La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo – Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (“The Endless”). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller soprannaturali in circolazione per la natura originalmente metalinguistica della sua trama.
Per cominciare non deriva dall’adattamento di un libro, un fumetto o un videogame ma da un omonimo podcast: una forma di espressione massmediale che utilizzando le possibilità date dall’agilità del web come evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico, si è imposta dopo il boom di massa del true crime statunitense Serial del 2014, come nuova frontiera dello story telling. Un esempio nostrano è Veleno di Pablo Trincia, podcast divenuto in seguito libro e serie tv di successo. Il podcast originario Archive 81 è invece la docuserie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Sollinger, due podcaster indipendenti in caccia di casi irrisolti e fenomeni inspiegabili.
La storia – non direttamente tratta da alcuna di quelle del podcast – racconta dell’archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), restauratore di nastri, cassette e pellicole per il Museo delle Immagini in Movimento, un orfano reduce da un esaurimento nervoso la cui famiglia, tranne il cane, è scomparsa in un incendio, che accetta l’incarico di restaurare una collezione di videocassette VHS danneggiate in un altro incendio nel 1994, utili per motivi processuali. Chi lo ingaggia è una strana e irrintracciabile società gestita da un misterioso imprenditore miliardario, Virgil Davenport (Martin Donovan), che gli offre la spropositata cifra di 100mila dollari. Il lavoro si svolgerà in un luogo isolato in mezzo ai boschi in un’enorme casa fuori New York, perché le cassette non vanno assolutamente spostate né portate in giro. Ovviamente scoprirà presto che la residenza di proprietà della multinazionale di Davenport, per quanto confortevole, è piuttosto inquietante: il cellulare lì prende poco, non c’è internet e, soprattutto, la casa sembra nascondere più di un segreto. Le cassette che Dan pazientemente visiona e restaura costituiscono la tesi di laurea filmata della documentarista laureanda in studi umanistici Melody Pendras (Dina Shihabi) che nel 1994 ha preso alloggio nel condominio Visser, nell’East Village di New York, per intervistarne gli inquilini e tracciare una specie di descrizione filmata di un ecosistema urbano in miniatura. Come Dan scoprirà presto l’edificio distrutto nell’incendio da cui le cassette sono state recuperate è proprio il condominio Visser: c’è un filo che collega quel rogo al suo datore di lavoro e, soprattutto, quel filo collega anche Melody a lui.
A questo punto interrompiamo il riassunto dicendo solo che la progressiva immersione di Dan nel found footage, lo introdurrà ad un mondo di culti apocalittici, entità demoniache aliene e orrore cosmico in pieno stile Lovecraft, sviluppato però attraverso due diversi piani temporali che si intrecciano: non semplicemente collegando due trame separate – procedimento tipico del flashback – ma lungo un’unica linea narrativa che si biforca e si flette come un nastro di Moebius.
Una New York sinistra che molto ricorda figurativamente quella del polanskiano Rosemary’s Baby è solo apparentemente lo scenario di un mockumentary sulla scia di quelli degli anni ’90 e 2000, dopo il successo di The Blair Witch Project, quando l’horror si dibatteva tra la narrazione tradizionale in terza persona, e la simulazione della realtà in soggettiva. Archive 81 si avvale di un passaggio fluido dall’una all’altra: la soggettiva della videocamera di Melody, con la sua qualità sgranata da video analogico anni ’90, è la soglia del tempo, il campo il cui controcampo, divenuto esterno e oggettivo, ci porta nel passato. Da principio il risultato è spiazzante. Lo spettatore pensa di trovarsi di fronte a un racconto sviluppato su un’unica linea temporale in cui Dan visiona i nastri di Melody, e invece viene risucchiato su una seconda linea temporale di fronte alla “vera” Melody. Due tempi diversi su un’unica linea narrativa. La videocassetta è un viaggio nel tempo: cifra stilistica e messaggio teorico e metatestuale che si alimenta dell’ambiguità e polisemia del proprio oggetto. In sostanza un superamento e una negazione del found footage: scavalcando il discorso filmico costruito sui materiali audiovisivi recuperati, sui ritagli e gli scarti veicolo della visione, se ne disconosce la funzione veritativa.
Il found footage visionato da Dan si trasforma quindi in girato classico, e lunghi tratti narrativi restano nel passato, a seguire gli eventi nell’edificio Visser prima dell’incendio. Permane il possibile equivoco tra ciò che Dan ha potuto scoprire dalle cassette e ciò che invece lo spettatore conosce solo grazie al punto di vista di Melody: non tutto quel che l’uomo apprende viene oggettivamente registrato dalla ragazza (che filma spesso, ma non sempre).
