Raul Zibechi suggerisce che nell’era della globalizzazione qualsiasi forma di estrattivismo porta con sè inevitabilmente la negazione dell’emancipazione, sia territoriale che culturale, delle comunità indigene o di chi abita quei territori.
Estrattivismo come diretta emanazione del neocolonialismo, che si palesa come una guerra non apertamente dichiarata, ma violenta e implacabile.
Nello scorso weekend romano, durante l’appuntamento organizzato da Re:Common “Un futuro senza Eni”, si è cercato di approfondire insieme ad alcuni ospiti internazionali come l’ennesima fase emergenziale, immediata conseguenza della guerra in Ucraina, sia sfruttata ad arte da multinazionali come Eni e Snam, con la garanzia di allontanare ancora di più l’orizzonte di una giusta transizione. Questo appuntamento arriva all’indomani dell’Assemblea generale di Eni – per il terzo anno svoltasi a porte chiuse – e non si stenta a credere che le soluzioni trovate come sempre parlino la stessa lingua: sbloccare le trivelle, puntare sul carbone e aumentare le forniture di gas da altri paesi del Sud globale.
In un momento come questo è importante capire quali sono le implicazioni della guerra in Ucraina sui paesi esportatori di gas nel Sud Globale, quali sono i costi reali dell’approccio europeo alla sicurezza energetica e quali visioni alternative di giustizia energetica si possono contrapporre.
Hamza Hamouchene, ricercatore algerino del Transnational Institute, racconta come Eni è presente in Algeria dal 1981 ed è la più importante compagnia energetica internazionale attiva nel paese. Opera sia nel settori degli idrocarburi che in quello delle fonti rinnovabili.
Nel 2020 Eni ha prodotto in Algeria 19 milioni di barili di petrolio e condensati e 1,6 miliardi di metri cubi di gas naturale. Possiede una capacità fotovoltaica di 5 megawatt, ma sta lavorando all’espansione dell’impianto fotovoltaico di Bir Rebaa North.
Nel 2020 l’Algeria è stato il secondo fornitore di gas dell’Italia, con una quota di quasi il 23 per cento sul totale importato. Il gas algerino arriva in Italia attraverso il gasdotto TransMed: la tubatura ha una capacità di 30 miliardi di metri cubi all’anno e nel 2021 è stata sfruttata per 21 miliardi. Hamza spiega come l’estrattivismo ha riaffermato il ruolo dei Paesi nordafricani come esportatori di natura e fornitori di risorse naturali, consolidando la loro integrazione subordinata nell’economia capitalistica globale.
La crisi ecologica in Nord Africa trova la sua chiara espressione nella devastazione ambientale, nell’esaurimento delle terre e nella perdita di fertilità del suolo, nella povertà idrica, nello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, nell’inquinamento e nelle malattie, oltre che negli effetti del riscaldamento globale, come la desertificazione, le ricorrenti ondate di calore, la siccità e l’innalzamento del livello del mare.
La regione del Maghreb svolge un ruolo geostrategico nel settore estrattivo, grazie alla sua vicinanza all’Europa e alla ricchezza del suo suolo. L’Algeria è il terzo fornitore di gas all’Europa, mentre il Marocco e la Tunisia sono attori molto importanti nella produzione di fosfati, che vengono utilizzati come fertilizzanti agricoli, alimentando il capitalismo agrario globale. Inoltre, Tunisia e Marocco esportano notevoli quantità di prodotti agricoli in Europa.
