La trascrizione della conversazione tenutasi nella sede di Radio Sherwood a Padova con Into the Black Box, progetto di ricerca collettivo e trans-disciplinare che adotta la logistica quale prospettiva privilegiata per indagare le attuali mutazioni politiche, economiche e sociali.
Davide Lorenzon, introduzione:
A partire da alcune riflessioni collettivamente svolte sui tempi in cui viviamo nasce la necessità di costruire uno sguardo lungo e largo nel tempo e nello spazio, che non sia quindi legato al contingente. Viviamo in un’epoca di infodemia, siamo circondati di informazioni ma non riusciamo a ritagliare del tempo per formarci specificatamente sulle caratteristiche del mondo in cui viviamo.
Nel capitalismo contemporaneo è fondamentale la logistica, come in realtà lo è sempre stata; ciò che è cambiato è la sua capacità di affrontare globalmente tutti gli aspetti della produzione. Sono state infatti le infrastrutture logistiche globali a rendere possibile l’integrazione mondiale del commercio tra approvvigionamento di materie prime, produzione, assemblaggio e vendita, quella che è chiamata la catena del valore globale. La globalizzazione è stata un po’ il sogno della pacificazione del Capitalismo dopo la caduta del muro di Berlino; chi ha vissuto gli anni 90 ricorda quest’euforia economica ma anche sociale davanti ai cambiamenti che avvenivano, tant’è che filosofi come Fukuyama parlavano di fine della storia per la sopravvenuta capacità di questo capitalismo eterno, che però dopo 30 anni mostra importanti scricchiolii.
A rendere possibile la globalizzazione sono stati fondamentali gli accordi di Breton Woods, che hanno sganciato il dollaro dall’oro permettendo alle banche centrali di stampare moneta, e i trattati di libero commercio che permetto lo spostamento di merci e capitali liberamente. Un altro concetto importante nella costruzione ideologica e infrastrutturale della globalizzazione è il concetto di just in time, la tendenza a non avere merci in magazzino ma a produrle immediatamente in risposta alla domanda. Ciò è stato possibile grazie ad evoluzioni tecniche come la nascita e la standardizzazione del container e la rivoluzione digitale.
Il capitalismo è un sistema che ha le sue basi ontologiche sulla crescita infinita in un mondo però finito, tende a generare crisi e a creare nuovi campi di valorizzazione attraverso queste crisi. Questo è stato evidente durante il periodo della pandemia che è stata sicuramente determinata dallo sviluppo urbano incontrollato, conseguenza della necessità di produzione e spostamento di persone e merci, e dallo sfruttamento eccessivo di vite animali. La pandemia però oltre ad essere generata da dinamiche interne al capitalismo, è stata anche colei che ha determinato ulteriori crisi della circolazione. Il lockdown di città intere mette in crisi il concetto di Just in time; si palesa in queste situazioni la contraddizione tra la bios (la vita e la necessità di tutelarla) e la necessità di estrarre valore. Le quarantene rendono difficile garantire la continuità delle filiere, ricordiamo come in maniera abbastanza truffaldina e meschina molte aziende cambiavano durante la pandemia i codici ATECO per continuare a produrre.
La fragilità di questo sistema si è palesata con ulteriore evidenza quando due anni fa la nave Evergreen si è messa di traverso nel canale di Suez. Gli analisti disperati dall’emergere della pandemia e difronte al blocco di una delle fondamentali vie di commercio globali si sono messi le mani nei capelli dato che questo semplice impedimento generava 20 milioni di dollari di perdite e la caduta della borsa per una settimana. L’Evergreen resta il simbolo della continua crescita infinita del capitalismo che non tiene conto dei limiti esterni.
Durante la pandemia abbiamo imparato anche l’utilità e la necessità di strumenti digitali che ormai ci accompagnano quotidianamente e in molti campi della nostra vita. Gli strumenti delle piattaforme digitali e della consegna delle merci nell’ultimo miglio. La nascita delle piattaforme è stata un salto in avanti nella capacità di estrarre valore e nella produzione e riproduzione sociale come è stata però anche un avanzamento nella mistificazione neoliberale dell’imprenditore di sé stesso: “tu hai una bici e consegnando le pizze puoi diventare forse ricco”. Quello che ci interessa in questo campo così come in quello della logistica è capire quali lotte, quali conflitti e quali possibilità di organizzazione si generano all’interno di questi settori, come questi settori cambiano il modo di vivere e come producono soggettività all’interno delle città.
