di Alexik
[Link alla seconda parte].
STORIA DI SASÀ
Salvatore Cuono Piscitelli (per tutti Sasà) era entrato in prigione a Modena per il furto e l’uso di una carta di credito rubata.
Ne sarebbe dovuto uscire il 17 agosto 2020.
Sasà era un attore. Era stata la galera a farlo salire per la prima volta su un palcoscenico, con la Compagnia del teatro del carcere di Bollate.
Michelina Capato, animatrice (recentemente scomparsa) di “Teatro dentro”, ne parlava come un “attore meraviglioso, potente, amico fragile e affettuoso, una bomba di energia, la persona più simpatica del mondo”1.
“La cosa che rattrista di più è che lui a me l’ha detto varie volte che temeva di morire esattamente così come è morto, cioè da solo, in una galera e con la violenza”2.
La notte dell’otto marzo 2020, dopo la rivolta del Sant’Anna, 42 detenuti vennero trasferiti da Modena alla Casa Circondariale di Marino del Tronto. È il carcere di Ascoli Piceno, sede fino a due anni fa di una sezione per il 41bis, e che ospita tutt’ora l’alta sicurezza AS33.
Sasà era uno dei trasferiti. Morirà il giorno dopo.
Sulle sue ultime ore abbiamo due versioni: quella istituzionale, e quella formalizzata in un esposto da cinque suoi compagni di prigionia.
Dicono, i suoi compagni “dopo esserci consegnati, esserci fatti ammanettare, essere stati privati delle scarpe ed essere stati picchiati, fummo fatti salire, contrariamente a quanto scritto in seguito dagli agenti, senza aver posto resistenza sui mezzi della polizia penitenziaria usando i manganelli.
Picchiati durante il viaggio fummo condotti c/o alla C.C di Ascoli Piceno…
Uno alla volta e quasi tutti senza scarpe fummo accompagnati prima in una stanza ove venimmo perquisiti e successivamente alla classica visita medica, dove a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee.
Alcuni di noi furono picchiati dagli agenti di Bologna anche all’interno dell’Istituto di Ascoli Piceno, nello specifico nei furgoni della polizia penitenziaria alla presenza degli agenti locali”.
Dicono che “il detenuto Piscitelli Salvatore, già brutalmente picchiato presso la Casa Circondariale di Modena e durante la traduzione, arrivò presso la C. C. di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”4.
Di tutto questo il medico del carcere di destinazione non vide nulla. Visitò Sasà alle 2,30 di notte compilando il referto con due sigle: N.d.R. A.B.S., Nulla da dichiarare. Apparente buona salute.
E con questa annotazione, “stato generale buono”, Sasà venne spedito in cella.
“Una volta giunto alla sezione … gli fu fatto il letto … poiché era visibile a chiunque la sua condizione di overdose da farmaci…. Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale. Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna.
La mattina seguente in data 09-03-2020 fu fatto nuovamente presente … che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato nuovamente ma nulla fu fatto”.
E’ probabile che il personale penitenziario in quel momento fosse molto impegnato in altre attività.
I detenuti dichiarano infatti che “la mattina seguente al nostro arrivo e nei giorni seguenti molti di noi furono picchiati con calci, pugni e manganellate, all’interno delle celle all’opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”. Se questo era clima, difficile aspettarsi risposte solerti alle richieste d’aiuto, o atti di soccorso amorevole.
“Verso le 09:00 del mattino furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico, qualcuno sentì un agente dire “ fatelo morire“.
Verso le 10:00 – 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo, Piscitelli era morto… Piscitelli fu sdraiato sul pavimento, giunta l’infermiera la stessa voleva provare a fare un’iniezione al Piscitelli ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto. Messo in un lenzuolo fu successivamente portato via”.
La versione dei compagni di prigionia diverge da quella fornita dalla direzione carceraria e dai sanitari, che sostengono che Sasà sia morto nel pomeriggio in ospedale.
Ma, comunque sia andata, sul mancato soccorso la sostanza non cambia: la chiamata del carcere al 118 viene effettuata solo alle 12,47, dopo diverse ore dalle prime richieste di aiuto.
A differenza dell’inchiesta sugli altri otto detenuti morti nella strage del Sant’Anna, il fascicolo su Sasà Piscitelli compete alla Procura e al Tribunale di Ascoli. E’ l’unico a non essere formalmente archiviato, anche se la Procura di Ascoli si è già mossa in questo senso, richiedendo l’archiviazione in spregio alle deposizioni di cinque testimoni.
La Procura ammette l’oggettivo ritardo dei soccorsi, ma non ritiene possibile “effettuare un giudizio prognostico in termini di concrete probabilità di sopravvivenza se i soccorsi si fossero attivati con maggiore tempestività”5.
