Spesso in questi mesi si è parlato della “Russia di Putin”, talvolta in modo superficiale e dando molte cose per scontate. In questa intervista di Tommaso Baldo a Giorgio Comai, ricercatore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa ed esperto di questioni post-sovietiche, vengono sviscerate alcune tematiche cruciali sul piano politico ed economico, per comprendere al meglio i risvolti interni ed esterni del “regime putiniano”.
Il regime di Vladimir Putin ormai dura da più di 20 anni ma sembra che solo negli ultimi mesi ci sia accorti, almeno a livello mainstream italiano, della sua natura oppressiva, spiegandola unicamente come “follia”. Ma da dove nasce questo regime? Come ha potuto instaurarsi e tenere in pugno la Russia per così tanto tempo?
Fin dal suo arrivo al potere, il governo di Vladimir Putin ha trovato legittimazione nel superamento degli anni Novanta, che in Russia sono ricordati più per l’immiserimento economico che non per il pluralismo politico. La stabilità e il relativo benessere degli anni 2000, resi possibili in ampia parte grazie al considerevole aumento del prezzo del petrolio in quegli anni, continuano ad essere la base della legittimità di Putin in Russia.
Al di là di specifici contesti – in particolare, il Caucaso del nord – il regime politico di inizio anni 2000 era ibrido, non repressivo né pienamente autoritario. Fin dalla sua prima presidenza nel 2000, i principali media vengono assorbiti da holding fedeli al Cremlino, ma è solo dal 2004 che – con il pretesto dell’attentato alla scuola di Beslan – vengono introdotte una serie di misure mirate a rafforzare anche formalmente la “verticale del potere”, tra cui ad esempio l’abolizione delle elezioni per i vertici regionali (ho scritto delle “riforme post-Beslan” in questo pezzo di una decina d’anni fa).
In quegli anni continuava però ad esservi spazio per visioni alternative e anche per opposizione netta a Putin, come emerse poi dal ciclo di proteste del 2011-2012, in cui erano ben visibili diverse anime politiche in Russia, con la partecipazione a manifestazioni da parte di persone di tutte le fasce d’età. Tra le nuove generazioni, oltre alla parte più liberale che aveva slogan di movimenti anti-corruzione (tra cui spiccava già allora Navalny), emergevano anche gruppi ben organizzati che esplicitamente si definivano come gruppi di sinistra e chiedevano giustizia sociale (il volto più noto era Sergei Udaltsov, poi incarcerato); non mancavano le bandiere di gruppi anarchici.
È con il ritorno alla presidenza di Putin nel 2012 e la dura repressione di quel movimento di protesta che effettivamente si chiude non solo la parentesi di Dmitri Medvedev al Cremlino e il timido riformismo liberale che rappresentava, ma più in generale spazi in cui immaginare una “Russia senza Putin”, uno dei motti di quelle proteste. Da allora, l’autoritarismo è diventato più esplicito, con carcere per oppositori più o meno noti, ed è emerso sempre più forte un nazionalismo reazionario caratterizzato da retorica anti-occidentale, conservatorismo sociale, e omofobia, che diventa politica di stato (legislazione in questo senso sono introdotte nel 2013) come simbolo di un’opposizione ideologica a un’Europa depravata, e un chiaro messaggio per tutti: non c’è spazio per visioni alternative, non c’è alternativa a Putin.
Il consenso per Putin rimane comunque nel complesso forte anche negli anni successivi, ma – ad eccezione del periodo immediatamente successivo l’annessione della Crimea – si tratta di un consenso privo di entusiasmo. La stagnazione economica dell’ultimo decennio ha portato a identificare nella stabilità il principale risultato del governo di Putin negli anni 2010, senza grandi speranze di miglioramento.