Riprendendo il discorso sullo scenario internazionale: uno dei presupposti della globalizzazione è lo sganciamento del dollaro dall’oro, la possibilità di stampare moneta della Federal Reserve e il fatto che negli anni 70 per cercare di ovviare alla crisi interna agli USA l’élite capitalistica si sia rivolta alla Cina per farla diventare la fabbrica del mondo. Perché ricostruiamo la genesi di questi rapporti fin dagli anni 70? Perché ci spiegano il motivo degli attriti e delle guerre commerciali contro la Cina, la quale sta cercando di risalire le catene del valore globale, di appropriarsi di know how che gli USA fino ad ora hanno tenuto per detenere un potere politico e commerciale su di essa. Questo genera delle tensioni perché gli USA agiscono il loro potere politico per evitare che la Cina si impadronisca di tecnologie attraverso le sanzioni. La Cina allo stesso tempo costruisce nuove vie di commercio come la nuova via della seta e costruisce un’alleanza, non per destino ma per comunanza di interessi, con la Russia.
Niccolò Cuppini:
Due punti dell’introduzione sono a mio avviso decisivi, li riprenderò e concluderò con due cose sul piano politico, sulla militanza e sull’intervento dei prossimi tempi.
Prima parola chiave: globalizzazione, molti intellettuali sui giornali stanno dicendo che la globalizzazione è finita, che c’è il ritorno agli stati nazione. C’è sì un pezzo di verità in questo, ma al contempo bisogna stare attenti a cosa si intende per globalizzazione. Ci sono state due globalizzazioni nella storia. La prima a fine 800 inizio 900 è quella costruita dal telegrafo, dalle ferrovie e dalle grandi fabbriche, si dice globalizzazione perché tra il 1870 e i 40 anni successivi c’è stato un aumento dello scambio di merci a livello globale e un movimento di migliaia di proletari che si spostarono in tutto il mondo. Questa prima globalizzazione si scagliò sulla Prima guerra mondiale. Per i decenni successivi, fino agli anni 80’ non si raggiunsero più quei livelli di scambio.
La seconda globalizzazione, dalla fine degli anni 70’. Ha origine in buona parte perché in Cina, nel Regno Unito e negli Usa tra il 1979 e 1981 vanno al potere tre figure: Deng Xiaoping, Margaret Thatcher, Donald Regan che imprimono la così detta svolta neoliberale. È così che si apre la seconda globalizzazione, che conduce a un nuovo aumento dello scambio globale di merci grazie anche alla presenza di nuove tecnologie, la costruzione della rete e le grandi infrastrutture globali come le navi porta container e gli aeri.
Con la caduta del muro di Berlino negli anni 90 la globalizzazione fa un ulteriore impennata che però la conduce a un punto di grande crisi tra il 2000 e il 2001. Una crisi soggettiva, espressa dai movimenti sociali con le mobilitazioni no global o alter-globaliste provenienti da potentissimo ciclo di lotte che nacque a Seattle e attraversò l’Europa. Una crisi però legata anche alla crisi delle Dot-com, le piattaforme digitali che si iniziarono a costruire in Silicon Valley negli anni 90, e all’11 settembre. Possiamo riassumere quindi in tre livelli: crisi soggettiva, crisi tecno finanziaria, crisi geopolitica ciò che intaccò la globalizzazione all’inizio degli anni 2000.
La storia trascorsa tra il 2001 e oggi probabilmente va ancora indagata a pieno. Ha visto emergere i populismi, una crisi finanziaria violentissima nata nel 2008 negli Stati Uniti per poi riversarsi in Europa e un altro elemento costitutivo del nostro presente quali le migrazioni, da intendere ovviamente con un punto di vista politico come desiderio di milioni di persone di spostarsi per conquistare condizioni di vita migliori. Siamo quindi in un momento di grossa instabilità e grossa transizione, in cui è giusto chiedersi se ha ancora senso di parlare di crisi. Se si parla continuamente di cisi ecologica, crisi finanziaria, crisi economica, crisi bellica, crisi pandemica, crisi sociale. È davvero “crisi” la parola giusta? Per me no. Arrivo quindi al secondo punto
Se la prima Globalizzazione è frutto della spinta della rivoluzione industriale, con l’affermarsi del sistema mondo capitalista e della fabbrica di cui Marx ha parlato a lungo. Oggi si parla sempre di più di una nuova rivoluzione industriale 4.0, che consiste in: internet of things, automazione, robotizzazione, iper-connessione. A fare da contorno c’è l’immaginario dei nuovi grandi ricchi, come Elon Musk e Jeff Bezos, che dicono: “andiamo a costruire l’industria sulla luna, colonizzare Marte”, oppure come Marc Zukemberg che pianifica di conquistare un nuovo spazio, questa volta non interstellare ma il Metaverso, la realtà aumentata.
