Non possiamo più ignorare il ruolo del Big Tech nel consolidare le disuguaglianze globali. Per limitare la potenza del capitalismo digitale c’è bisogno di un Digital Tech Deal di carattere ecosocialista. La traduzione fatta da Marco Miotto di un articolo di Michael Kwet pubblicato su Raor Magazine.
Nell’arco di pochi anni il dibattito su come tenere sotto controllo il Big Tech è diventato mainstream e se ne è discusso in tutto lo spettro politico. Tuttavia fino ad ora le proposte per regolamentarlo non riescono ad affrontare le dimensioni capitaliste, imperialiste ed ambientali del potere digitale, le quali rinforzano la disuguaglianza e spingono il pianeta sull’orlo del collasso. Vi è l’urgente necessità di costruire un ecosistema digitale ecosocialista, ma in che forma? E come possiamo arrivare a costruirlo?
Questa ricerca si prefigge lo scopo di evidenziare alcuni degli elementi di base di un programma socialista digitale – Digital Tech Deal (DTD) – incentrato su principi di antimperialismo, abolizione di classe, risarcimento e decrescita che possono guidare la transizione verso un’economia socialista del XXI secolo. Esso attinge sia a proposte di trasformazione che a modelli esistenti che possono essere estesi, e cerca di integrarli ad altri movimenti che hanno lo scopo di cercare modelli alternativi al capitalismo, in particolare il movimento di decrescita (Degrowth Movement). La portata di questa trasformazione necessaria è enorme, ma si spera che questo tentativo di delineare un Digital Tech Deal socialista stimoli ulteriori dibattiti su come un ecosistema digitale ugualitario possa apparire e le tappe da percorrere per arrivarci.
Capitalismo digitale e problemi dell’antitrust
Le critiche progressiste al settore della tecnologia spesso provengono da una struttura capitalista incentrata sull’antitrust, sui diritti umani e sul benessere dei lavoratori. Tali critiche, formulate da accademici di élite, giornalisti, centri di ricerca e legislatori nel Nord Globale, portano avanti un’agenda riformista Americano/Eurocentrica che presuppone la continuazione del capitalismo, dell’imperialismo occidentale e della crescita economica.
Il riformismo dell’antitrust è particolarmente problematico perché dà per scontato che i problemi dell’economia digitale siano semplicemente la dimensione e le “pratiche sleali” delle grandi compagnie invece che il capitalismo digitale stesso. Le leggi sull’antitrust sono state create dagli Stati Uniti nel tardo XIX secolo per incoraggiare la concorrenza e limitare le pratiche abusive dei monopoli (all’epoca denominati “trusts”). Grazie alla portata e alla potenza del Big Tech contemporaneo, queste leggi sono tornate all’ordine del giorno della politica, e i sostenitori di tali leggi indicano come le grandi compagnie non solo danneggiano i consumatori, i lavoratori e le piccole imprese, ma mettono a dura prova le basi della democrazia stessa.
I difensori dell’antitrust sostengono che i monopoli distorcono un sistema capitalistico ideale e che sia necessario essere alla pari in modo che tutti possano competere. Tuttavia la concorrenza è positiva solo per coloro che posseggono le risorse con cui competere. Più di metà delle popolazione globale vive con meno di $7,40 al giorno e nessuno si domanda come possano “competere” sul “mercato competitivo” concepito dai difensori dell’antitrust occidentali. Se si considera la natura senza frontiere di internet, tutto questo è ancora più scoraggiante per le nazioni con un basso e medio fatturato.
A livello più ampio, come ho sostenuto in un precedente articolo pubblicato su ROAR, i difensori dell’antitrust ignorano la disuguaglianza globale della divisione del lavoro e dello scambio di beni e servizi intensificatasi dalla digitalizzazione dell’economia globale. Aziende come Google, Amazon, Meta, Apple, Microsoft, Netflix, Nvidia, Intel, AMD e molte altre sono così grandi perché posseggono la proprietà intellettuale e i mezzi di computazione utilizzati in tutto il mondo. I teorici dell’antitrust, specialmente quelli negli Stati Uniti, finiscono per cancellare sistematicamente dal quadro l’impero americano e il Sud Globale.