Con l’invasione dell’Ucraina, la trasformazione della Russia in un sistema pienamente autoritario si è completata, chiudendo ogni spazio per una potenziale opposizione strutturata. L’invasione dell’Ucraina e le sanzioni che ne sono conseguite sono destinate a mettere in dubbio le fondamenta originarie della legittimità putiniana – appunto, stabilità e progressivo aumento del benessere. Ma ormai è già tardi: la transizione verso l’autoritarismo in Russia è ora compiuta.
Queste in breve le dinamiche principali per quanto riguarda la sfera pubblica. Non meno importante per il consolidamento dell’autoritarismo russo sono stati i cambiamenti interni alle élite.
In ogni caso, né società in senso ampio, né élite (se così le possiamo chiamare) politiche ed economiche del paese hanno avuto alcuna voce in capitolo rispetto alla decisione di invadere l’Ucraina.
Il controllo da parte del regime di Putin di alcuni aspetti centrali dell’economia russa ha consentito a tutta una serie di soggetti di vederlo come una controparte rispetto al liberismo occidentale. I settori complottisti di estrema destra “stile Qanon” ritengono Putin una sorta di cavaliere la lotta contro il “Nuovo ordine mondiale”, mentre per una certa “sinistra rossobruna” egli è il leader di una “borghesia nazionale” contrapposta all’imperialismo americano e quindi un alleato. Ma come funziona davvero l’intreccio tra potere politico e potere economico in Russia? e questo che riflessi ha sulle condizioni di vita delle classi popolari e sul tema della giustizia climatica?
Vi è chi insiste su come Putin abbia contrastato i cosiddetti “oligarchi” fin dal suo arrivo alla presidenza. Lo ha fatto però in modo molto parziale. Queste figure sono in effetti diventate sempre meno influenti dal punto di vista politico, e anche per questo è ormai del tutto inappropriato il termine “oligarchi” nato negli anni Novanta: gli “oligarchi” russi contano molto meno dei grossi gruppi economici nelle democrazie occidentali.
Ma Putin non ha fatto niente per ribaltare le scandalose privatizzazioni degli anni Novanta, né per limitare ulteriori appropriazioni di smisurate risorse pubbliche e private da parte di questi “uomini d’affari” (uomini quasi senza eccezioni). Al contrario: fedeltà politica e vicinanza personale a Vladimir Putin sono diventati elementi cruciali non solo per procurarsi grossi appalti, ma anche per ottenere sostanziale immunità da persecuzioni anche per le forme più ostentate di corruzione. Gli appalti più grossi (lavori per le olimpiadi di Sochi o costruzione del ponte per la Crimea, ad esempio) e i settori estrattivi più fruttuosi sono in buona parte in mano a chi ha saputo dimostrare fedeltà diretta al Cremlino, ma questo sistema si riproduce ad ogni livello del sistema di potere russo: il numero dei miliardari è di gran lunga aumentato negli anni di Putin, non certo diminuito rispetto agli Novanta. Il numero di milionari che si sono arricchiti grazie a corruzione e clientelismo in ogni parte della Russia è sicuramente aumentato significativamente, anche se è strutturalmente difficile avere dati precisi.
Il significato di “lotta agli oligarchi” deve essere quindi ridimensionato: Putin non ha affatto contrastato, ma anzi consolidato un sistema che garantisce ricchezza smisurata a un gruppo di persone relativamente ristretto.
In questo senso non è del tutto inappropriato il riferimento al concetto di “cleptocrazia”, in quanto l’appropriazione e ridistribuzione di risorse a persone fedeli è elemento centrale del sistema di governo di Putin. L’arricchimento personale di persone vicini ai vertici non è solo un obiettivo egoistico, ma è davvero parte ormai strutturale di come si esprime e si riafferma il sostegno all’attuale sistema di potere. È una dinamica sistemica del putinismo, non una deviazione: clientelismo, favoritismi negli appalti e corruzione ad alto livello non solo non sono contrastati, non solo sono tollerati, ma sono piuttosto attivamente riprodotti dal sistema ad ogni livello.