Stiamo vivendo in uno scenario in cui sta cambiando tutto, in cui tutta la tecnologia viene applicata alla produzione, alla distribuzione e al consumo. Dentro questo scenario sorgono delle domande politiche. Viviamo in una costellazione di crisi dentro uno scenario di altissima trasformazione in cui individuare dei punti di attacco e di antagonismo, degli elementi di soggettivazione nuova e delle istanze di rivolta non è facile, c’è sicuramente tanto da immaginare e da costruire. Ciò di cui però dobbiamo tenere conto è il fatto che viviamo in un momento di rivoluzione industriale in cui si trasforma lo scenario di azione. È importante riguardare alla storia perché c’è delle volte il rischio di pensarsi sempre allo stesso punto, pensare che infondo fare politica negli anni 70, negli anni 90 o negli anni 20 del nuovo millennio più o meno porti ad interfacciarsi con gli stessi problemi. Da un lato questo è vero e delle invarianze ci sono però poi cambia tutto essere in un momento in cui c’è una rivoluzione industriale in corso. È diverso vivere in un mondo in cui la fabbrica inizia ad affermarsi da quando essa cambia completamente. È diverso vivere negli anni 90 in cui c’era l’idea del primo internet e delle grandi multinazionali che si affermavano, da oggi che siamo nel 2022 all’interno di un paradigma radicalissimo. È interessante oggi provare a mettere a discussione e a verifica alcuni paradigmi e modi di pensare ai quali eravamo abituati. Uno di questi è uno slogan del movimento no global di ormai più di 20 anni fa, che diceva “agire locale, pensare globale”. Oggi cosa vuol dire locale e cosa vuol dire globale? Probabilmente questa dicotomia locale-globale non funziona più. Secondo me oggi pensare le territorialità, e che cosa sono oggi i territori, separatamente dalla dimensione del globale non ci permette di capire come i territori siano oggi lo specchio del globale e il globale lo specchio dei territori.
Ne è un esempio la guerra in Ucraina: se la pensiamo come un’istanza locale in cui dal globale arrivano “i cattivi” che fanno le cose lì non funziona. Ma se la pensiamo semplicemente al rovescio non funziona neanche quello. In qualche modo pensare politiche, strategie, rivolte del nostro tempo credo ci ponga di fronte a come misurarci con queste grandi trasformazioni della Rivoluzione industriale, del “globale”, che non è quello degli anni ’00, quello degli anni ’90, ’80 o dell’Ottocento. Ripensare a queste grandi coordinate, alla politica e al “politico” all’altezza di uno scenario nuovo che si apre in cui dare battaglia “dentro e contro” nei processi che sono a loro modo nuovi ed aprono possibilità nuove è secondo me qualcosa di cruciale e strategico.
Con Into the Black Box, che è un percorso di ricerca politica che da alcuni anni stiamo portando avanti, nell’ultimo anno abbiamo ragionato molto su Amazon, un impero globale che si scontra con altri imperi globali del commercio, sfida i territori, i poteri consolidati e spesso tra i compagni e le compagne c’è una tendenza quasi moralista di critica. Ovviamente nessuno qua sta dicendo «viva Amazon!», però nelle inchieste che stiamo portando avanti – proprio in queste ultime settimane abbiamo fatto interviste a lavoratori e lavoratrici di Amazon, in particolare a Bologna – soprattutto persone molto giovani ci dicono «è vero che Amazon ti dà un’intensità di lavoro che ti spacca la schiena, però è meglio che da tante altre parti, perché ti pagano meglio, ti fanno lavorare meno ore etc.».
Secondo me il punto di provare a riformulare una critica sul presente, che abbandoni un’istanza moralista e che in qualche modo guardi indietro, deve partire dal fatto che c’è una rivoluzione industriale in corso, c’è un terreno del globale e del locale che si sta rimodulando in maniera velocissima. Cerchiamo quindi di trovare delle traiettorie e delle prospettive per riformulare una critica e una prassi politica che sia in grado di riformulare un presente guardando le potenzialità e non solo i limiti e le crisi.
Maurilio Pirone:
Nicolò ha fatto un affresco rapido di un processo, quello della globalizzazione, che è molto attuale in questo momento. E ha terminato il suo discorso su Amazon, come attore globale che costruisce una sua visione di mondo, materiale e simbolica.
A partire dagli elementi illustrati da Niccolò, ne aggiungo un altro: quello del digitale, della cosiddetta “rivoluzione 4.0”, il capitalismo delle piattaforme e via dicendo. Qual è il legame con quello che diceva Nicolò adesso?
Primo: c’è la tendenza a pensare a queste tecnologie semplicemente in termini tecnici – “una soluzione è migliore di un’altra” – occultando quelli che sono i rapporti di potere che vengono condensati all’interno di alcuni strumenti. Le piattaforme non sono semplicemente una forma d’impresa che utilizza management algoritmico e GPS per far funzionare il processo produttivo o il controllo di una persona in carne ed ossa, il conteggio dei tempi di produzione etc. Sono un modo diverso di riorganizzare i rapporti di produzione all’interno del capitalismo, soprattutto all’interno dei processi di lungo corso che sono quelli descritti da Nicolò, cioè i processi di trasformazione e riorganizzazione degli assetti produttivi complessivi.
