di Gioacchino Toni
L’universo Web tende a relegare l’individuo a quella che Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune (Luiss University Press, 2022) [su Carmilla], definisce “sferizzazione della vita” degli individui, sempre più relegati all’interno di bolle tendenti a vincolare alle abitudini consolidate e a limitare le occasioni di confronto con l’extra-sfera di appartenenza, dunque a far percepire l’esistenza – reale o vissuta come tale – come del tutto immodificabile. Al posto di una società composta da una pluralità di persone chiamate a confrontarsi, sembra prendere piede «un ambiente costituito da un brulichio di monadi felici di godere continuamente di ciò che si presume possa fare al caso loro in ogni momento. Una nuova condizione, questa, destinata a diventare naturale o a dare la misura di ogni cosa» (p. 97).
Secondo Sadin, al 2010 può essere fatto risalire il passaggio dal “capitalismo cognitivo”, fondato sul controllo delle abitudini degli utenti del Web e sulla monetizzazione delle informazioni a scopo commerciale, al “capitalismo delle affezioni”, «volto a catturare l’attenzione per mezzo di tecniche che ricorrevano all’adulazione e generavano la sensazione, destinata a essere reiterata, dell’importanza del sé» (p. 100). Ciò avrebbe determinato la costruzione di un “teatro dei comportamenti” votato alla disperata ricerca di strategie utili al raggiungimento di gratificanti like.
Al fine di ottenere l’agognato pollice alzato, gli individui hanno saputo ingegnarsi. Si possono cercare i like raccontando, attraverso una foto e un breve commento, qualsiasi momento particolare vissuto, oppure condividendo metodicamente riflessioni quotidiane tentando di generare attesa negli altri. Ci si può cimentare nel martellante invio ai propri “contatti” di link di decine di articoli o stringate affermazioni perentorie in cui ci si è imbattuti online, indipendentemente dal condividerne o meno i contenuti, traendo gratificazione dal riuscire a generare reazioni, dunque dal dettare l’agenda agli altri costringendoli ad esprimere le loro opinioni. Molti, infine, si sono accorti che per ottenere like conviene concederne parecchi. In questo ultimo caso, si instaura una vera e propria economia del like in cui la concessione di un pollice alzato rappresenta un investimento in vista di un ritorno futuro.
Nel corso degli anni Dieci del nuovo millennio, Facebook ha enormemente contribuito a generare una vera e propria “lotta per la reputazione” il cui esito è costantemente aggiornato sugli schermi generando una competitività feroce, per quanto non dichiarata. Si tratta di un schema non dissimile da quello in voga nel management contemporaneo, fondato sull’incoraggiamento all’iniziativa in cambio di gratificazioni in funzione dei risultati ottenuti. Da semplice fonte di diletto, l’universo Facebook si è trasformato in una sorta di protesi dotata di “virtù consolatorie” che ancor più che a un “capitalismo delle affezioni” sembrerebbe rinviare alla catarsi.
Questo è forse l’unico vero caso di economia “immateriale”, immateriale in quanto fondata esclusivamente su impulsi psicologici e incaricata soltanto di curare le ferite; un’economia che non cerca più, al pari della società dei consumi, di fabbricare prodotti e generare compenso attraverso l’acquisto, ma bensì, attraverso sistemi tecnologici dedicati e individualizzati, vuole dare agli utenti la sensazione di occupare un altro posto nella società, di beneficiare di una sorta di “upgrade” all’interno della realtà che è possibile sfruttare fino all’ultima goccia e che assume l’aspetto di una rivincita continua ed esaltante (p. 104).
Facebook sfrutta al meglio l’ansietà contemporanea e, sostiene Sadin, sembra quasi che, dopo aver diffuso “narcisismo secondario”, ossia un’esasperata attenzione verso se stessi, abbia finito per condurre a una regressione verso un “narcisismo primario” «caratterizzato dall’incapacità di percepire la separazione esistente tra le componenti del reale e la propria persona, e da una certa tendenza ad evolvere, come il bambino, nella non distinzione tra la propria percezione e l’ambiente circostante» (p. 105). L’autostima, più che dal compimento di gesti di valore derivati dai propri sforzi, sembra dipendere da un utilizzo efficace delle tecniche dell’espressività. Insomma, contraddicendo la promessa di creare rete sociale, il sistema sembra piuttosto spingere all’isolamento.
Anziché ricorrere al sistema basato sull’invito/ricezione di domande di amicizia, da parte sua Twitter istituisce il principio del follow ed il termine, evidenzia Sadin, testimonia una forma di subordinazione simbolica nei confronti di una personalità da parte di individui desiderosi di restare informati su di essa. L’introduzione del retweet permette di rilanciare un post sul proprio spazio contribuendo a concedergli la possibilità di diffondersi sino a divenire “virale”. Ad offrire gratificazione non è soltanto lo scoprirsi seguiti da innumerevoli individui; anche chi decide di seguire il profilo di una celebrità trova soddisfazione nel godere della sensazione di vicinanza ad essa. Twitter, sottolinea lo studioso, contribuisce enormemente ad amplificare il divario tra parola e azione: l’espressività tende a soppiantare le azioni concrete.
