Strage di Modena: noi non archiviamo (parte seconda)

di Alexik

[Link alla prima parte].

Se è vero che ogni prigione è un abominio, ogni prigione lo è nel suo modo particolare.
Particolare per la struttura o per il luogo: segreta medioevale, panopticon, cubo di cemento, carcere di città o isola/penitenziario.
Particolare per il regime di detenzione utilizzato (ordinario o speciale) o per la composizione sociale che l’attraversa.
La particolarità del carcere di Modena è quella di essere destinato – ancora più di altri – a contenere la massa crescente degli esclusi da questo sistema sociale.
E’ un concentrato di povertà assoluta in una delle province più ricche del paese.
Già nel 2017 la direzione valutava in circa 200 il numero dei detenuti completamente privi di mezzi1, impossibilitati dunque a procurarsi un sapone, le sigarette, il sopravvitto.
Alla fine del febbraio 2020, poco prima della rivolta, erano presenti al Sant’Anna 562 detenuti per una capienza di 369 posti, stipati in un luogo con una offerta trattamentale bassissima: quattro operatori dell’area giuridico pedagogica e una sola educatrice2.
La disposizione dei detenuti nelle sezioni era improntata a forti criteri di premialità, che si riflettevano in una concentrazione delle fasce più emarginate in alcune aree del penitenziario, caratterizzate anche dalla scarsa offerta formativa, culturale e di lavoro.
Il carcere di Modena era (ed è) un insieme di strutture vecchie fatiscenti e di strutture nuove nate male, con la palestra e il campo di calcio inagibili, sale di socialità spoglie, crepe, perdite d’acqua, muffe e fetore di fogna.
Veniva definito “un porto di mare”, approdo di flussi continui di detenuti trasferiti per decongestionare altre galere, flussi che ne alimentavano la sovrappopolazione e la condizione di sradicamento dei reclusi, allontanati dalle proprie reti familiari e sociali, spesso fragili quanto loro.
Uno sradicamento ancora maggiore per gli immigrati, che nel 2019 erano oltre il 60 per cento dei prigionieri, il doppio della media nazionale3.

Otto dei nove morti della rivolta dell’8 marzo 2020 al Sant’Anna erano migranti, e anche Sasà, l’unico italiano, condivideva con i compagni stranieri la condizione di fragilità e di lontananza dalle proprie reti sociali di salvataggio.
Su questo sradicamento contano oggi gli artefici della rappresaglia inflitta per questo atto di ribellione. Contano sull’indifferenza del territorio, sulla lontananza e sulla difficoltà di reazione delle famiglie di chi ha perso la vita, oltre che sulla copertura di procure e tribunali in una città che, da questo punto di vista, presenta un particolarissimo microclima.
Ad esclusione del Consiglio Popolare ed altri gruppi di splendid* compagn*, Modena è una cittadina imborghesita, laboratorio reazionario di montature contro i sindacalisti, cariche sugli scioperanti,  processi di massa ai danni degli operai combattivi.
Con la strage del Sant’Anna diviene anche l’emblema della tanatopolitica carceraria di questo paese, capace di alternare la violenza diretta con il lasciar morire categorie di persone considerate come vite a perdere.
Tanatopolitica che nelle carceri uccide tutti i giorni e che è una delle cifre caratterizzanti  della fine di Hafedh Chouchane, Ghazi Hadidi, Bilel Methani, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Artur Iuzu, Abdellha Rouan, Salvatore Cuono Piscitelli.

STORIA DI ARTUR

Artur Iuzu nasce in Moldavia il 24/06/1988.
L’8 marzo 2020 si trova rinchiuso nel carcere di Modena in attesa di giudizio.
Gli mancano solo due giorni al processo, ma non farà in tempo ad arrivarci vivo.
Le carte della procura di Modena lo indicano come uno dei rivoltosi più attivi.
Dicono che durante la rivolta a un tratto perde i sensi, e che sono i suoi compagni a consegnarlo agli agenti per il soccorso4.
Non dicono che riceve una tipologia molto particolare di soccorso, che un ex detenuto del Sant’Anna, intervistato dal TG3, descrive come segue:

Una squadra dalla parte destra e una dalla parte sinistra. Ti tirava da per terra e ti portava qua. A Izu Arturo, gli davano delle botte, manganelli, avanti e indietro. Io l’ho visto in quel momento come morto5.

La sera dell’otto marzo il “punto medico avanzato” allestito nell’area esterna del carcere affronta una quantità di casi di overdose. E’ nota a tutti, quindi, l’esistenza di un’emergenza sanitaria da abuso di sostanze, che imporrebbe di evitare il trasferimento in altri istituti di soggetti a rischio.
Nonostante abbia già subito un malore, Artur viene trasferito ugualmente nel carcere di Parma assieme ad altri 15 compagni di prigionia.
Potrebbe, apparentemente, sembrare una fortuna.
Il carcere di Parma è sede di un reparto SAI (Servizio Assistenza Intensiva), un centro clinico sbandierato dall’Amministrazione Penitenziaria come struttura di eccellenza, esattamente ciò di cui avrebbero bisogno i 16 detenuti in arrivo da Modena.
I nuovi giunti infatti – così come descritti dal comandante della penitenziaria – “danno segni evidenti di abuso di sostanze: occhi semi chiusi, rallentati nelle reazioni, alcuni con eloquio incerto6.
Fra loro Artur è anche visibilmente pesto.
Ci si aspetterebbe che venissero subito soccorsi, ma il “centro clinico di eccellenza” in realtà è una scatola vuota. Il reparto SAI la notte è privo di personale, e i suoi 26 posti letto sono comunque perennemente occupati7.
Per l’assistenza notturna ci sono solo i medici di guardia dell’istituto, che quella sera sono la dott.ssa Ferri per la Casa Circondariale (a cui spettano le visite per i nuovi arrivati) e il dott. Ondobo per il reparto Reclusione.
Troppo pochi per affrontare la situazione, che si presenta subito drammatica perché uno dei trasferiti è in conclamata overdose.
Mentre i medici sono impegnati a salvargli la vita e ad inviarlo al pronto soccorso cittadino, il comandante della polizia penitenziaria presso la casa circondariale di Parma dispone che i nuovi arrivi vengano perquisiti, fotografati e scortati nelle celle di destinazione saltando la visita medica, nonostante già si veda che stanno male. Potrebbero essere attivate altre unità del 118, a sostegno del personale medico del carcere, ma questo non succede.