Non a caso, se parliamo di digitale in termini molto stretti, parliamo soprattutto di qualcosa che si è evoluto negli ultimi 50-60 anni e che nasce parzialmente attorno al world wide web, a internet e che si sviluppa per due motivi essenziali. Il primo sono i motivi militari, quando i primi esperimenti sulla costruzione di una rete digitale sono nati attorno a uno scenario ipotetico di conflitto nucleare, con l’obiettivo di far dialogare tra loro diversi centri di comando in caso di attacco e quindi nell’impossibilità di avere un unico centro direzionale.
Dall’altra parte, allo stesso tempo, c’era un altro processo, quello di espansione della nuova ondata di globalizzazione, che si stava definendo attorno alla cosiddetta “rivoluzione logistica”, cioè al fatto che la circolazione delle merci non era più solamente un elemento finale rispetto alla produzione (costruisco un auto e dopo devo trovare il modo di spedirla), ma arriva prima: organizzo delle reti globali del valore per cui, ad esempio, la portiera la faccio in Polonia, il vetro in Repubblica Ceca, l’altra parte dell’auto la faccio in Italia, assemblo i pezzi e li vendo in un altro mercato ancora. Come si fa a coordinare questa catena logistica diffusa? Con i dati, con le informazioni e questo ha spinto sempre di più alla crescita di infrastrutture digitali, di tecnologie della comunicazione e dell’informazione.
C’è quindi un processo di lungo corso che ha portato allo sviluppo delle tecnologie digitali, all’accumulazione e gestione dei dati, ma non è un processo semplicemente tecnico e neutrale. È stato un processo politico, di economia politica, per rientrare nelle grandi trasformazioni del mercato globale che hanno incluso la creazione di catene logistiche del valore, all’interno delle quali per alcuni anni gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo egemone, specie a partire dalla caduta del Muro (di Berlino ndr).
Naturalmente ci sono temporalità diverse; a volte le temporalità politiche non si sovrappongono totalmente alle temporalità produttive ed economiche. E ovviamente queste trasformazioni produttive hanno avuto diversi step: c’è stato il cosiddetto toyotismo, la bolla delle dot-com degli anni 2000 e altre trasformazioni che hanno portato ad abbandonare il modello fordista incentrato sulla fabbrica, sui tempi di lavoro distinti dai tempi di vita, sull’operaio come figura cardine del lavoro subordinato e che hanno aperto a una moltiplicazione delle forme e degli spazi di lavoro, ma anche a una maggior commistione tra la scala globale e quella locale.
Che succede negli ultimi anni? Ci sono due elementi determinanti: la crisi del 2007-08 e la pandemia. Dopo il 2007-08 si iniziò a parlare del capitalismo delle piattaforme. Conosciamo quel biennio e la crisi che dal piano finanziario si riversa nell’economia reale e che colpisce soprattutto i paesi occidentali. Come in tutte le crisi, il capitale ha cercato di riorganizzare i principi produttivi per far ripartire i processi di accumulazione e i suoi mezzi tecnici.
Così vengono fuori queste piattaforme, ossia aziende che utilizzano strumenti digitali per organizzare il processo produttivo, a cui affianca l’accumulazione di dati. Quest’ultima non serve a gestire il lavoro, ma anche direttamente a fare soldi, perché i dati accumulati con qualsiasi interazione – noi dobbiamo pensare che ogni volta che usiamo internet lasciamo impronte ovunque, è come muoversi con le dita sporche – vengono utilizzati per vari motivi, da operazioni di marketing a profilazioni di carattere psico-sociale che evidenziano gli orientamenti dell’opinione pubblica. Abbiamo visto ad esempio nel caso delle aree rurali statunitensi durante l’elezione di Trump quanto sia stato importante l’uso dei dati; ma lo abbiamo visto, in un’ottica diversa, anche durante le Primavere Arabe, dove invece quelle piattaforme che erano state utilizzate in maniera molto conservatrice sul piano politico sono invece diventate aggregatori di una domanda rivoluzionaria sociale.
Quindi, attorno al 2007-08 il digitale diventa sempre di più lo strumento di trasformazione delle forme produttive. Escono nuove tipologie di aziende: se noi prendiamo, ad esempio, le prime 10 aziende degli anni ’90 troviamo in particolare case automobilistiche e produttori di petrolio; se prendiamo le prime 10 aziende contemporanee troviamo ancora parzialmente aziende energetiche, ma troviamo soprattutto aziende big-tech (Amazon, Google, Facebook, Apple, Microsoft, etc).
C’è stata quindi un’industrializzazione dell’internet; quello che all’inizio era uno spazio d’immaginario “pirata”, legato all’idea di costruire dei mondi liberati dal controllo dello Stato, è diventato sempre di più un territorio colonizzato dal capitale e dalle grandi aziende.