Le iniziative antitrust europee non sono da meno. Qui i legislatori, che sbuffano a proposito dei mali del Big Tech, stanno silenziosamente cercando di costruire i propri giganti tecnologici. Il Regno Unito punta a produrre il proprio colosso da trilioni di dollari. Il presidente Emanuel Macron pomperà €5 miliardi in startup tecnologiche nella speranza che la Francia possa possedere almeno 25 cosiddetti “unicorni” – aziende con un valore di $1 miliardo o più – entro il 2025. La Germania spende €3 miliardi per diventare una potenza nell’intelligenza artificiale e un leader mondiale (leggi colonizzatore di mercato) nell’industrializzazione digitale. Da parte loro i Paesi Bassi puntano a diventare una “nazione unicorno.” Nel 2021, la lodata commissaria per la concorrenza nell’Unione Europea, Margarethe Vestager ha affermato che l’Europa necessita di costruire i propri giganti tecnologici. Come parte degli obiettivi per il 2030 Vestager afferma che l’UE punta a: “raddoppiare il numero di unicorni europei a partire dagli attuali 122.”
Invece di di opporsi per principio alle corporazioni Big Tech, i legislatori europei sono degli opportunisti che cercano di ingrandire la loro fetta di torta.
Altri provvedimenti capitalisti riformisti proposti, come la tassazione progressiva, lo sviluppo di nuove tecnologie in quanto opzione pubblica e le protezioni lavorative non riescono tuttora ad affrontare le cause alla radice e i problemi strutturali. Il capitalismo digitale progressivo è meglio del neoliberalismo, ma è di orientamento nazionalistico, non può prevenire quindi il colonialismo digitale e mantiene un impegno nei confronti della proprietà privata, del profitto, dell’accumulazione e della crescita.
Emergenza climatica e tecnologia
Altri importanti punti ciechi per i riformisti digitali sono le crisi gemelle del cambiamento climatico e della distruzione ecologica, che mettono in pericolo la vita sulla Terra.
Un crescente numero di prove dimostra che le le crisi ambientali non possono essere risolte all’interno di un sistema capitalistico basato sulla crescita, il quale non solo aumenta l’uso energetico e aumenta le emissioni di diossido di carbonio ma mette anche gli ecosistemi sotto enormi stress.
L’ UNEP stima che le emissioni debbano essere ridotte del 7,6% ogni anno tra il 2020 e il 2030 per raggiungere l’obiettivo di mantenere l’incremento della temperatura al di sotto degli 1,5 gradi centigradi. Analisi scientifiche stimano che il limite mondiale sostenibile dell’estrazione di risorse debba essere di circa 50 miliardi di tonnellate all’anno, tuttavia attualmente ne vengono estratte 100 milioni di tonnellate, in gran parte a beneficio dei ricchi e del Nord Globale.
La decrescita deve essere implementata nell’immediato futuro. Le deboli riforme del capitalismo promosse dai progressisti distruggeranno l’ambiente. Applicando il principio precauzionale, non possiamo permettere il rischio di una catastrofe ecologica permanente. Il settore tecnologico non è un osservatore in tutto questo, bensì uno degli elementi chiave di questi trend.
Secondo un recente rapporto, nel 2019 le tecnologie digitali – definite come reti di telecomunicazioni, centri di elaborazione dati, terminali (dispositivi personali) e sensori IoT (internet delle cose) – hanno contribuito al 4% delle emissioni di gas serra, ed il loro utilizzo di energia è aumentato del 9% ogni anno.
Per quanto alto possa sembrare, queste percentuali sottostimano l’uso di energia del settore digitale. Un rapporto del 2022 ha rilevato che i giganti Big Tech non sono vincolati a ridurre le loro emissioni totali della catena dei valori. Aziende come Apple assicurano di diventare ad “impatto climatico zero” entro il 2030 ma questo “include attualmente solo le operazioni dirette, le quali rappresentano un microscopico 1,5% della sua impronta ecologica.”
In aggiunta al surriscaldamento del pianeta, l’attività estrattiva di minerali impiegati nell’elettronica – come cobalto, nichel e litio – in luoghi come la Repubblica Democratica del Congo, il Cile, l’Argentina e la Cina è spesso distruttivo dal punto di vista ecologico.
