Spiagge: dalla concorrenza alla ripubblicizzazione

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di Tommaso Fattori (*)

1-Le spiagge “bene comune”: teoria e pratica

A chi appartengono le spiagge? Nel Codice di Giustiniano, testo fondamentale del diritto romano, vengono elencate le res communes omnium, ossia i beni comuni di uso collettivo dei quali nessuno, neppure l’imperatore, può impossessarsi e impadronirsi. Questi beni comuni sono “aer, aqua profluens, mare et per hoc litora maris”, cioè l’aria, l’acqua, il mare e le sue spiagge. Il Codice civile italiano, quindici secoli più tardi, pur prevedendo la sola alternativa dicotomica fra beni pubblici e beni privati e non contemplando più la categoria dei beni comuni, considera le spiagge, per l’appunto, beni pubblici demaniali, inalienabili e imprescrittibili. Spiagge che sono quindi destinate a soddisfare una prioritaria funzione pubblica. In teoria, fin dalla notte dei tempi, le spiagge appartengono quindi alla collettività e sono destinate alla fruizione comune; in pratica, però, vi sono ampi tratti di costa italiana da cui è escluso chiunque non sia disposto a pagare, spesso a caro prezzo, sdraio e ombrellone. Le concessioni si sono infatti moltiplicate nel corso degli anni e gli stabilimenti balneari hanno invaso i litorali del Paese, seppur con differenze fra regione e regione e fra comune e comune.

Come se non bastasse, in Italia le concessioni balneari hanno due caratteristiche che contrastano patentemente con l’interesse collettivo: sono di lunghissima durata e hanno un canone – ossia il corrispettivo pagato dai concessionari privati per l’occupazione e l’uso del bene demaniale – assolutamente irrisorio. Più precisamente, la durata delle concessioni è stata fino ad oggi pressoché indefinita: nascono pluridecennali e godono in seguito di continui rinnovi automatici. È questo il motivo per cui i balneari italiani si sono convinti, nel corso del tempo, di essere i proprietari sostanziali delle spiagge. La concessione, spesso ottenuta in epoche lontanissime, è percepita come una sorta di diritto acquisito da tramandare ereditariamente, mentre nel resto d’Europa una concessione dura normalmente 5 anni. E su un totale di 29.689 concessioni, ben 21.581 pagano un canone inferiore a 2.500 euro (dati Antritrust 2019), con una media nazionale di 4.815 euro a stabilimento. Il gettito complessivamente garantito allo Stato dai canoni concessori è di appena 115 milioni di euro annui a fronte di un giro di affari stellare, stimato prudenzialmente da Nomisma in almeno 15 miliardi di euro. I canoni, peraltro, non risultano interamente riscossi, tanto che dal 2007 devono ancora essere versati all’erario 235 milioni di euro.

Salvo le debite eccezioni, quello dei balneari è nel complesso un sistema di imprese che si sono accaparrate monopoli di fatto dalla cui gestione ricavano rendite parassitarie. In cambio danno allo Stato un’elemosina e un po’ di lavoro stagionale, perlopiù nero o grigio.

2 – Direttiva Bolkestein e Ddl concorrenza

In questi 16 anni trascorsi dall’entrata in vigore della Direttiva Bolkestein e al conseguente obbligo di gara per l’attribuzione delle concessioni, la sorprendente strategia del mondo politico italiano, molto sensibile alle pressioni degli interessi particolari della lobby dei balneari, è stata la rimozione e la negazione fanciullesca: si è fatto finta di non vedere la realtà, pensando che la direttiva sarebbe scomparsa come per magia. Ma la direttiva non è ovviamente scomparsa e a novembre scorso è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato che ha posto il 31 dicembre 2023 come limite ultimo per le proroghe delle vecchie concessioni. Il Governo italiano è quindi intervenuto con un emendamento al Ddl Concorrenza che recepisce quanto sentenziato dalla magistratura, stabilendo che dal 1° gennaio 2024 le concessioni balneari devono essere messe a gara. Seguiranno alcuni decreti legislativi già annunciati dal governo, i quali, oltre a definire i principi delle gare (imparzialità, parità di trattamento, massima partecipazione, trasparenza e adeguata pubblicità), individueranno i presupposti per l’eventuale frazionamento in piccoli lotti e il numero massimo di concessioni di cui si può essere titolari, al fine di favorire l’accesso di micro e piccole imprese, oltre che agli enti del terzo settore. Su pressione dei balneari, fra i criteri per la scelta del futuro concessionario verrà inserita l’esperienza tecnica e professionale già acquisita. Saranno anche avvantaggiati quegli imprenditori che nei cinque anni antecedenti l’avvio della procedura di gara hanno utilizzato la concessione come prevalente fonte di reddito.