Secondo passaggio: pandemia. Che cosa succede? Crisi della mobilità, non ci si può spostare e c’è una difficoltà anche nel rifornirsi di merci. Qual è la soluzione? Digitalizzazione: non lavori più in ufficio, utilizzi Zoom; non puoi cucinare, ordini, e via dicendo. In questi anni abbiamo visto una grande crescita di queste piattaforme, e probabilmente vedremo tra poco una leggera contrazione, ma cos’è successo? Queste piattaforme sono diventate ormai infrastrutturali, sono cioè strumenti essenziali nella gestione di tutti gli aspetti della nostra vita. Pensiamo alla nostra “giornata tipo”: ci alziamo e probabilmente ci informiamo guardando Instagram o Facebook, o comunque sul web; se ci dobbiamo spostare utilizziamo Google Maps; se dobbiamo visitare un’altra città probabilmente prenotiamo su Booking o Air BnB.
Ormai il digitale ha un ruolo non più accessorio, ma essenziale e se guardiamo davanti a noi – prima si accennava al Metaverso – ci rendiamo conto che si tratta di un processo ancora in corso: oggi è il digitale che sta cercando di inglobare il reale, se ha ancora senso dividere i due elementi. All’interno di questo contesto il digitale è anche uno dei campi all’interno dei quali si combattono le guerre, si utilizzano droni negli attacchi militari ma si fanno anche cyber attacchi. Ad esempio, uno degli elementi che è stato determinante nella guerra in Ucraina fino ad ora è la possibilità offerta da Elon Musk tramite Starlink di accedere ancora ad internet su quel territorio. Sono tutti elementi che possono sembrare discreti ma che compongono un puzzle molto diverso da quello che potevamo avere 15-20 anni fa, se pensiamo alle piattaforme che non esistono da più di vent’anni, nessuna di loro o pochissime sono quelle sopravvissute alla bolla del 2000.
Cosa succede? Ovviamente hanno cambiato totalmente le nostre forme di vita e anche le nostre forme di lavorare. Anche se i lavoratori di piattaforma da un punto di vista numerico non sono la maggioranza dei lavoratori a livello globale rappresentano comunque una tendenza generale. Quello che succede nelle piattaforme si riversa anche in altri lavori, ne è un esempio il cosiddetto management algoritmico: gestire il lavoro non tramite un capo che ti guarda e ti dice cosa devi fare ma attraverso le funzioni delle app e attraverso degli strumenti che si portano appresso e che calcolano quello che il lavoratore deve fare. Questo ormai lo ritroviamo non semplicemente nel lavoro dei rider ma sta diventando pervasivo in tutti i lavori e ora allo stesso modo si riversa nella nostra vita sociale. Con quante persone siamo in contatto digitalmente? Con quante persone entriamo in contatto con i social? Quanto è facile, allo stesso tempo, entrare in contatto con persone dall’altra parte del mondo immediatamente? Da ciò non possono che aprirsi tutta una serie di domande politiche.
Un’ulteriore questione da mettere in luce riguarda la tendenza esistente a ragionare contrapponendo da un lato il globale, il digitale e i flussi di dati che attraversano il pianeta con i territori dall’altro, concependo i territori, verrebbe da dire gli Stati in molti casi, come oppositori di una resistenza di fronte allo strapotere di queste aziende. Non è però esattamente così. Per iniziare, ragioniamo sul fatto che il digitale non è immateriale, ma per funzionare necessita di materie prime. Senza le materie che vengono estratte nelle miniere di paesi in cui le condizioni di lavoro ricordano più quelle dello schiavismo non esistono né gli smartphone, né i computer, né i datacenter.
Un secondo elemento da tenere in considerazione riguarda la collocazione delle aziende digitali. Esse non sono neutrali e senza corpo, ma hanno collocazioni specifiche. Sono aziende principalmente americane e cinesi dalla cui competizione nei mercati emergono diversi scenari, uno di questi è lo sdoppiamento dei protocolli e delle regole di funzionamento di internet che fino ad oggi sono stati stabiliti dagli americani. Se la Cina è un paese che ha sviluppato una grossa capacità tecnologica malgrado i protocolli siano sempre stati in mano USA, la Russia nel momento in cui ha ricevuto delle sanzioni e si è trovata anche a vedersi chiudere le maggiori piattaforme statunitensi ha optato anche per lo sdoppiamento. Questo ci fa capire come nel mondo in cui viviamo la crisi della globalizzazione è soprattutto un processo di riorganizzazione in cui il digitale ci entra appieno, perché non si può pensare ad esempio di ricostruire un mondo basato sugli equilibri multipolari senza porsi il problema della gestione del digitale.