E poi vi è il ruolo centrale delle compagnie digitali nel dare supporto ad altre forme di estrattivismo insostenibile. I giganti della tecnologia aiutano le corporazioni a esplorare e a sfruttare nuove fonti di combustibile fossile e digitalizzano l’agricoltura industriale. Il modello imprenditoriale del capitalismo digitale ruota intorno a pubblicizzare la promozione del consumo di massa, un fattore determinante della crisi ambientale. Allo stesso tempo molti dei suoi dirigenti miliardari hanno un’impronta ecologica migliaia di volte più grande del consumatore medio del Nord Globale.
I riformisti digitali sostengono che il Big Tech può essere separato dalle emissioni di diossido di carbonio e dal sovra utilizzo di risorse e di conseguenza concentrano la loro attenzione sulle particolari attività e sulle emissioni di ciascuna corporazione. Ciò nonostante la nozione di “separazione” della crescita dall’utilizzo di risorse materiali è stato messo in dubbio dagli accademici, i quali contestano che l’utilizzo di risorse monitori rigorosamente la crescita del PIL nel corso della storia. I ricercatori hanno recentemente scoperto che spostare l’attività economica verso i servizi, industrie ad alto contenuto di conoscenze incluse, ha un potenziale limitato nel ridurre l’impatto ambientale globale dovuto all’incremento del livello di consumo domestico dei lavoratori dei servizi.
Riassumendo, i limiti alla crescita cambiano tutto. Se il capitalismo è ecologicamente insostenibile, allora le politiche digitali devono accomodarsi a questa dura e onerosa realtà.
Socialismo digitale e i suoi elementi costitutivi
In un sistema socialista la proprietà è detenuta in comune. I mezzi di produzione sono direttamente controllati dai lavoratori stessi tramite cooperative di lavoro e la produzione è per uso e bisogno anziché per lo scambio, il profitto e l’accumulo. Il ruolo dello Stato è contestato tra i socialisti: alcuni sostengono che il governo dovrebbe essere il più decentralizzato possibile, mentre altri sostengono un grado maggiore di pianificazione dello Stato.
Gli stessi principi, strategie e tattiche si applicano all’economia digitale. Un sistema di socialismo digitale eliminerebbe progressivamente la proprietà intellettuale, socializzerebbe i mezzi di computazione, renderebbe democratici i dati e l’intelligenza digitale e metterebbe lo sviluppo e la conservazione dell’ecosistema digitale nelle mani di comunità nel dominio pubblico.
Molti elementi costitutivi di un’economia digitale socialista esistono già. Software Liberi e Open Source (FOSS) e licenze Creative Commons, ad esempio, forniscono i software e le autorizzazioni per un modello di produzione socialista. Come rileva James Muldoon in Platform Socialism, progetti cittadini come DECODE (Decentalized Citizen-owned Data Ecosystems) forniscono strumenti di pubblico interesse open source per attività di comunità in cui i cittadini possono accedere e contribuire ai dati, dai livelli di inquinamento dell’aria alle petizioni online e ai social networks di vicinato, e allo stesso tempo mantenere il controllo sulla condivisione dei dati. Piattaforme cooperative, come la piattaforma londinese di distribuzione di cibo Wings, forniscono un importante modello di ambiente lavorativo, in cui i lavoratori organizzano il proprio lavoro attraverso piattaforme open source collettive e controllate dai lavoratori stessi. Vi è anche un social media socialista alternativo nel Fediverse, un insieme di social networks che interagiscono utilizzando protocolli condivisi che facilitano una decentralizzazione delle comunicazioni sociali online.
Ma questi elementi costitutivi necessiterebbero di cambiamenti di normative per sopravvivere. Progetti come il Fediverse, ad esempio, non sono in grado di integrare sistemi chiusi o di competere con le risorse concentrate massive del calibro di Facebook. Sarebbe quindi necessario un insieme di cambiamenti di normativa radicali per costringere i grandi social media network ad interagire, decentralizzarsi internamente, aprire la loro proprietà intellettuale (software proprietari), mettere fine alla pubblicità forzata (la pubblicità a cui le persone sono soggette in cambio di servizi “gratuiti”), sovvenzionare il data hosting cosicché gli individui e le comunità – non lo Stato o le aziende private – possano possedere e controllare i network ed esercitare la moderazione dei contenuti. Tutto questo renderebbe concretamente inesistenti i giganti della tecnologia.