I cittadini russi vivono quotidianamente le conseguenze di questo sistema disfunzionale in prima persona. Ma per fare esempi noti anche al pubblico internazionale, basti pensare al pasticcio fatto con la produzione e commercializzazione del vaccino anti-covid Sputnik, o i disastri logistici che hanno segnato da parte russa in particolare le prime settimane dell’invasione dell’Ucraina.
Tutto questo ha un grande impatto negativo sulla vita della popolazione, che ormai da anni non vede miglioramenti nella propria situazione economica. Nel medio periodo, le sanzioni contribuiranno a peggiorare ulteriormente e significativamente la situazione per le parti meno privilegiate della società.
Che lo si guardi da destra o da sinistra, c’è ben poco da ammirare nel sistema di governo che Vladimir Putin ha attentamente creato in oltre due decenni al potere. È curioso identificare in un sistema di potere basato su clientelismo e corruzione come quello russo un qualche baluardo contro il liberismo occidentale: nella Russia di Putin l’accentramento dei profitti nelle mani di pochi è molto pronunciato; lo spazio per lotte sociali o per rivendicazioni nel mondo del lavoro – per non parlare di giustizia climatica – è estremamente ridotto.
I discorsi di Putin mescolano spesso nazionalismo grande-russo, zarismo, rimembranze della “grande guerra patriottica”, religiosità ortodossa, ma quali si possono definire come punti-cardine della sua ideologia? E quanto è pesata nella decisione di invadere l’Ucraina?
Nei suoi primi anni di governo, Putin non aveva espresso un’ideologia strutturata. Con il tempo, sono emersi alcuni tratti più caratteristici.
Ad esempio, il ruolo dello stato e l’idea che non c’è vera sovranità senza uno stato forte; la convinzione che la debolezza statuale sia estremamente pericolosa. In parte in questa logica – che secondo alcuni sarebbe un lascito dell’impotenza sentita nel 1989 quando a Dresda Putin era testimone della fine della DDR e più avanti con il crollo dell’Unione sovietica – rientra ad esempio anche il suo sostegno ad Assad in Siria. L’annessione della Crimea da parte della Russia, resa possibile dalla debolezza statuale dell’Ucraina, ne conferma gli assunti, ma allo stesso tempo testimonia come l’insistenza sulla sovranità sia strumentale, non un principio da difendere a livello internazionale.
Inizialmente, l’insistenza sulla non-ingerenza, accompagnata da una dose di benaltrismo, era utile per rimandare al mittente critiche sulla repressione in Cecenia e sul crescente autoritarismo in Russia. Si trattava inoltre di una retorica che risuonava in tanti altri paesi, dalla Turchia alla Cina, che mal sopportavano le critiche sui diritti umani da parte occidentale. La critica all’unilateralismo e interventismo statunitense accompagnata da un’insistenza sulla sovranità nazionale e non ingerenza erano in buona parte alla base della posizione della Russia negli anni 2000, come espressi nel noto discorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007.
Questa posizione trovava simpatizzanti in tutti i continenti, e certo anche tra il pubblico di alcuni paesi occidentali, che – trascurando la parte revanscista – vi identificano del potenziale per contrastare un’egemonia americana internazionalmente molto criticata, in quegli anni a maggior ragione in relazione all’invasione dell’Iraq. Una Russia guidata da un leader più attento e lungimirante avrebbe forse potuto costruire nuove alleanze internazionali su queste basi, e rafforzare la propria posizione attraverso istituzioni multilaterali. Le cose sono però andate diversamente negli anni successivi. Mentre a parole insisteva sul multilateralismo, la Russia di Putin, reticente ai compromessi e incapace di trovare alleati al di fuori di una cerchia ristretta di paesi ex-sovietici, ha di fatto ulteriormente ridotto lo spazio perché consessi internazionali multilaterali potessero rafforzarsi. Che si tratti di questioni relative ai paesi dell’ex-URSS, di Siria, o Iran, la costante necessità di creare formati negoziali ad hoc difficilmente può contribuire a un rafforzamento strutturale del ruolo della Russia a livello internazionale, o del multilateralismo come framework per la risoluzione di dispute internazionali.