Qual è però un punto di vista critico di questi fenomeni? Non è semplice elaborarlo e negli anni diversi compagni hanno elaborato diverse idee. C’è chi, ad esempio, sostiene la necessità di nazionalizzare queste imprese, chi la necessità di costruire delle imprese etiche, ogni opzione ha i suoi pro ed i suoi contro. Io provo a presentare in chiusura tre elementi. Il primo è il ruolo delle infrastrutture: chi ha le infrastrutture comanda nel capitalismo contemporaneo più di chi ha i tradizionali mezzi di produzione. Di fronte al ruolo essenziale delle infrastrutture c’è la proprietà: noi usiamo social come Facebook ed Instagram che sono ormai delle piazze globali come potevano esserlo un tempo le piazze fisiche con la differenza che la proprietà di queste piazze è privata, totalmente, ed avete visto cosa può nascere dall’uso privato e non democratico di questi mezzi. C’è un problema di possesso e di gestione di queste infrastrutture.
Secondo elemento: i principi organizzativi; non basta ripensare esclusivamente nei termini della riappropriazione delle piattaforme, ma è necessario farlo anche all’interno di un ripensamento dei principi organizzativi di esse. Su questo punto, in parte le due opzioni già citate quali il possesso delle infrastrutture e le forme alternative si toccano.
Terzo elemento, il ruolo dei dati: i processi di valorizzazione sono diventati più complessi; non c’è più solo il lavoro vivo nella forma tradizionale dello sfruttamento lavorativo. Le nostre attività, identificate sempre come lavoro vivo e come dispendio di energie fisiche e mentali, producono dati che vengono poi a loro volta utilizzati e sono fonte di profitto. Una semplice dinamica di tassazione sugli aspetti retributivi delle piattaforme non è sufficiente anzi è forse sintomatica di un superamento di quello che poteva essere un processo di accumulazione basato sulla divisione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro. È possibile pensare forme di distribuzione della ricchezza incondizionata e generale come il reddito di fronte invece a processi di erosione del lavoro tradizionalmente inteso? Riusciamo a guardare in avanti invece che indietro alle nostalgie del passato?
Giorgio Pirina:
Alla cornice che hanno esposto sia Maurilio che Nicolò aggiungo queste tre parole chiave: natura, lavoro, politica, che prese assieme formano la contraddizione del capitalismo contemporaneo che stiamo vivendo tutti quanti, non solo a livello occidentale, ma a livello globale. Una contraddizione che porta ad interrogarci sul fatto che la natura non deve essere più intesa come esterna alla produzione, ma fa invece parte di tutti quanti i processi produttivi capitalistici e anche della nostra vita quotidiana perché qualsiasi cosa noi facciamo, qualsiasi dispositivo noi utilizziamo, qualsiasi tecnologia o infrastruttura usiamo, mettiamo in gioco l’equilibrio della natura ed i suoi tempi di evoluzione. Questo ci porta a mettere in dubbio l’eurocentrismo che sta alla base di quella che era stata definita società postindustriale negli anni ’70 che sembrava quasi basarsi unicamente sui dati, sulla tecnologizzazione, sull’automazione escludendo completamente il lato materialistico ovvero il lavoro vivo non solo dei minatori, dei lavoratori portuali ma anche dei lavoratori di piattaforma, non solo rider ma anche dei cosiddetti crowdworker che allenano costantemente l’intelligenza artificiale che contribuiscono a formare il cosiddetto mondo virtuale che noi utilizziamo quotidianamente.
La natura non deve essere più intesa come qualcosa di esterno e di infinito ma dev’essere considerata come qualcosa di limitato che noi consumiamo attraverso i racconti capitalistici e di riproduzione. Nell’attualità che stiamo vivendo torna però anche la questione politica della guerra d’invasione perpetuata dalla Russia rendendo l’Ucraina un elemento centrale per quanto riguarda le strategie di riorganizzazione degli assetti. Se si analizza la guerra d’invasione di Putin nei confronti dell’Ucraina attraverso le lenti della transizione energetica possiamo individuare elementi nascosti sotto il velo retorico culturale di riappropriazione di terreni un tempo appartenenti all’Unione Sovietica. A mio parere celano in parte un tentativo irruento di imporsi, attraverso l’espressione più violenta della politica, contro la transizione ecologica pensata da Europa e Stati Uniti che minerebbe un paese estrattivo quale è la Russia.
La transizione ecologica ha avuto un’accelerazione soprattutto durante la pandemia, la quale ha magicamente risvegliato in un’intera classe politica la consapevolezza che la natura è qualcosa di finito, che l’urbanizzazione proletaria e l’antropizzazione hanno delle conseguenze che possono bloccare completamente il capitalismo globale, attraverso scelte politiche come il lockdown. Il lockdown è una scelta politica che irrompe nell’organizzazione globale, nelle catene di produzione, nelle catene del valore del capitalismo e che rompendole pone in essere una serie di quesiti e di contraddizioni che noi come organizzazione politica, come militanti e come compagni abbiamo sollevato e solleviamo da più di 50anni, ma che la pandemia ha reso ancora più esplicite.