La socializzazione dell’infrastruttura dovrebbe essere inoltre bilanciata da robusti controlli sulla privacy, restrizioni sulla sorveglianza statale e la riduzione dello stato di sicurezza carcerario. Attualmente lo Stato sfrutta la tecnologia digitale a scopi coercitivi, spesso con la collaborazione del settore privato. Le popolazioni migratorie e le persone in movimento sono pesantemente colpite da un insieme di telecamere, sensori di movimento, droni, video sorveglianza e biometria. La registrazione dei dati è sempre più centralizzata dallo Stato nei centri di fusione e in centri anticrimine in tempo reale per sorvegliare, prevedere e controllare le comunità. Le comunità marginalizzate e razziali e gli attivisti sono sproporzionatamente colpiti dallo stato di sorveglianza ad alta tecnologia. Queste pratiche dovrebbero essere vietate poiché gli attivisti lavorano per abbattere e abolire queste istituzioni di violenza organizzata.
Il Digital Tech Deal
Le compagnie Big Tech, la proprietà intellettuale e la proprietà privata dei mezzi di computazione sono profondamente integrati nella società digitale e non possono essere disabilitati dall’oggi al domani. Pertanto c’è bisogno di una transizione pianificata verso il socialismo digitale per rimpiazzare il capitalismo digitale con un modello socialista.
Gli ambientalisti hanno proposto nuovi “deals” che evidenziano la transizione verso una green economy. Proposte riformiste come il Green New Deal americano e il Green Deal europeo operano all’interno di un inquadramento capitalista, mantenendo intatti i danni del capitalismo tra cui crescita illimitata, imperialismo e disuguaglianza strutturale. Diversamente, i modelli ecosocialisti, tra i quali il Red Deal della Nazione Rossa, l’Accordo di Cochabamba e il Climate Justice Charter del Sud Africa, offrono alternative migliori. Queste proposte riconoscono i limiti della crescita ed incorporano il bisogno di principi egalitari per una giusta transizione verso un’economia realmente sostenibile.
Tuttavia né i red deal né i green deal incorporano piani per l’ecosistema digitale, nonostante la rilevanza centrale di quest’ultimo per l’economia moderna e per la sostenibilità ambientale. Il movimento di giustizia digitale ha, a sua volta, ignorato completamente le proposte di decrescita e il bisogno di integrare la loro valutazione dell’economia digitale all’interno di una struttura ecosocialista. La giustizia climatica e la giustizia digitale vanno di pari passo, e i due movimenti devono unirsi per raggiungere i loro obiettivi.
A tale proposito propongo un Digital Tech Deal ecosocialista che rappresenta i seguenti valori intersezionali: anti imperialismo, sostenibilità ambientale, giustizia sociale per comunità marginalizzate, emancipazione dei lavoratori, controllo democratico e abolizione delle classi. Di seguito vi sono dieci linee guida per tale programma:
1. Assicurarsi che l’economia digitale ricada all’interno di confini sociali e planetari
Siamo difronte alla realtà in cui le nazioni del Nord hanno già emesso più della loro giusta quota di bilancio di carbonio – questo è vero anche per l’economia guidata dal Big Tech che profitta sproporzionatamente le nazioni più ricche. È dunque imperativo assicurarsi che l’economia digitale ricada all’interno di confini sociali e planetari. Occorrerebbe stabilire un limite scientificamente informato sulla quantità e sui tipi di materiali da utilizzare (biomassa, trasportatori di energia fossile, minerali metalliferi) e decidere a che scopo quali risorse materiali dedicare (nuovi edifici, strade, componenti elettronici), in quali quantità e per quali persone. Si potrebbero instaurare debiti ecologici per imporre politiche redistributive da Nord verso Sud, dal ricco al povero.
