiuti americani, principalmente militari, in quell’area nel corso degli ultimi anni, conclude
Consegnare armi a un paese in guerra può sembrare ragionevole, ma questo afflusso di armi può intrappolare un paese in conflitto. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, la proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro, come quelle distribuite in Ucraina, può prolungare i conflitti armati, ostacolare l’attuazione degli accordi di pace e mettere in pericolo le forze di pace e i civili locali. In breve, le armi inviate oggi per aiutare l’Ucraina potrebbero rendere il paese più violento negli anni a venire.
C’è anche il rischio che, una volta superata l’attuale crisi, le armi leggere possano essere vendute dai civili. Queste armi potrebbero finire altrove in Europa o cadere sotto il controllo delle milizie che operano in Ucraina, incluso il battaglione di estrema destra Azov3.
In tale contesto, come si è già sottolineato in un articolo precedentemente pubblicato su «Carmilla on line» il 3 marzo, il riarmo tedesco non denuncia solo il tentativo di trarre un vantaggio economico e produttivo ballando sull’orlo del baratro, ma anche quello di fornire il vero centro del capitalismo europeo di una forza militare indipendente, che non sia costretta a dipendere dalla NATO oppure dalla forza militare francese o, peggio ancora, britannica.
L’altro fattore è riconducibile a quel complesso di eventi che, come si è già detto, hanno segnato negli ultimi vent’anni, prima quasi impercettibilmente e poi in maniera sempre più evidente, il declino del dominio occidentale sul pianeta. Dimostrando che la tanto glorificata globalizzazione ha indebolito, più che rafforzato tale posizione di rendita economica, politica e militare.
Da qui la frastornante campagna di demonizzazione non solo dell’avversario russo, ma anche di qualsiasi altro possibile “dissidente” dal precedente ed oggi frantumato ordine imperiale.
Come ha dimostrato, per esempio, la votazione alle Nazioni Unite dei giorni scorsi, durante la quale, nonostante gli sforzi propagandistici dei governi e dei media occidentali, durante la quale:
Solo quattro paesi si sono chiaramente schierati con la Russia nel voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’Ucraina: Bielorussia e Siria, Corea del Nord ed Eritrea hanno votato contro la risoluzione che chiede la fine dell’”aggressione” della Russia.
Minuscolo rispetto ai 141 sostenitori della risoluzione. Ma il gruppo di paesi che sostengono la Russia, almeno nelle gradazioni, nella guerra in Ucraina o non si posizionano chiaramente contro l’invasione, non è affatto così piccolo.
Sebbene l’approvazione della risoluzione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sia stata estremamente chiara, 34 paesi non vi hanno aderito astenendosi. Dodici paesi non hanno votato.
Mentre l’UE e gli Stati Uniti, così come alcuni altri paesi occidentali, hanno imposto sanzioni di vasta portata alla Russia, alcuni stati sono guidati dai loro profondi legami politici ed economici – o addirittura accolgono con favore qualsiasi cosa che danneggi gli Stati Uniti o la NATO4.
Tra gli astenuti Cina e India, che da sole comprendono quasi la metà della popolazione mondiale e coprono un ruolo ormai importantissimo nell’economia internazionale e nella produzione di acciaio e componenti elettronici dei settori tecnologici più avanzati, e la Turchia che dovrebbe rappresentare il baluardo della NATO sul fianco sud, come si sarebbe detto un tempo. A dispetto di una propaganda governativa e giornalistica che vorrebbe vendere ancora una volta l’idea di un intero mondo schierato contro le forze del male, non vi può esser dubbio che l’Europa e l’Occidente iniziano a sentire puzza di bruciato per il proprio grande avvenire ormai dietro le spalle.
Cosa che il quotidiano tedesco «Handelsblatt» torna a rimarcare in un editoriale posto sulla prima pagina del 4 marzo:
Alla fine della prima settimana di guerra in Ucraina, ci sono molte incertezze e una certezza: la Russia sta mostrando all’Europa una nuova vulnerabilità. Costringe gran parte del continente a invertire la tendenza, le cui conseguenze difficilmente possono essere sopravvalutate.
Il presidente russo Vladimir Putin gode ancora di sostegno nel mondo. Ma non tutti i sostenitori lo fanno per pura convinzione.
Lo storico Niall Ferguson vede l’Occidente in un nuovo confronto tra blocchi di potere e in un’intervista, spiega che l’Europa è rafforzata, ma la prova di resistenza deve ancora venire – se la Cina mette in discussione l’attuale ordine mondiale5.
In maniera ancor più ampia, e discutibile, affronta la questione Francis Fukuyama, uno dei principali teorici del liberalismo odierno, sul supplemento settimanale del «Financial Times» del 4 marzo:
L’orribile invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio è stata vista come un punto di svolta critico nella storia del mondo. Molti hanno detto che segna definitivamente la fine dell’era post-guerra fredda, un rollback dell’”Europa intera e libera” che pensavamo fosse emersa dopo il 1991, o meglio, la fine di The End of History. Ivan Krastev, un astuto osservatore degli eventi a est dell’Elba, ha recentemente dichiarato sul New York Times che “Viviamo tutti nel mondo di Vladimir Putin ora” […] Anche se non possiamo ancora sapere come evolverà tale situazione […] l’attuale crisi ha dimostrato che non possiamo dare per scontato l’attuale ordine mondiale liberale.