Poiché tra i soggetti tradotti quattro detenuti apparivano lucidi e orientati, gli agenti cercavano di associare costoro con altri meno lucidi in modo da equilibrare la composizione delle varie stanze”.

In pratica i nuovi giunti in stato di evidente malessere da abuso di sostanze vengono affidati ai loro compagni di detenzione.
Quando la dott.ssa Ferri conclude l’intervento su quello che sembra il più grave, gli altri sono stati tutti rinchiusi. Le viene riferito dal personale di polizia penitenziaria che deve posticipare le visite alla mattina, ma lei insiste per vederli almeno dall’esterno.

Mi disse che, dato il momento di emergenza di tipo custodiale e che i detenuti erano persone di elevata pericolosità, era opportuno vederli dal blindo, senza entrare per visitarli. Puntualizzo che se mi avessero dato la possibilità di scelta io sarei entrata nelle stanze per visitarli, ma, ripeto, mi dissero che potevo fare solo quello. Ho quindi visto i detenuti dalla grata della porta blindata” 8.

Non può accorgersi se Artur sta male, e non se ne accorgeranno i secondini nei controlli successivi.
Alle 6,35 del 9 marzo il compagno di cella chiama i soccorsi perché vede che respira male, o non respira affatto. Alle 8,20 si constata la morte.
Dall’esame esterno del corpo e dagli esami tossicologici emergono, oltre all’avvelenamento da metadone:

Lesioni di natura traumatica, escoriazioni ed ecchimosi al capo, al dorso e agli arti”, e una “infiltrazione emorragica del muscolo sterno-cleido– mastoideo9.

Non gli è stata fatta l’autopsia, un atto necessario per verificare la presenza di eventuali traumi interni. Il medico legale di Parma ha detto che erano arrivate indicazioni di non procedere all’apertura del cranio  a causa del covid.
Ma Artur non aveva il covid. L’autopsia non è stata fatta neanche dopo l’esito negativo del tampone.
E nessuno potrà farla, mai più, perché il corpo di Artur è  stato trasformato in cenere al crematorio10.

STORIA DI ABDELLAH

Durante il tragitto questo ragazzo mi cadeva addosso, come se fosse addormentato. Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo tunisino che mi cadeva addosso per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso dei provvedimenti. Arrivato ad Alessandria questo ragazzo non mi rispondeva più”.

Il ragazzo si chiamava Abdellah Rouan, nato in Marocco il 29/01/86.
E’ stato trasferito nella notte fra l’8 e il 9 marzo dal Sant’Anna di Modena al carcere di Alessandria.
All’arrivo, alle 4,30 del mattino, non riesce a rispondere all’appello, e viene portato giù a braccia dagli agenti.
La dottoressa del carcere di destinazione prova a intervenire  con un defibrillatore, inutilmente. L’ambulanza arriva 40 minuti dopo. Inutilmente. Muore alle 5,42.
Non è l’unico in overdose.
Altri tre vengono soccorsi, e sopravvivono.
Un compagno di viaggio dice che prima di partire, nessuno era stato visitato da un medico.
Le carte della procura sostengono il contrario. Dicono che Abdellah era stato visitato e “stabilizzato” prima di partire da Modena. Dicono anche che era impossibile prevedere la depressione respiratoria che ne ha determinato la morte11. Ma questo non è vero.
Giuseppe Conserva è il medico del 118 che presta soccorso ai detenuti nel “punto medico avanzato” allestito nella parte esterna del carcere di Modena.
La caratteristica dell’antidoto [per l’overdose di metadone] – dice – è che agisce subito ma dura poco”.
Se la quantità di metadone ingerito è alta, l’antidoto ti risveglia, ma quando finisce l’effetto, ritorni  in coma. Per questo si usa somministrarlo due volte, sia intramuscolare che endovena, per prolungarne l’effetto quando c’è il rischio che la persona soccorsa rifiuti di restare diverse ore in osservazione.
Ma la doppia iniezione al Sant’Anna non è stata somministrata, e i trasferimenti hanno sottratto i detenuti all’osservazione da parte dei medici che ne conoscevano le condizioni e disponevano dell’antidoto12.
Per Abdellah, il cinismo del capo scorta ha fatto il resto. (Continua)

Foto di apertura: Bologna, 25 aprile al Pratello. I volti dei morti del Sant’Anna sui muri del carcere minorile.
Ritratti di Asparago.

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