2. Eliminazione graduale della proprietà intellettuale
La proprietà intellettuale, specialmente sotto forma di diritti d’autore e brevetti, dà alle corporazioni il controllo sulle conoscenze, la cultura e il codice che determina il funzionamento delle app e dei servizi, permettendo loro di massimizzare la partecipazione degli utenti, privatizzare l’innovazione ed estrarre dati sensibili e canoni. L’economista Dean Baker stima che il canone della proprietà intellettuale costerebbe ai consumatori un aggiuntivo $1 trilione all’anno, se paragonato a quello che si otterrebbe sul “mercato libero” senza brevetti o monopoli di diritti d’autore. L’eliminazione graduale della proprietà intellettuale a favore di un modello a base comunitaria di condivisione del sapere ridurrebbe i prezzi, amplierebbe e valorizzerebbe l’educazione per tutti e funzionerebbe come forma di redistribuzione della ricchezza e di riparazioni nei confronti del Sud Globale.
3. Socializzare l’infrastruttura fisica
L’infrastruttura fisica, tra cui cloud server farms, ripetitori wireless, reti di fibra ottica e cavi sottomarini transoceanici, beneficia coloro che la possiede Vi sono iniziative di provider internet gestiti dalla comunità e griglie di reti wireless che possono aiutare a piazzare questi servizi nelle mani delle comunità. Certe infrastrutture, come i cavi sottomarini, potrebbero essere mantenute da un consorzio internazionale che le costruirebbe e le manterrebbe ad un costo a beneficio del bene pubblico invece che ad un costo a beneficio del profitto.
4. Sostituire gli investimenti privati di produzione con sussidi pubblici e produzione
La British Digital Cooperative di Dan Hind è forse la proposta più dettagliata di come un modello socialista di produzione potrebbe funzionare nel contesto attuale. Secondo il piano: “le istituzioni pubbliche locali, regionali e nazionali forniranno spazi dove i cittadini e gruppi più o meno omogenei possono riunirsi e assicurarsi una pretesa sulla politica.” Tale trasformazione, valorizzata da open data, algoritmi trasparenti, software e piattaforme open-source, ed attuata mediante una pianificazione democratica partecipativa, faciliterebbe l’investimento, lo sviluppo e il mantenimento dell’ecosistema digitale dell’economia in generale.
Mentre Hind immagina di implementarla come opzione pubblica in una singola nazione – in competizione con il settore privato – potrebbe invece fornire la base preliminare per una completa socializzazione della tecnologia. Inoltre potrebbe essere estesa ad includere una struttura di giustizia globale che fornisca infrastrutture come riparazioni nei confronti del Sud Globale, in maniera simile a come le iniziative di giustizia climatica fanno pressione sulle nazioni ricche ad aiutare il Sud Globale rimpiazzando i combustibili fossili con energia verde.
5. Decentralizzare internet
Per lungo tempo i socialisti hanno spinto per decentralizzare la ricchezza, il potere e il governo verso i lavoratori e delle comunità. Progetti come FreedomBox offrono software gratuiti ed open-source per azionare server personali a basso costo tra cui email, calendario, chat app, social network e altro. Altri progetti come Solid permettono alle persone di organizzare i propri dati in “pod”. App providers, social media networks e altri servizi possono poi accedere ai dati nei termini accettati dagli utenti, i quali mantengono il controllo sui loro dati. Questi modelli potrebbero essere estesi per aiutare a decentralizzare internet su un principio socialista.
6. Socializzare le piattaforme
Le piattaforme internet come Uber, Amazon e Facebook centralizzano la proprietà e il controllo come intermediari privati che si frappongono tra gli utenti delle loro piattaforme. Progetti come Fediverse e LibreSocial forniscono un modello di interoperabilità che potrebbe potenzialmente estendersi oltre il social networking. Servizi che non possono semplicemente interoperare potrebbero essere socializzati e operati al costo a beneficio del bene pubblico invece che a beneficio di profitto e di crescita.
7. Socializzare l’intelligenza digitale e i dati
I dati, e l’intelligenza digitale che ne deriva, sono grandi fonte di ricchezza economica e di potere. La socializzazione dei dati, invece, incorporerebbe valori e pratiche di privacy, sicurezza, trasparenza e processi decisionali democratici su come i dati sono raccolti, immagazzinati e utilizzati. Potrebbe basarsi su modelli come Project DECODE di Barcellona e di Amsterdam.