La digitalizzazione rappresenta uno dei vettori individuato dalle autorità politiche europee per la transizione energetica. Perché sembra che la rimodulazione digitale delle relazioni sociali non abbia conseguenze, che si basi appunto sull’etere, che sia completamente virtuale e staccato rispetto al mondo materiale dei minerali, del lavoro vivo, delle menti e delle braccia dei lavoratori che dalla miniera fino al lavoro di chi ti consegna la pizza rappresentano uno degli assi principali dell’estrazione dell’accumulazione di valori.
La digitalizzazione è tutt’altro che immateriale, il mondo digitale non è opposto al mondo materiale. Esse sono due sfere consustanziali, una non può esistere senza l’altra. Impossibile immaginare il capitalismo digitale nelle forme che ha assunto adesso, con le possibilità di tessere relazioni sociali che noi pensiamo adesso senza prendere in considerazione quelli che David Harvey ha definito “spazi di produzione”. David Harvey ha dato negli anni 90 una definizione estremamente efficace, che è quella di andare oltre il reame dell’esperienza immediata ed individuale. Intendendo semplicemente di interrogarsi, come persone, rispetto al semplice gesto di fare click, di ordinare su just-eat una pizza, di caricare sul cloud computing di una qualsiasi impresa del high-tech un dato, di utilizzare qualsiasi servizio di Chrome, di inviare un’e-mail, di inviare un WhatsApp. Questi gesti, che sembrano apparentemente virtuali, immateriali e privi di conseguenze, hanno invece conseguenze estremamente rilevanti non solo sull’ambiente ma anche sulla forza lavoro globale che rende possibili sia le infrastrutture socio materiali che le infrastrutture fisiche alla base dei processi di digitalizzazione.
Quindi bisogna interrogarsi su quelle che possiamo definire come sfruttamento delle risorse umane e ambientali lungo le catene di produzione delle tecnologie digitali. Il digitale a mio parere deve essere inteso come industria globale, deve essere inteso come capitalismo. Il capitalismo digitale presuppone lo sfruttamento, quello che avveniva prima della digitalizzazione di massa avviene anche adesso solo che assume contorni che sono stati definiti glamour. All’inizio si parlava di setting economy, di condivisione tra pari, di beni sottoutilizzati, logiche che erano esterne alla logica di mercato che però molto presto sono state sussunte dalla logica capitalistica. In questo modo quello che era glamour, cioè far la consegna a domicilio tramite l’intermediazione di una tecnologia, dopo poco tempo si è rivelato una fallacia completa. Sono emerse tutte quante le condizioni estremamente precarie: la povertà lavorativa, la dequalificazione del lavoro, la carenza di protezioni sociali sono realtà internazionali che valgono negli Stati Uniti come valgono nel contesto della società salariale europea.
Il passaggio chiave di cui dobbiamo tenere conto quando parliamo di digitale è quello di andare oltre il reale dell’esperienza immediata e considerare l’insieme di queste relazioni sociali e di sfruttamento sia del lavoro che della natura: dalla estrazione minerarie di depositi minerali critici Congo, in Bolivia, in Argentina, in Australia, in Ucraina, fino ai lavoratori della logistica, i lavoratori portuali, i lavoratori che assemblano i pacchi nei magazzini Amazon, cosi come i lavoratori che addestrano l ‘intelligenza artificiale e i lavoratori e le lavoratrici che ti consegnano a casa il pacco che ordini oppure la pizza o qualsiasi cosa che tu ordini. Per questo un semplice click, che sembra un gesto completamente innocuo, attiva tutte quelle condizioni che hanno un impatto rilevante sull’ambiente.
L’ambiente e la natura umana non devono più essere intesi come qualcosa di separato, devono essere posti come gli elementi centrali che stanno alla base della strutturazione del capitalismo digitale. Senza lo sfruttamento della natura, senza l’esaurimento continuo, senza il superare continuamente le soglie della riproduzione delle risorse naturali, il capitalismo digitale e il regime di accumulazione capitalista in generale non potrebbe esistere in questa forma.