In pratica, lasciar morire non è considerato reato.
Per illuminare la Procura sarebbero potuti tornare utili i referti di un’autopsia sul corpo di Piscitelli, peccato sia stato cremato subito dopo la morte per “sospetto COVID-19”.
Nel frattempo ad uno dei compagni di prigionia di Sasà, co-autore dell’esposto/denuncia, è stata inflitta – in base a una norma fascista – una misura di sicurezza detentiva dopo il fine pena, che lo priva di un termine preciso dello stato di detenzione e dei minimi diritti concessi ai detenuti.
Con chiaro intento ritorsivo è stato internato prima nella casa lavoro di Castelfranco Emilia, gestita dall’ex direttrice del Sant’Anna, e poi nella colonia penale di Vasto, lontano dal proprio legale e dalle reti sociali di appoggio6.
Negli ultimi sei mesi nel carcere di Marino del Tronto due detenuti si sono tolti la vita7.
Strage di Modena: alcune note al margine
Luigi Romano, nel suo libro La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane (recensito su Carmilla da Giovanni Iozzoli), nota che durante la mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere “i medici presenti nell’istituto durante la “perquisizione”, pur rispondendo a un’altra catena di comando (il ministero della salute), non hanno proferito parola. Alcuni di essi videro con i propri occhi quello che stava accadendo, ascoltarono le strilla, sentirono i colpi dei manganelli sugli scudi, ma nessuno ha presentato denuncia”.
Le stesse identiche considerazioni potrebbero essere tranquillamente estese al contesto della mattanza del Sant’Anna di Modena, dove l’omertà dei sanitari si è espressa non solo nella mancata denuncia di violenze sui detenuti di cui era impossibile non accorgersi – visto che le urla le sentivano anche i familiari fuori dai cancelli – ma anche di non refertare agli stessi i traumi subiti in seguito ai pestaggi e di non medicarglieli.
Nel caso del Sant’Anna, il “punto medico avanzato” allestito nell’area esterna era gestito da personale del 118, non dai medici e paramedici del carcere, che lavorando a stretto contatto con la polizia penitenziaria possono temerne maggiormente le reazioni.
Il dottore del “punto medico avanzato” che per primo ha visitato il corpo senza vita di Hafedh Chouchane, afferma di non avergli trovato addosso segni evidenti di lesioni fisiche.
Ma è lo stesso corpo su cui l’Istituto di Medicina Legale rileva “escoriazioni e ecchimosi in regione dorsale, all’arto superiore destro (avambraccio e mano), all’arto superiore sinistro e all’arto inferiore di destra”
Anche il medico del carcere di Verona visitando Ghazi Hadidi, trasferito da Modena, scrive nel referto “Non evidenti segni esterni di violenza”.
Ma i segni di violenza magicamente appariranno, anche questa volta, al momento dell’analisi del corpo da parte della medicina legale: “In corso di ispezione esterna del cadavere sono state riscontrate multiple e diffuse escoriazioni a livello dell’addome e dei quattro arti, nonché avulsione degli elementi dentari 2.2 e 2.3. Tali lesioni sono da ricondurre ad azione lesiva di un corpo contundente”.
Allo stesso modo il medico del carcere di Marino del Tronto al cospetto di Sasà Piscitelli, fresco di pestaggio, si limita a scrivere “Nulla da dichiarare. Apparente buona salute. Stato generale buono”.
Non c’è, in tutta questa storia, un Marco Poggi, l’infermiere che prestò servizio nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del luglio 2001, trovando poi il coraggio di denunciare le torture sui manifestanti a cui aveva assistito.
Un’altra considerazione riguarda la tipologia degli agenti coinvolti nella repressione della rivolta di Modena.
Non si tratta di corpi scelti, addestrati alle operazioni speciali e alla gestione del carcere duro, formati nella logica dell’annientamento del nemico.
A differenza dei GOM di Bolzaneto, o del Gruppo di Intervento Rapido (GIR) di Santa Maria Capua Vetere, chi è intervenuto a Modena è in buona parte personale in servizio presso le sezioni ordinarie, di stanza al Sant’Anna o in altre carceri della regione (Bologna, Reggio Emilia, Parma, Forlì).
E il fatto che abbia saputo esprimere tale livello di violenza la dice lunga su quale sia la gestione quotidiana anche in quelle carceri e sezioni formalmente destinate all’attuazione dei principi trattamentali.
La strage del Sant’Anna, dunque, apre una finestra anche sugli abusi di ogni giorno, sul contesto di omertà che ogni giorno li nasconde, sul disastro dell’assistenza sanitaria che ogni giorno produce morte e sofferenza nelle carceri, sulle ragioni che ogni giorno preparano il terreno alle rivolte di domani.