8. Vietare la pubblicità forzata e il consumismo di piattaforma
La pubblicità digitale impone un flusso costante di propaganda aziendale progettata per manipolare il pubblico e stimolare il consumo. Molti servizi “gratuiti” sono alimentati dalla pubblicità, che stimola ulteriormente il consumismo, precisamente nel momento in cui il pianeta è in pericolo. Piattaforme come Google Search e Amazon sono costruite per massimizzare il consumo, ignorando i limiti ecologici. Le informazioni sui prodotti e i servizi potrebbero essere ospitate in rubriche e visitate su base volontaria, invece che sotto forma di pubblicità forzata.
9. Sostituire gli apparati militari, di polizia e carcerari con servizi di sicurezza e di protezione guidati dalla comunità
La tecnologia digitale ha aumentato il potere della polizia, dell’esercito, delle prigioni e dei servizi di intelligence. Alcune tecnologie, come le armi autonome, dovrebbero essere vietate perché non hanno alcuno scopo pratico, se non quello della violenza. Altre tecnologie alimentate dall’intelligenza artificiale, che hanno probabilmente qualche applicazione socialmente utile, avrebbero bisogno di essere rigidamente regolamentate, limitando la loro presenza nella società con un approccio prudente. Gli attivisti che spingono a limitare la sorveglianza di massa da parte dello stato dovrebbero unirsi con coloro che sostengono l’abolizione della polizia, delle prigioni, della sicurezza nazionale e del militarismo, oltre che unirsi a coloro che sono un bersaglio di tali istituzioni.
10. Porre fine al digital divide
Il digital divide in genere si riferisce al diseguale accesso individuale alle risorse digitali, come computer e dati; dovrebbe anche includere il modo in cui l’infrastruttura digitale, come cloud server farms e strutture di ricerca ad alta tecnologia, siano possedute e dominate dalle nazioni ricche e le loro aziende. Come forma di redistribuzione della ricchezza, il capitale potrebbe essere redistribuito mediante la tassazione e una procedura di riparazioni per sovvenzionare dispositivi personali, connettività internet ai poveri e fornire infrastrutture, come infrastrutture ad alta tecnologia e strutture di ricerca ad alta tecnologia, alle popolazioni che non se le possono permettere.
Come rendere reale il socialismo digitale
Sono necessari dei cambiamenti radicali, ma vi è un ampio divario fra quello che va fatto e dove ci troviamo attualmente. Cionondimeno vi sono dei passaggi critici che possiamo e dobbiamo fare.
Primo, è essenziale richiamare l’attenzione, promuovere l’educazione e scambiare idee, sia all’interno delle comunità che fra le comunità, in modo da creare una nuova struttura per l’economia digitale. Per fare questo c’è bisogno di una critica chiara al capitalismo digitale e al colonialismo digitale.
Tale sfida sarà ardua se la concentrazione della conoscenza e della produzione rimarrà intatta. Le università di élite, le società di media, i centri di ricerca, le ONG e i ricercatori Big Tech dominano il discorso nel Nord Globale e dettano l’agenda su come sistemare il capitalismo e su come limitare e condizionare i parametri di tale discorso. Necessitano passaggi per spogliarli dal potere, come abolire il sistema di classificazione delle università, democratizzare le aule e terminare i finanziamenti dalle aziende, dai filantropi e dalle grandi fondazioni. Iniziative per decolonizzare l’educazione – come il recente movimento di protesta studentesco #FeesMustFall in Sud Africa e Endowment Justice Coalition alla Yale University – forniscono esempi dei movimenti di cui ci sarà bisogno.
Secondo, abbiamo bisogno di unire i movimenti di giustizia digitale ai movimenti di giustizia sociale, razziale e ambientale. Gli attivisti dei diritti digitali dovrebbero lavorare con gli ambientalisti, con gli abolizionisti, con i sostenitori della giustizia alimentare, con femministi e con altri. Alcuni già lo stanno facendo – per esempio, la campagna #NoTechForIce guidata da Mijente, una rete dal basso di migranti, contesta la fornitura di tecnologia impiegata per controllare l’immigrazione negli Stati Uniti – ma è richiesto più impegno, specialmente in relazione all’ambiente.