Ma gli annunciati decreti legislativi si ripropongono di riformare la materia in modo più complessivo, anche se per il momento è dato conoscere solo i principi generali: il minimo impatto degli stabilimenti sul paesaggio e sull’ecosistema; la revisione dei canoni e la garanzia che una quota di essi venga destinata alle spiagge libere; la promozione della stabilità occupazionale del personale impiegato dal concessionario uscente tramite clausole sociali. Saranno vietate le proroghe e i rinnovi automatici ma si annuncia di voler ridurre anche la durata stessa della concessione, per quanto il Governo si limiti oggi ad affermare che la durata deve essere per un periodo non superiore a quanto necessario per garantire l’ammortamento e l’equa remunerazione degli investimenti autorizzati.

Tuttavia proprio questi giorni in Senato la battaglia è ancora aperta sul primo dei nodi: “La Lega ma anche pezzi del Pd hanno già fatto capire di volere correzioni all’intervento che fissa al 31 dicembre 2023 la chiusura delle attuali concessioni” (Sole24Ore). Ennesima dimostrazione che Lega e PD, pur presentandosi all’elettorato come battaglieri antagonisti, alla prova dei fatti rappresentano i medesimi interessi materiali, in questo caso gli interessi di imprese che ricavano enormi profitti ed estraggono rendite da monopoli di fatto, dati in concessione dal pubblico per una manciata di euro.

L’attuale condizione delle spiagge privatizzate italiane è talmente insostenibile che si potrebbe dunque essere tentati di ritenere che l’emendamento al Ddl concorrenza, con conseguente obbligo di gara, sia un passo nella giusta direzione. Ma il fatto che persino la Bolkestein e il decreto concorrenza limitino, almeno in parte, le attuali rendite parassitarie garantendo maggiori introiti per lo Stato, denuncia soltanto la scandalosa condizione del presente. Questa però non è l’unica strada da percorrere, né è la strada migliore. È la strada migliore solo se si accetta aprioristicamente un presupposto oggi purtroppo dato per scontato ma che scontato non è affatto, ossia che larga parte delle nostre spiagge debba essere dato in concessione. E se poi si accetta, in seconda battuta, un ulteriore presupposto, considerato altrettanto scontato ma che non è né scontato né logicamente contenuto nel primo presupposto: che le concessioni siano affidate a soggetti privati, a scopo di lucro. In altri termini, non l’ha certo stabilito la Bolkestein che buona parte delle nostre spiagge sia data in concessione e che oltretutto venga data in concessione ai privati anziché, ad esempio, ai comuni stessi, come accade in Francia. La Bolkestein, in questo caso, si limita ad affermare che qualora si intenda affidare a soggetti privati le concessioni, allora occorre farlo tramite gare, ma non obbliga affatto alla privatizzazione delle spiagge.

3- Ripubblicizzare le spiagge

Il primo obiettivo ragionevole, per chi voglia restituire le nostre spiagge alla libera fruizione, è ripubblicizzarle, e cioè ridurre il numero dei tratti di costa dati in concessione. Molte spiagge oggi gestite da concessionari privati devono tornare ad essere libere e gratuite. Perché ciò avvenga occorrono norme regionali o magari nazionali che pongano un limite percentuale alla porzione di spiaggia che è possibile dare in concessione. Ad esempio limitando le porzioni concedibili ad un massimo del 40-50% del totale.

Ma perché ciò avvenga occorre strutturare le norme in modo da impedirne l’elusione. Bisogna ad esempio evitare il rischio di quella che definisco la “spiaggia libera di Trilussa”, in onore del poeta romano secondo il quale la statistica è la scienza per cui se tu mangi due polli al giorno, e io nessuno, tu e io mangiamo in media un pollo al giorno a testa. In altri termini, occorre che la percentuale massima del 40-50% debba essere calcolata e rispettata da ciascun comune, altrimenti alcuni comuni daranno in concessione il 90% dei propri arenili, compensando i propri eccessi grazie a comuni turisticamente più sfortunati che invece non avranno dato in concessione nessuna delle loro spiagge: la media di Trilussa sarebbe del 45% a Comune. Insomma, bisogna che da una parte non vi sia alcun obbligo, per i comuni, a dare in concessione le proprie spiagge; dall’altra è necessario porre un preciso limite alla percentuale di spiagge che ciascun comune può dare in concessione.

La seconda trappola da evitare è quella che ribattezzerei, con una piccola licenza poetica, delle ossa di Trilussa. E la formulerei così: se tu hai sul piatto la carne del pollo e io invece ho solo le ossa, il becco, la pelle e le piume, forse ci siamo smezzati il pollo in termini di peso, ma non è ciò che ragionevolmente si considererebbe un’equa divisione del pennuto. Fuor di metafora, se il comune è tenuto a rispettare il limite massimo del 50% delle spiagge da dare in concessione e prende a riferimento la mera linea di costa, il raggiro è facilmente dietro l’angolo: i metri di spiaggia libera risulteranno gonfiati grazie al calcolo di porzioni di costa inutilizzabili e non fruibili per la balneazione, comprese le aree contigue a porti e foci di fiumi, mentre le spiagge vere e proprie saranno in gran parte privatizzate. In altri termini, una buona norma deve prevedere che siano considerati nel calcolo solo gli arenili effettivamente fruibili e che almeno il 50-60% di essi resti spiaggia libera.