[…] Il liberalismo è sotto attacco da qualche tempo, sia da destra che da sinistra […] non solo a causa dell’ascesa di potenze autoritarie come la Russia e la Cina, ma anche a causa della svolta verso il populismo, l’illiberalismo e il nazionalismo all’interno di democrazie liberali di lunga data come gli Stati Uniti e l’India.
[…] L’India liberale di Gandhi e Nehru viene trasformata in uno stato indù intollerante da Narendra Modi, primo ministro indiano; nel frattempo negli Stati Uniti, il nazionalismo bianco è apertamente celebrato all’interno di parti del partito repubblicano. I populisti si irritano per le restrizioni imposte dalla legge e dalle costituzioni: Donald Trump ha rifiutato di accettare il verdetto delle elezioni del 2020 e una folla violenta ha cercato di rovesciarlo direttamente prendendo d’assalto il Campidoglio. I repubblicani, piuttosto che condannare questa presa di potere, si sono in gran parte allineati dietro la grande bugia di Trump.
[…] Come siamo arrivati a questo punto? Nel mezzo secolo successivo alla seconda guerra mondiale, c’era un ampio e crescente consenso sia sul liberalismo che su un ordine mondiale liberale. La crescita economica è decollata e la povertà è diminuita quando i paesi si sono avvalsi di un’economia globale aperta.
[…] Ma il liberalismo classico è stato reinterpretato nel corso degli anni e si è evoluto in tendenze che alla fine si sono rivelate auto-minatorie. A destra, il liberalismo economico dei primi anni del dopoguerra si è trasformato durante gli anni 1980 e 1990 in quello che a volte viene etichettato come “neoliberismo”. I liberali comprendono l’importanza del libero mercato– ma sotto l’influenza di economisti come Milton Friedman e la “Scuola di Chicago”, il mercato è stato adorato e lo stato sempre più demonizzato come nemico della crescita economica e della libertà individuale. Le democrazie avanzate, sotto l’incantesimo delle idee neoliberiste, hanno iniziato a tagliare le spese per lo stato sociale e la regolamentazione, e hanno consigliato ai paesi in via di sviluppo di fare lo stesso sotto il “Washington Consensus”. I tagli alla spesa sociale e ai settori statali hanno rimosso i cuscinetti che proteggevano gli individui dai capricci del mercato, portando a grandi aumenti delle disuguaglianze nelle ultime due generazioni.
Mentre parte di questo ridimensionamento era giustificato, è stato portato agli estremi e ha portato, ad esempio, alla deregolamentazione dei mercati finanziari statunitensi negli anni 1980 e 1990 che li ha destabilizzati e ha portato a crisi finanziarie come il crollo dei subprime nel 2008. Il culto dell’efficienza ha portato all’esternalizzazione dei posti di lavoro e alla distruzione delle comunità della classe operaia nei paesi ricchi, che hanno gettato le basi per l’ascesa del populismo negli anni 2010. […] Questi cambiamenti hanno poi prodotto il loro contraccolpo, in cui la sinistra ha incolpato la crescente disuguaglianza del capitalismo stesso, e la destra ha visto il liberalismo come un attacco a tutti i valori tradizionali.
In questo vuoto sono entrati regimi autoritari illiberali. Quelli di Russia, Cina, Siria, Venezuela, Iran e Nicaragua hanno poco in comune [ma] Hanno creato una rete di sostegno reciproco […]
Al centro di questa rete c’è la Russia di Putin, che ha fornito armi, consiglieri, supporto militare e di intelligence praticamente a qualsiasi regime, non importa quanto terribile per il suo stesso popolo, che si oppone agli Stati Uniti o all’UE. Questa rete si estende nel cuore delle stesse democrazie liberali. I populisti di destra esprimono ammirazione per Putin, a cominciare dall’ex presidente degli Stati Uniti Trump, che ha definito Putin un “genio” e “molto esperto” dopo la sua invasione dell’Ucraina. Populisti tra cui Marine Le Pen ed Eric Zemmour in Francia, l’italiano Matteo Salvini, il brasiliano Jair Bolsonaro, i leader dell’AfD in Germania e l’ungherese Viktor Orban hanno tutti mostrato simpatia per Putin, un leader “forte” che agisce con decisione per difendere i valori tradizionali senza riguardo
[…] Anche se è difficile vedere come Putin possa raggiungere i suoi obiettivi più grandi di una Grande Russia […] C’è anche il pericolo di un’escalation dei combattimenti per dirigere gli scontri tra NATO e Russia mentre montano le richieste di una zona “no-fly”. Ma sono gli ucraini che sosterranno il costo dell’aggressione di Putin, e loro che combatteranno per conto di tutti noi.
I travagli del liberalismo non finiranno anche se Putin perde. La Cina aspetterà dietro le quinte, così come l’Iran, il Venezuela, Cuba e i populisti nei paesi occidentali6.
La lunga citazione può servire a riflettere sul fatto che lo stesso autore del celebre La Fine della storia, pubblicato per la prima volta nel 1992 dopo la caduta del muro di Berlino, deve fare i conti con il fallimento dell’idea del trionfo del liberalismo e del capitalismo occidentale su scala planetaria. Mentre, allo stesso tempo, nel riformularne i possibili sviluppi futuri indica quali sono i motivi di tale fallimento e i nemici da combattere per chi voglia mantenere in vita l’ormai scompaginato nuovo ordine mondiale sventolato fin dai tempi di Bush Sr.
Può servire, inoltre a comprendere dove sprofondano le radici di un PD che, in un parlamento di servi, è attualmente il partito più guerrafondaio, nelle dichiarazioni di tutti i suoi leader e ministri che fanno a gara per fare dimenticare le origini dell’ex-PCI e superare i concorrenti di destra e di estrema destra nel soffiare sul fuoco dell’odio anti-putiniano e antirusso.
Preparare la guerra, oppure farla, per mantenere la pace e, soprattutto, difendere ad ogni costo quelli che sembravano i diritti acquisiti di un Occidente invecchiato, impoverito, indebolito e moribondo, questa la parola d’ordine implicita in tante roboanti, e spesso false, affermazioni mediatiche e politiche di questi giorni. Mentre ci troviamo, forse, davanti alla fine di una Storia e all’inizio, sanglant, di un’altra. Motivo per cui, anche se certamente non si può essere a favore di alcuno dei nuovi fronti imperiali in lotta, non si può neppure essere indifferentisti, poiché per comprendere il possibile percorso di un rovesciamento dello stato di cose presenti non ci si può opporre al movimento reale delle società e della Storia, ma comprenderne conseguenze e nuove contraddizioni. Per anticiparle, sfruttarle e non rincorrerle all’infinito, come eterne emergenze.
Però, per tornare al discorso iniziale, si potrebbe dire che per la popolazione civile coinvolta in un conflitto le devastazioni portate da una guerra costituiscono un’effettiva e prioritaria emergenza cui solo il ritorno più rapido possibile ad una situazione di pace può costituire la risposta. Ed è vero, motivo per cui vedere il capo del governo ucraino incitare tutti i cittadini ad opporsi agli invasori russi oppure richiedere armi, aiuti militari sul campo e istituzione di una no-fly zone sull’intera ucraina ad opera delle forze NATO non convince certo della sua reale volontà di proteggere o salvare i civili.
Al di là delle discriminazioni viste già in atto nella fuga dei profughi, tra i quali quelli di origine africana, asiatica o mediorientale vengono ostacolati nel poter utilizzare autobus e treni per fuggire oltre che alle frontiere dell’Europa di Visegrad, ciò che occorre sottolineare è che se si vuole la pace per i propri cittadini non vi è altro strumento che quella di richiederla, accettando tutte le condizioni del nemico. Esattamente come fecero i dirigenti bolscevichi a Brest Litovsk, il 3 marzo 1918, nei confronti delle armate austro-ungariche, germaniche, ottomane e bulgare.
Pace senza se e senza ma, che costò ai firmatari russi la Polonia Orientale, la Lituania, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia. Complessivamente strappando alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione), privandola del 75% della produzione del carbone e del ferro, del 32% della produzione agricola e di circa 5.000 fabbriche, ma firmata per sospendere un conflitto di cui quasi nessuno in Russia voleva la continuazione.
Intanto, qui in Italia, dalla piattaforma della manifestazione nazionale svoltasi a Roma il 5 marzo i sindacati confederali, per prendervi parte, hanno imposto che fossero depennate la maggior parte delle formulazioni più importanti (disarmo, neutralità attiva, l’opposizione agli “aiuti” militari europei, la solidarietà con la società civile ucraina e russa, il No all’allargamento della NATO, la volontà di avere un’Europa liberata dalla armi nucleari dall’Atlantico agli Urali), anche se poi la CISL ha comunque comunicato il suo rifiuto a parteciparvi.
Mentre si è aperta la caccia alle teste dei cronisti meno embedded, come nel caso di Marc Innaro corrispondente RAI da Mosca di cui il PD, prima della cessazione dei servizi RAI dalla Russia, ha richiesto la rimozione/rotazione, e anche le parole di uomini di religione importanti vengono “censurate” nel momento in cui, come è successo con l’ex-vescovo di Ivrea Monsignor Bettazzi in un’interviata al Tg Regionale del Piemonte, fanno affermazioni poco consone alle politiche bellicistiche attuali7 tagliandone le affermazioni che riguardano, sostanzialmente, l’uscita dalla NATO e dalla stagione infinita delle alleanza militari “difensive”.
Per questo, dunque, e per molte altre ragioni si rivela ancora più necessario continuare a scrivere e discutere di questa guerra e di tutte quelle che ancora verranno.
(4 – continua)