Terzo, c’è bisogno di intensificare l’azione diretta e la rivolta contro il Big Tech e l’impero americano. A volte è difficile mobilitare il supporto dietro a cause così esoteriche, come l’apertura di un cloud center nel Sud Globale (per esempio in Malesia) o l’imposizione di software Big Tech all’interno delle scuole (per esempio in Sud Africa). Questo è particolarmente difficile nel Sud, dove le persone devono dare la priorità all’accesso al cibo, all’acqua, all’accoglienza, all’elettricità, alla sanità e al lavoro. Tuttavia, la resistenza efficace a sviluppi come Free Basics di Facebook in India e alla costruzione della sede generale di Amazon su terra sacra indigena a Città del Capo in Sud Africa dimostrano la possibilità e il potenziale dell’opposizione civile.
Queste energie attiviste potrebbero spingersi oltre e includere le tattiche di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), che vennero usate dagli attivisti anti-apartheid contro le aziende informatiche che vendevano le apparecchiature al governo dell’apartheid in Sud Africa. Gli attivisti potrebbero costruire un movimento #BigtechBDS, questa volta contro l’esistenza di gigantesche corporazioni tecnologiche. I boicottaggi potrebbero cancellare i contratti del settore pubblico con i giganti tecnologici e sostituirli con soluzioni socialiste di People Tech. Le campagne di disinvestimento potrebbero costringere le istituzioni, come le università, a disinvestire nei confronti delle compagnie tecnologiche peggiori. Gli attivisti potrebbero fare pressione sugli stati ad applicare sanzioni nei confronti di corporazioni tecnologiche americane, cinesi e di altre nazioni.
Quarto, dobbiamo lavorare per costruire cooperative di lavoratori tecnologici che possano essere gli elementi fondamentali di una nuova economia digitale socialista. Esiste un movimento per sindacalizzare il Big Tech, che può aiutare a proteggere i lavoratori del settore tecnologico. Ma sindacalizzare il Big Tech è come sindacalizzare le compagnie dell’India Orientale, l’azienda di armi Raytheon, Goldman Sachs o Shell – non è giustizia sociale ed è solamente in grado di portare a timide riforme. Allo stesso modo in cui gli attivisti anti-apartheid sud africani rifiutarono i Principi Sullivan – un insieme di regole e riforme di responsabilità sociale aziendale che permetteva alle aziende americane di mantenere vivi i profitti provenienti dal commercio con il Sud Africa e l’apartheid – e altre timide riforme a favore del soffocamento del sistema di apartheid, dovremmo puntare ad abolire il Big Tech e il sistema del capitalismo digitale. Questo richiederà la costruzione di alternative, il coinvolgimento dei lavoratori del settore tecnologico, non per riformare l’irriformabile, ma per aiutare ad elaborare una giusta transizione per l’industria tecnologica.
In fine, persone di ogni estrazione sociale dovrebbero lavorare in maniera collaborativa con i professionisti del tech per sviluppare il piano concreto che andrebbe a costituire un Digital Tech Deal. Questo deve essere preso sul serio come gli attuali “green” deal per l’ambiente. Con un Digital Tech Deal, alcuni lavoratori – come quelli del settore pubblicitario – perderebbero il loro lavoro, quindi ci dovrebbe essere una giusta transizione per i lavoratori di questi settori. Lavoratori, scienziati, ingegneri, sociologi, avvocati, educatori, attivisti e la popolazione potrebbero riflettere collettivamente su come rendere pratica tale transizione.
Attualmente il capitalismo progressista è ampiamente considerato come la soluzione più pratica nei confronti dell’ascesa del Big Tech. Eppure gli stessi progressisti non hanno riconosciuto i danni strutturali del capitalismo, della colonizzazione tecnologica americana e dell’imperativo della decrescita. Non possiamo bruciare le nostre case per riscaldarci. L’unica soluzione pratica è fare quello che è necessario per prevenire la distruzione della nostra unica casa – e questa soluzione deve integrare l’economia digitale. Il socialismo digitale, reso reale da un Digital Tech Deal, offre la migliore speranza nel breve arco di tempo a nostra disposizione per il cambiamento radicale, ma sarà necessario discuterlo, dibatterlo e costruirlo. È mio auspicio che questo articolo inviti i lettori e altri a percorrere in maniera collaborativa questa strada.