Questa importanza strategica si riflette nei tentativi del Nord di controllare queste risorse attraverso pressioni politiche, militari ed economiche. Ciò si vede nell’uso di accordi commerciali, come i negoziati in corso per gli accordi di libero scambio globale e approfondito con la Tunisia e il Marocco. Lo si vede anche nei tentativi delle multinazionali di avere un maggiore controllo sulle risorse naturali dell’Algeria attraverso una nuova legge sugli idrocarburi che loro stesse hanno influenzato per assicurarsi maggiori incentivi e concessioni e per aprire la porta a uno sfruttamento redditizio delle risorse di scisto e offshore. Nel caso del Sahara occidentale occupato, l’estrattivismo è un aspetto prioritario del controllo coloniale. Come in Libia, diventa chiaro che non possiamo disgiungere la spinta estrattivista dalle macchinazioni belliche globali e dalla governance militarista del mondo, dato che il Paese è vittima della violenza causata dai combustibili fossili e dai jet da combattimento e dalle bombe occidentali che ne sfruttano l’abbondanza.
Qui si pone il problema di chi ha il controllo delle risorse, sicuramente la situazione dell’Algeria è diversa da ciò che succede in Mozambico anche se alcune parole d’ordine sono le medesime, come ad esempio colonialismo ed estrattivismo.
Ilham Rawoot, attivista di Justiça Ambiental Mozambico, racconta come è nata la campagna Say No to Gas, che denuncia quelle aziende – in particolare italiane e cinesi – che hanno sede fuori dal Mozambico, ma operano all’interno di quei territori ed estraggono benefici ai danni della popolazione locale.
L’impatto di queste società estrattive nel sud del mondo sono devastanti, hanno in primis degli effetti sulle popolazioni che le subiscono senza avere nessuno strumento di negoziazione. Gli impatti dei progetti sulle persone e sull’ambiente sono iniziati prima ancora che il gas cominciasse a fluire: inquinamento, pratiche impattanti di esplorazione, accaparramento di terre, espropriazione e delocalizzazione degli abitanti (allontanati dalle case, dai campi e dalle zone di pesca), promesse di risarcimento non mantenute, programmi di reinsediamento falliti, militarizzazione e corruzione.
Non vengono citate quasi mai le drammatiche condizioni che vive la popolazione del Mozambico settentrionale – quando nel 2010 nella provincia di Cabo Delgado sono state scoperte riserve per circa 2.400 miliardi di metri cubi di gas. Da lì è cominciata la “maledizione dell’abbondanza”.
Il fatto è che proprio le gigantesche risorse di gas scoperte al largo sono probabilmente la causa principale dello scatenarsi della feroce ribellione/invasione delle milizie islamiste di Al-Shabab e dell’altrettanto feroce controffensiva dell’esercito mozambicano e del governo del Frelimo, il Partito ex marxista-leninista che governa il Paese fin dall’indipendenza dal Portogallo.
La “maledizione delle risorse” non si limita al gas: conflitti paralleli si stanno sviluppando in altri settori, come quello dei rubini di Montepuez. Conflitti che tolgono terra alle popolazioni locali, per consegnarla a multinazionali che poco contribuiscono all’incremento dell’occupazione nella regione, oltretutto violando gravemente i diritti umani più elementari e devastando l’ambiente”, afferma l’attivista mozambicana.
Ci troviamo di fronte a chiari esempi di modelli neocoloniali, in cui l’accumulazione estrattivista avviene attraverso una predazione ambientale. Da un lato, creando delle dipendenze forti delle economie ai mercati internazionali, in questa maniera spingendo le economie nazionali verso l’agrobusiness e l’esportazione di risorse naturali, siano esse cash crop oppure combustibili fossili.
Questo causa una mercificazione della natura e privatizzazione delle risorse naturali, creando meccanismi neocoloniali di dipendenza e di degradazione ambientale e socio-economica.
Per aggiungere danno alla beffa, da questi attori viene poi utilizzato il concetto di sovranità nazionale per giustificare accordi clientelari o accordi capestro, alimentando un senso di colpa post-coloniale in maniera totalmente strumentale agli interessi capitalistici degli attori in gioco. La realtà è che vengono erose tutte le possibilità di sovranità alimentare, di costruzione di processi democratici dal basso e di funzionamento sano delle istituzioni locali.