Sul piano internazionale, non c’è quindi un’ideologia, e neppure un principio coerente (come avrebbe potuto essere quello della non-ingerenza) alla base della politica internazionale espressa da Putin. L’impudenza di Putin può dare soddisfazione a chi guarda con fastidio all’unitalateralismo statunitense o a un presunto ordine liberale occidentale, ma nei fatti Putin si è rivelato essere inutilmente divisivo anche da questo punto di vista, di fatto ostacolando la formazione di reti multilaterali che potessero fungere da contrappeso a quell’egemonia occidentale tanto odiata.
Dal punto di vista economico e politico, la Russia di Putin non ha sviluppato ideologie alternative che possano renderla un punto di riferimento a livello internazionale. Il desiderio di ridurre dipendenza dall’esterno appariva già nei discorsi di Putin dei tardi anni 2000, ma non c’è davvero motivo di credere che la Russia più autarchica che si potrebbe andare a creare anche in seguito alle sanzioni nei prossimi anni possa essere un modello invidiato ed emulato a livello internazionale.
Resta quindi l’insistenza sui presunti “valori tradizionali” e una particolare versione di nazionalismo russo.
L’omofobia in particolare è assurta a un ruolo centrale nel differenziare la Russia dall’Occidente e dall’Unione europea in particolare: a partire dal rientro di Putin alla presidenza nel 2012, l’insistenza su questo aspetto è stata centrale negli sforzi di comunicazioni mirati a deragliare gli Accordi di Associazione tra UE e paesi come Georgia, Moldavia e Ucraina, al punto che all’epoca l’UE stessa aveva sentito il bisogno di prendere chiara posizione sul tema in materiali di comunicazione ufficiali, insistendo su come aderire agli Accordi di Associazione non avrebbe minacciato i “valori tradizionali”, non avrebbe portato l’introduzione di matrimonio gay, e non avrebbe messo in dubbio l’autorità della chiesa ortodossa.
L’insistenza da parte russa sui valori tradizionali risuona e aiuta a trovare o mantenere simpatizzanti sia nel “vicino estero” russo, sia in ambienti politici occidentali, sia in altri continenti, come è emerso ad esempio in occasione di qualche voto alle Nazioni unite in cui si intravede una posizione comune con vari paesi del sud del mondo. Questa retorica non è comunque sufficiente a definire un’ideologia o visione del mondo effettivamente alternativa.
Se a livello internazionale la Russia ha effettivamente poco di convincente da offrire sul piano ideologico, internamente l’insistenza sul ruolo storico della Russia e sull’unità ed eccezionalità del popolo russo, sono elementi sempre più evidenti del putinismo avanzato.
Non si tratta di un nazionalismo etnico in senso stretto: l’identità imperiale della Russia al contrario definisce la Russia come nazione che è grande anche perché unisce popoli e garantisce stabilità alle innumerevoli nazionalità rappresentate all’interno della Russia, finché queste riconoscono la loro appartenenza e fedeltà a Mosca. I confini di questa identità non coincidono però effettivamente con quelli della Federazione russa. Secondo Putin, infatti, l’Ucraina è inestricabilmente parte di questa identità, ne è parte fondante, anche in prospettiva storica. Finché gli ucraini sono consci di essere parte di una grande nazione slava che li unisce a russi e bielorussi, e parte di un destino comune con Mosca, l’identità ucraina non è problematica (come ha detto lo stesso Putin, “if you are talking about a single large nation, a triune nation, then what difference does it make who people consider themselves to be – Russians, Ukrainians, or Belarusians. I completely agree with this.”).
Al contrario, un’identità ucraina separata dalla Russia diventa minaccia esistenziale per la Russia stessa, una vera e propria “arma di distruzione di massa” per la Russia (usa questa espressione Putin nello stesso intervento citato poca sopra).