La narrazione resta comunque strettamente legata agli elementi multimediali che determinano la trama: videotape, schermi, videocamere di sorveglianza, fotografie, perfino il rumore bianco che accompagna intere sequenze, non sono solo elementi atmosferici e stilistici ma parti costituenti dell’intreccio. La tecnologia è il portale del “soprannaturale”, delle “forze estranee”, dell’”oltre” (si pensi non solo al filone mockumentary derivato dal già citato The Blair Witch Project, ma anche a The Ringe affini): filmati difettosi e sgranati finiscono sugli schermi di ultima generazione di Dan; il “recupero” dell’archivista mediatico è il punto di unione dei mondi: i dagherrotipi della fotografia spiritica vittoriana diventano gli occhi elettronici delle telecamere di sorveglianza, a conquistarsi grazie al progresso tecnologico, sempre maggiori frammenti di invisibile.
Anche l’operazione nostalgia di Netflix – il cui culmine è Stranger Things – con l’occhieggiare al cinema degli anni 80/90, è contemporaneamente affermata e negata da Archive 81. Non a caso la storyline di Dan è ambientata ai giorni nostri, mentre quella di Melody a metà anni Novanta, in stretta relazione alle rispettive tecnologie disponibili: in senso più o meno metaforico il terrore viene dal passato, le pratiche stregonesche, i culti innominabili, sono fantasmi di arcaismi rimossi, specchi del terrore di un ritorno al passato, a pratiche primitive, rituali, in altre parole analogiche. Invece di evocare facili nostalgie e mistificazioni feticistiche, Archive 81 utilizza il vintage per “demonizzarlo”. Se ambivalente è il rapporto col tempo e la tecnologia, ambivalente è anche l’entità (para-lovecraftiana) chiamata Kaelego che da questi elementi riemerge: un dio e un demone a un tempo, dal cui culto si sono originate due diverse sette in lotta tra loro, entrambe pericolose nonostante le linee di pensiero in contrapposizione. Metafore fantastiche delle diverse possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire gli effetti delle infestazioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull’impatto con cui la metamorfosi mediatica – ancora in atto nella nostra società – abbia cambiato drasticamente e continui a modificare le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale.
L’aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, è l’approccio postmoderno alla narrazione, allusivo, multistratificato, metalinguistico e intertestuale. Un meccanismo che mescola una lettura “presente” (guardare ciò che dice/mostra la serie) a un’azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), l’archivio del titolo diventa inclusione del passato nel presente, diventa quindi anche archivio di citazioni cinematografiche e letterarie, più o meno esplicite, sparse lungo il corso dei vari episodi: un catalogo di film fantastici, Shining, The Night of the Living Dead, Rosemary’s Baby, Solaris, i film a cui Dan è appassionato, il podcast presentato dall’amico Mark che ripropone gli audioracconti e i libri di fantascienza degli anni Cinquanta, fino alla passione di Melody per il cartone animato Brisby e il segreto dei Nimh, famoso soprattutto negli Stati Uniti, e le insistite panoramiche sulle librerie dei personaggi occupate principalmente dai libri di Stephen King.
Alcuni critici hanno rinfacciato alla serie una certa lentezza nella prima parte. In realtà i lunghi dettagli sulle manipolazioni delle cassette in VHS per il restauro sapientemente operato da Dan, rispecchiano quel feticismo – materico in questo caso – per le tecnologie del passato di cui già si è detto: un elemento importante che costituisce proprio il fascino e la particolarità dello show. A mio parere è proprio tutta la prima parte la più affascinante, anche per questi tempi dilatati e inusuali (in certi momenti fanno quasi pensare ad una versione più pulp di David Lynch). E’, nel caso, la parte finale che rientra su tempi tecnici e binari narrativi assai più canonici. Se le domande iniziali sono inquietanti, le risposte finali rimandano alla comfort zone abituale del pubblico di horror, l’enigma perde di fascino e forza e persino il leitmotiv delle videocassette da restaurare diventa sempre più marginale. La storyline del passato di Melody, da un certo punto in poi, predomina sul presente, sbilanciando il racconto e interrompendo quella dialettica cronologica e narrativa che costituiva l’originalità della serie.
Arrivati all’ultimo episodio, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, siamo ormai sbalzati, con i due protagonisti ora riuniti, nel passato dell’incendio: smarriti nell’ennesimo loop temporale, aspettiamo la seconda stagione augurandoci che riprenda più gli aspetti atipici che quelli classici di questa, complessivamente notevole, prima stagione.
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