La politica, secondo me, è emersa in maniera eclatante durante la pandemia. Ad esempio, con la scelta della Cina per prima e dei paesi occidentali poi, di fare un lock down che ha rotto una certa retorica per la quale le catene di produzione basate su just in time fossero qualcosa di infinito che funzionava a prescindere da qualsiasi contesto. Queste scelte politiche, effettuate anche attraverso gli strumenti nazionali degli stati nazione, hanno messo in evidenza che la catena di approvvigionamento basata sulla logica del: “ io produco sulla base della domanda proveniente dal mercato”, rendono completamente supini gli stati che non hanno materie prime, il così detto nord globale che ha esternalizzato negli ultimi cinquant’anni continuamente la base di produzione, il know how e le tecnologie in Cina, nel sud est Asiatico nel sud America, in Turchia ecc. Il lock down ha messo in difficoltà questi stati abbattendo sulla quotidianità delle popolazioni e della classe lavoratrice una condizione di precarietà che prima, forse, non avevano sperimentato con questa intensità. Ciò è avvenuto anche perché si condensano una serie di contraddizioni e di crisi; giustamente Niccolò diceva non sono definibili semplicemente come crisi dato che siamo in una condizione di completa dipendenza rispetto a qualcos’altro che non riusciamo a governare direttamente.
Questo diventa una questione centrale anche per quanto riguarda l’organizzazione politica, non per quanto riguarda una gerarchia di valori, ma una gerarchia delle azioni. Cioè di riuscire a capire qual è la leva attraverso la quale generalizzare il conflitto e riuscire a coniugare e rivalutare le contraddizioni che ormai stiamo subendo da diversi decenni. Riappropriandoci anche della capacità di costruire queste infrastrutture e queste tecnologie.
L’esperienza del cooperativismo di piattaforma è un’esperienza interessante che va in questa direzione, che però secondo me manca di un elemento centrale, quello della scalabilità. Perché Amazon è riuscita ad imporsi come un impero? Ci è riuscita, come anche Uber e le piattaforme di food delivery, perché sono riusciti a muoversi tra le trame normative transazionali e nazionali basate sulla produzione sistemica di forme contrattuali estremamente precarizzanti a sfavore della classe lavoratrice e a favore delle imprese. Queste hanno fatto in modo di rendere scalabile il modello organizzativo di Amazon e del capitalismo di piattaforma che invece pone in difficolta un modello “più etico”, un modello che si basa sull’utilità del lavoro come può essere quello del cooperativismo di piattaforma. Più recentemente è stato definito il così detto socialismo in piattaforma, cioè la capacità di riuscire a governare queste tecnologie, ribaltare l’utilizzo che le imprese capitaliste fanno di queste tecnologie e di queste infrastrutture per porle in chiave emancipativa per la classe lavoratrice.
Quindi per riassumere un po’ tutto quello che è stato detto fino a qua secondo me i tre punti essenziali, che devono essere continuamente ribaditi sono quello della politica il cui ruolo ha riacquisito una centralità durante la pandemia anche attraverso il suo utilizzo estremo come la forma di guerra, ma anche attraverso il lockdown. La natura che non deve più essere concepita come qualcosa di infinito e di esterno rispetto ai rapporti di produzione ma che è consustanziale alla conformazione che assume il capitalismo digitale o il capitalismo di piattaforma e quindi alla possibilità di renderlo tale. Il lavoro vivo che rappresenta la spina dorsale della strutturazione del capitalismo e che va: dal minatore delle miniere artigianali del Congo al minatore delle miniere più industrializzate del sud America in Australia, dai lavoratori di piattaforme al lavoratore della logistica.
È il lavoro vivo che anche con una differente composizione organica del capitale e una differente composizione sociotecnica dell’organizzazione del lavoro continua a rappresentare la spina dorsale nella conformazione del capitalismo digitale. Ci permette in questo modo di respingere l’ideologia californiana per cui sembra che il digitale sia qualcosa che rende possibile in maniera astratta le capacità individuali delle persone, che si oppone alle costruzioni materiali dell’epoca passata, che rende liberi e rende libera la creatività e l’individualità del soggetto in maniera astratta.
Noi dobbiamo opporci a questa ideologia che non tiene conto dell’insieme delle contraddizioni che stanno alla base dello sfruttamento delle risorse umane e ambientali. Per dire che noi esistiamo, che il lavoro vivo esiste e che la natura è una parte essenziale di questo insieme. Dobbiamo riuscire a dare voce alla natura per dire che queste soglie non possono essere superate, dobbiamo tonare indietro, bloccare tutto, ribaltare la concezione che viene data dal capitalismo digitale e dall’ideologia californiana per cui sembra che tutto sia bello, glamour e immateriale se effettuato attraverso le tecnologie digitali o la loro intermediazione.
Secondo me è necessario mettere in questione questa ideologia e ribadire che il lavoro vivo, la natura e la politica sono ancora tre pilastri essenziali della lotta politica. È importante individuare le forme sociotecniche, tecniche e organizzative più adatte attraverso qui generalizzare la lotta. Il caso della GKN è un esempio molto interessante sotto questo punto di vista perché riesce a mettere assieme la questione ecologica e la questione lavorativa nel senso stretto. La questione delle piattaforme digitali e la riappropriazione di questo tipo di tecnologie secondo me è centrale per proporre un’alternativa allo stato delle cose esistenti.