È quindi questa la motivazione principale dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: lo sviluppo di un’identità ucraina separata poneva una minaccia esistenziale e urgente, che richiedeva intervento immediato. Unione europea e Nato sono quindi problematici in primo luogo come presunti istigatori di questa spaccatura nel popolo russo, come gli elementi più riconoscibili che contribuiscono a ridefinire un’identità ucraina separata da quella russa, in ampia parte contrapposta ad essa.
È possibile contestualizzare l’invasione dell’Ucraina da diverse prospettive. Ad esempio, può essere considerata anche una guerra di fine impero (con tutte le differenze del caso, penso ad esempio alla Guerra d’Algeria della Francia). Ma l’unica dimensione davvero imprescindibile è quella identitaria: Vladimir Putin non poteva consentire che proprio sotto il suo “regno” si spezzasse l’unità della Russia. Per questo ha deciso di invadere, ed ha rafforzato il sistema autoritario anche per assicurarsi che nessuno potesse fermarlo dall’implementare questa sua decisione, convinto così di svolgere il ruolo storico a cui era destinato.
È ormai evidente quanto l’invasione sia stata estremamente controproducente da molti punti di vista, sicuramente anche per quanto riguarda questa dimensione identitaria.
Oggi è possibile valutare quanto sia diffuso il sostegno a Putin e alla sua guerra nella società russa?
Sondaggi che esprimono sostegno alla guerra in Russia sono poco indicativi, sia perché la guerra non è descritta come tale nei media russi, sia perché esprimere opposizione è reato punibile con il carcere, sia perché Putin è ora presentato come incarnazione dello stato: l’opposizione a Putin diventa quindi per definizione anti-patriottica e socialmente inaccettabile.
Anche quando il sostegno è presente, tipicamente questo è più passivo che entusiastico. È utile qui fare riferimento al concetto di “defensive consolidation” proposto da Jeremy Morris (si veda questo breve scambio, questo dibattito più esteso, e più in generale il blog di Jeremy Morris, molto attento a questi aspetti, così come alla prospettiva di “persone comuni” e lavoratori anche ben al di là delle grandi città russe): anche quando il sostegno esiste, questo ha una funzione principalmente difensiva per l’individuo, che sostenendo passivamente la guerra può continuare a vivere la propria vita di sempre, tra le mille difficoltà economiche e sociali in cui si trova buona parte della popolazione della Federazione russa.
L’indicatore più evidente che non vi è né vi poteva essere sostegno diffuso per un’invasione su ampia scala dell’Ucraina viene comunque proprio dalle autorità russe: piuttosto che usare mezzi di propaganda per creare sostegno per un’invasione totale, si è preferito insistere che si trattasse di un’“operazione militare speciale” di portata limitata e addirittura vietare l’impiego del termine guerra per parlare dell’invasione. Piuttosto che glorificare la distruzione del nemico, si è preferito nascondere o imputare ad altri la distruzione di città ucraine e le morti di civili.
Si tratta di logiche internamente contrastanti e incoerenti promosse che suscitano certo dissonanza cognitiva nel pubblico russo, che comunque si sente più spettatore che non protagonista di queste scelte. Sentendo che quella dell’invasione è una decisione che non può in alcun modo influenzare, il cittadino russo la accetta in quanto tale, magari anche “tifando” ad alta voce per la propria parte, senza sentirsene per questo responsabile. Per molti russi peraltro questa è una guerra lontana, anche geograficamente, con un impatto per ora limitato o assente sulla loro vita quotidiana. Tutto questo è certo problematico, e capisco che l’apparente mancanza di empatia da parte della popolazione russa susciti rabbia e incomprensione in Ucraina e altrove, ma si tratta di elementi di cui tenere conto quando si ragiona sull’effettivo sostegno della popolazione russa all’invasione russa dell’Ucraina.