Infine, da dove deriva questa percentuale di salvaguardia, ossia il 50-60% di spiaggia libera? Probabilmente molti di noi manterrebbe libero e gratuito l’80% delle spiagge di ciascun comune, io per primo. Tuttavia credo che sia razionale avanzare una proposta percorribile in Italia nel 2022, che faccia cioè i conti con lo stato delle cose presente e con gli attuali rapporti di forza. In molte importanti aree costiere del nostro Paese vi sono comuni che hanno dato in concessione il 90% e oltre delle spiagge fruibili, lasciando libero uno scarso 10% del totale. Talvolta è stato dato in concessione il 100%. Una condizione che riflette perfettamente l’incredibile capacità lobbistica dei balneari e che è oggettivamente una violazione del principio che ha sempre guidato, ma solo in astratto, i vari interventi legislativi in materia: il principio dell’ «equilibrio tra le aree demaniali in concessione e le aree libere o libere attrezzate». Questo principio non è mai stato formalmente messo in discussione, non a caso viene riaffermato nuovamente dal Governo come base degli annunciati decreti legislativi. La giurisprudenza ha poi correttamente  ritenuto da sempre prioritaria la garanzia della pubblica fruizione delle spiagge. In una giustamente famosa ordinanza del Consiglio di Stato (la 2543/2015, relativa all’accesso alle spiagge), si afferma limpidamente che “il demanio marittimo è direttamente ed inscindibilmente connesso con il carattere pubblico della sua fruizione collettiva, cui è naturalmente destinato, rispetto alla quale l’esclusività che nasce dalla concessione costituisce eccezione”. Se dunque i principi indiscussi sono quello dell’equilibrio fra spiagge libere e spiagge date in concessione e quello della prioritaria garanzia della libera e pubblica fruizione delle spiagge, ne discende logicamente che non meno del 50% (e preferibilmente il 60% o più) delle spiagge di ciascun comune debba essere libero e gratuito. Una battaglia per le spiagge come bene comune può dunque fondarsi anche su solide basi giuridiche, oltre che sulle nostre ragioni politiche e sociali, cercando per questa via di contrastare i rapporti di forza a noi oggi sfavorevoli.

Se l’attuale sistema delle concessioni compromette oggettivamente la destinazione primaria delle spiagge come bene pubblico liberamente e gratuitamente fruibile, con la ripubblicizzazione ecco che l’ interesse della collettività, e quindi di milioni di persone, tornerebbe a prevalere sull’interesse privato di poche migliaia di concessionari.

4 – Concessioni ai comuni e modello francese

Il secondo obiettivo ragionevole riguarda la ripubblicizzazione della gestione di quella porzione di spiaggia che si decida di dare in concessione. Non esiste infatti alcuna norma europea che impedisca l’assegnazione della concessione a enti di diritto pubblico, privi di scopo di lucro. I vantaggi di una simile scelta sono evidenti, a partire dall’abbassamento dei costi per i cittadini conseguente all’eliminazione dei profitti dei gestori privati dei Bagni, e dall’azzeramento dell’evasione fiscale e del lavoro nero/grigio, veri cancri del settore. Una riforma del sistema dovrebbe tener conto di questa strada, che fino ad oggi non si è voluto intraprendere. E non si tratta certo di un’utopia, come dimostra il modello dei nostri vicini francesi, dove le concessioni vengono assegnate per legge in via prioritaria a città metropolitane, comuni e associazioni di comuni. Solo se i comuni rinunciano al loro diritto di prelazione vengono effettuate gare alle quali possono concorrere sia soggetti pubblici che privati. Le norme francesi, infatti, da una parte sono virtuosamente orientate alla tutela ambientale del demanio marittimo e dall’altra si pongono esplicitamente l’obiettivo di garantire primariamente l’uso libero e gratuito delle spiagge da parte della collettività. È per questo che in Francia la spiaggia libera deve essere almeno l’80% del litorale, un obiettivo che, passo dopo passo, potrebbe essere raggiunto anche in Italia.

* Tommaso Fattori è stato primo firmatario di una proposta di legge regionale per la ripubblicizzazione delle spiagge

Foto: “young savages – Marina di Cecina”  di bass_nroll (CC BY-NC-ND 2.0)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 49 di Marzo-Aprile 2022: “Si scrive concorrenza, si legge privatizzazione

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