Attraverso la costruzione di stroy con Instagram, l’individuo si focalizza invece direttamente sull’autopromozione, sul conquistarsi una reputazione da cui trarre vantaggio fornendo alla piattaforma una conoscenza di sé molto approfondita. Il successo ottenuto con Instagram, che secondo l’autore rappresenta una forma di liberismo di sé, consente di divenire influenti, dunque di potersi trasformare in pubblicità vivente.
Più che di un processo di eterodirezione – così come tratteggiato dal sociologo David Riesman nei primi anni Cinquanta del Novecento –, con i centri di potere intenti a plagiare le menti degli individui, ora si sarebbe, secondo Sadin, di fronte a un meccanismo “ascendenza orizzontalizzata” contraddistinto da una moltitudine di persone che tentano di dotarsi di un’aurea e di esercitare magnetismo sugli altri in un contesto in cui si assiste a un incessante avvicendamento nelle posizioni di potere in una sorta di guerra di tutti contro tutti di cui fanno le spese la pluralità e la comunità.
La stessa pratica del selfie sembrerebbe suggerire il trionfo di un’autoproduzione del sé che si compiace del poter fare a meno degli altri e che consente esibizioni sguaiate che difficilmente si sarebbero tenute alla presenza di estranei. «Più che la manifestazione di un narcisismo, ciò che emerge è la gioia di poter affermare sé stessi senza impedimenti e senza avere bisogno dell’aiuto altrui, una gioia che non sarà ostacolata da nessuno e che […] sarà amplificata dalle acclamazioni della community virtuale non appena queste prove di coraggio verranno postate sul proprio profilo social» (p. 129).
In apertura di millennio ha fatto la sua comparsa TripAdvisor, piattaforma che, lusingando con la sua promessa di “democratizzazione del giudizio”, ha permesso a tutti gli individui di vivere l’ebrezza di farsi giudici delle attività commerciali gratificati dal sentirsi dotati del potere di rovinare l’altrui reputazione. Si sarebbero così strutturati nuovi metodi di controllo fondati sul postulato secondo cui «la soggettività delle moltitudini, qualunque sia il valore dei criteri in base ai quali si determinano, hanno sempre ragione» (p. 134). Il giudizio ai servizi si è esteso velocemente agli individui ed Uber, nata nel 2009, ne è forse l’esempio più noto: in questo caso dapprima sono stati i conducenti ad essere valutati dagli utenti, salvo poi essere questi ultimi a venire sottoposti a giudizio da parte dei fornitori del servizio.
Ben presto l’espressione pubblica delle opinioni si è trasformata in uno strumento di pressione economica e psicologica esercitata su vari attori, compresi gli stessi clienti, che ha assunto la forma di procedimenti disciplinari in tutto e per tutto inediti, apparentemente soft, ma che favorivano il proliferare insidioso di rapporti interpersonali strettamente utilitaristici e sottoposti a valutazioni reciproche (p. 135).
All’inizio degli anni Dieci anche le applicazioni dedicate agli incontri hanno subito importanti cambiamenti a partire dal ricorso alla geolocalizzazione dei corpi ed al touch control: da un lato la possibilità di incontro è stata subordinata alla prossimità degli utenti – che così accettano di sottostare a una costante tracciabilità – e dall’altro è stato introdotto il sistema di scorrimento (swipe) dei profili tramite il polpastrello che provvede, con un semplice scorrimento laterale, ad eliminare quelli indesiderati. Al di là dell’iniziale ricorso a tale interfaccia tattile per organizzare “un’avventura per una notte”, tale sistema ha contributo a introdurre una logica di gradimento basata esclusivamente sull’attrazione fisica capace di generare negli utenti una sensazione di onnipotenza.
La frenesia del consumo dei corpi stimolata dalle applicazioni corrisponde all’era della valutazione comparativa tra elementi della stessa natura permesso dall’intelligenza artificiale, utilizzata prevalentemente per segnalare, in ogni occasione, l’opzione più vantaggiosa. Assistiamo alla nascita di un nuovo ordine amoroso. Un ordine non più sottoposto al rischio virtuale della perdita del legame, ma che assume la forma di corrispondenza – a scopo prettamente sessuale – suggerite da algoritmi, le quali, previa convalida da entrambe le parti coinvolte, vengono immediatamente segnalate attraverso squillanti “crush”. I comportamenti umani, dunque, si modellano, più o meno consapevolmente, sulle caratteristiche tecnico-economiche dell’epoca, fondate sul primato del tempo reale e sull’imperativo di procedere sempre all’accordo più vantaggioso per le due entità distinte, all’interno di processi destinati a non avere mai fine, indipendentemente dai danni psicosociologici causati e dallo svilimento dei rapporti interpersonali indotti (pp. 138-139).
La svolta digitale, insomma, sembrerebbe aver portato a compimento quel processo di secessione individuale generalizzata che ha le sue basi nell’individualismo liberale e un importante punto di svolta nel neoliberismo tardo novecentesco. La narrazione compensatoria permessa dai dispositivi digitali sembrerebbe, secondo Sadin, donare all’individuo la sensazione di poter piegare la realtà ai suoi desideri alleviando le frustrazioni e le umiliazioni quotidiane che non trovano soluzione in un agire davvero comune. In questa deriva l’Io sembrerebbe farsi tiranno all’interno di un universo digitalizzato che pare sancire la fine del mondo comune. Sarà contenta Margaret Thatcher. “There is no such thing as society”.
Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza