Roberto Bellarmino, il (santo) martello degli eretici

di Francisco Soriano

Per molti studiosi, critici e soprattutto timorati di dio, Roberto Bellarmino (1542-1621, gesuita, cardinale, direttore della biblioteca Vaticana, capo dell’inquisizione e, infine, santo, è passato alla storia per i suoi interventi nel processo contro Giordano Bruno e Galileo Galilei) fu “un intellettuale aperto ed equilibrato, capace di esercitare il proprio compito con spirito critico e autorevolezza, con rigore e fermezza, ma anche attento alle esigenze della tradizione della Chiesa e della cultura contemporanea”.

Il periodo che va dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento rappresentò, per la dialettica fra la Chiesa cattolica e la scienza (quest’ultima intesa soprattutto come progresso umano e affrancamento dai lacciuoli della magia e delle false credenze religiose), un momento drammatico caratterizzatosi per una lotta strenua e dolorosa compiuta da molti protagonisti della storia umana. La maggior parte delle vittime dell’Inquisizione furono sacrificati sull’altare dell’ipocrisia e del potere e pagarono la coerenza delle idee con la propria vita. Bellarmino fu giudice, inquisitore e carnefice.

Tra il Cinque e il Seicento, Roberto Bellarmino fu uno dei teologi più celebri della Compagnia di Gesù e della Chiesa. Clemente VIII durante il concistoro per i nuovi cardinali, gli fece un elogio senza precedenti: “Scegliamo colui che non ha eguali nella Chiesa di Dio quanto a dottrina; inoltre è nipote dell’eccellente e santissimo pontefice Marcello II”. Bellarmino entrò nella Compagnia di Gesù nel 1560 e presto mostrò doti spiccatissime di predicatore, prima a Lovania, proponendosi come interprete e diffusore della fede cattolica nell’intento di “convertire l’eretico dalla sua malafede”, senza disdegnare di confutare le verità divine ai protestanti e, in un secondo momento, scrisse le “Controversie”, “un capolavoro di ricerca storica e insieme un modello di argomentazione, che da un lato si ispirava alla carità e al rispetto, dall’altro era totalmente privo di rancore e di espressioni ingiuriose, usuali nelle relazioni tra le diverse confessioni”. Fu talvolta amato, ma anche molto detestato nell’intera Europa per la sua nota inflessibilità nei giudizi contro coloro i quali riteneva eterodossi alla “regola”: non a caso venne definito come il “martello degli eretici”. Fu un acuto studioso che cercò contraddizioni e, soprattutto, argomentazioni per contestare le più lucide e lineari speculazioni teologiche e scientifiche. I valori fondamentali che andava propugnando riguardavano soprattutto la Riforma, la Scrittura, la tradizione, il primato del Papa e, infine, il dogma dell’infallibilità del Vaticano. Tuttavia (quasi sorprendentemente), Bellarmino sosterrà la teoria del potere indiretto del papa sul potere politico che, alla stregua di quanto lo stesso autore affermava, era già stata elaborata da Tommaso d’Aquino nel Medioevo. La novità era l’accento del Bellarmino nel sostenere la completa autonomia del potere politico, tanto da costargli per mano di Sisto V (che riteneva il potere papale assolutamente sovrano sul mondo), la messa al bando delle sue Confessioni, relegandole fra i libri interdetti e proibiti.

Le spigolosità caratteriali si evincevano anche nei confronti dei papi, come nel caso che riguardò una disputa con Clemente VIII che lo nominò cardinale, ma non esitò a spedirlo lontano da Roma, emarginandolo a Capua con la funzione di arcivescovo dal 1602 al 1605. Proprio Bellarmino era stato accusato di aver affermato che il papa era semplicemente un servitore della Chiesa e non un padrone. Neppure in quel frangente egli tradì la sua propensione e abnegazione all’attività pastorale, intensissima, nemmeno quando dopo essere stato “confinato” fu richiamato a Roma per il conclave. Il teologo fu protagonista, soprattutto, nel processo contro Giordano Bruno, che spedì al rogo il 17 febbraio del 1600 in Campo de’ Fiori. Molti critici delimitano le responsabilità di Bellarmino, ma risulta davvero difficile ridurre la sua azione incisiva e determinante nel processo contro Bruno. Molto documentato anche il suo attivismo nei confronti di Galileo. Bellarmino studiò la teoria copernicana e incontrò Galileo nel 1606. Inviò una lettera allo scienziato consigliandogli di non pubblicizzare la teoria del Copernico anche perché, a suo dire, non era stata dimostrata: il timore consisteva nella possibilità che le nuove idee astronomiche potessero con la loro scientificità contraddire il “dettato” delle Sacre scritture. Infatti, proprio il Vaticano sostiene oggi che Galileo fosse stato salvato da Bellarmino, suo principale accusatore, che scrisse personalmente un documento in cui definiva Galileo come non eretico, anche se le sue idee tendevano pericolosamente in quella direzione. Il processo fu celebrato nel Sant’uffizio dal 1616 al 1633. Non bisogna tuttavia dimenticare che Galileo non salvò la vita per le citazioni morbide del Bellarmino o per la “flessibilità” dei giudici che comunque lo condannarono, bensì per la famosa abiura, imperdonabile atto di costrizione che il clero aveva preteso sotto la minaccia delle torture e dell’esecuzione capitale. Capitolo triste e vergognoso per la Chiesa che ricorda, con una certa ipocrisia, che Galileo venne condannato “soltanto” al carcere domiciliare e i suoi scritti inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Nel tempo molti papi tentarono di analizzare gli archivi che contenevano la documentazione del processo a Galileo, ma fu con Giovanni Paolo II e con l’aiuto dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il merito di aver riabilitato la figura dello scienziato con un mea culpa nell’anno 2000.

La figura di Roberto Bellarmino, santo, è legata alle questioni inquisitoriali ma è frutto anche di una vicenda politica specifica oltre che religiosa. Perché? Ricordiamo che la canonizzazione-santificazione del prelato fu dichiarata da Pio XI nel 1931, anche per stabilire e tentare politicamente e religiosamente, in quel particolare contesto storico, quella sintesi di un sistema in difficoltà che invece aveva bisogno di rigenerarsi dal punto di vista dell’identità nazionale come valore portante di un popolo. Infatti, come si sostiene in un articolo di Martìn Maria Morales, in quei tempi (“San Roberto Bellarmino e la cancel culture”, dall’Archivio storico della Pontificia Università Gregoriana, 17 settembre 2020) “un vento di persecuzione e di lotta soffiava da popoli e nazioni diverse contro la Chiesa e il suo Capo visibile, il Papa, contro di Dio e il suo Cristo: soffiava, in questi giorni stessi, più impetuoso dalla terra finora celebrata per la più cattolica, anzi la nazione cattolica per eccellenza; e imperversava già con tanta feroce violenza e inattesa brutalità che ne vanno stupiti e sgomenti molti di quelli stessi, che ne avevano favorito il primo scoppio e promossone, senza antivederlo, l’impeto sovvertitore della società”. Quella nazione “più cattolica” era la Spagna, dove furono bruciati conventi e statue sacre e la casa professa dei gesuiti a Madrid, nel 1931. Sempre nel suddetto studio si citano le parole di Gramsci a cui non era passato inosservato il gesto della santificazione del Bellarmino, così apostrofandolo nei suoi “Quaderni dal carcere” (1934 – 1935):Santificazione di Roberto Bellarmino, segno dei tempi e del creduto impulso di nuova potenza della Chiesa cattolica; rafforzamento dei gesuiti, ecc. Il Bellarmino condusse il processo contro Galileo e redasse gli otto motivi che portarono Giordano Bruno al rogo [Q.6, § 151]. E ancora più avanti ancora nel suo scritto così ritornava sull’argomento: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Roberto Bellarmino. Pio XI il 13 maggio 1923 dette al Bellarmino il titolo di beato, più tardi (nel 50° anniversario del suo sacerdozio, quindi in una data specialmente segnalata) lo inscrisse nell’albo dei Santi, insieme coi gesuiti missionari morti nell’America settentrionale; nel settembre 1931 infine lo dichiarò Dottore della Chiesa Universale. Queste particolari attenzioni alla massima autorità gesuitica dopo Ignazio di Loyola, permettono di dire che Pio XI, il quale è stato chiamato il papa delle Missioni e il papa dell’Azione Cattolica, deve specialmente essere chiamato il papa dei gesuiti (le Missioni e l’Azione Cattolica, del resto, sono le due pupille degli occhi della Compagnia di Gesù) [Q.7, § 88].

La storia ci racconta anche un altro aneddoto riguardante, a distanza di secoli, la contrapposizione fra Bellarmino e il grande Giordano Bruno. In occasione dei Patti Lateranensi nel 1929, i cattolici si fecero portatori di una richiesta fatta recapitare a Benito Mussolini, quella di: “rimuovere la statua di Giordano Bruno e di rigirare quella di Garibaldi che puntava, sempre minaccioso, col suo cavallo verso San Pietro”. In quella occasione, Mussolini si districò diplomaticamente, non dando peso alle richieste con una risposta piuttosto ambigua: “Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è … . Naturalmente non è nemmeno a pensare che il monumento di Garibaldi sul Gianicolo possa avere un’ubicazione diversa, nemmeno dal punto di vista del collo del cavallo”. Lo stesso papa Leone XIII nel concistoro del 1889 ebbe a dire che la statua di Bruno era un monumento che “glorificava presso i posteri lo spirito di rivolta verso la Chiesa (…) e che si profondono onoranze a un uomo doppiamente apostata, convinto eretico (…)”. Dunque i cattolici più intransigenti e ortodossi non fecero altro che sostenere, a più riprese, che quella piazza dove si ergeva la figura ombrosa dell’eretico poteva meglio definirsi come “Campo maledetto”, nel tentativo di rimuoverla in un processo di “cancel culture” ante litteram. A Roberto Bellarminio fu, invece, dedicata la chiesa di San Roberto in piazza Ungheria, quartiere Parioli, proprio perché il papa volle reagire al gran rifiuto attuato da Mussolini:  proclamò pertanto “il grande inquisitore”, cardinale Roberto Bellarmino, prima santo (1930) e, successivamente, dottore della Chiesa universale nonchè patrono dei catechisti (1931).

Nel non lontano 1885, dunque, qualche anno prima della proclamazione a santo di Bellarmino, si era formato un comitato per la costruzione di un monumento a Giordano Bruno, in piazza Campo dei Fiori, “lì dove il rogo arse”. Aderirono all’iniziativa straordinari intellettuali e politici del tempo come Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio, Herbert Spencer e tanti altri. Non fecero mancare la loro voce gli studenti universitari romani che, coraggiosamente, si palesarono con numerose manifestazioni, in scontri con la polizia, arresti e feriti. Nel 1889 la statua fu eretta.

A noi non resta che distinguere, oggi, di questi protagonisti della nostra storia, carnefici e vittime. A nostro modo di vedere Bellarmino era uomo troppo dotto e consapevole per non aver inteso le ragioni di Galileo, alle quali fornì una opposizione sicuramente più blanda a quelle del magnifico nolano. Bruno era un uomo esuberante, profondissimo e irraggiungibile, un vero demone-filosofo del pensiero, vorticoso e inebriante, che si era permesso la critica e la demolizione dialettica del potere clericale fondato sull’ipocrisia, la corruzione e la violenza anche militare. Il “santo” ne intuì il pericolo e la grandezza.

Oggi il “soave e dolce” Bellarmino deve essere ricordato come il carnefice di uomini e, soprattutto, come lo strenuo nemico delle idee di progresso.  Egli si distinse, in questa sua azione di salvaguardia di una Chiesa assurda e da sempre antistorica, antiscientifica e regressiva sul tema dei diritti umani, come colui il quale attuò con tutti i suoi mezzi a disposizione la persecuzione degli oppositori della Chiesa.

Vale la pena ricordare, sempre e costantemente, che a Giordano Bruno l’otto febbraio del 1600 venne letta la sentenza che lo condannò come eretico impenitente, pertinace e ostinato. Nove giorni dopo fu condotto a Campo de’ Fiori, a Roma, dove venne spogliato, legato a un palo e arso vivo, mentre tutti i suoi scritti furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti, un elenco emanato dalla Chiesa cattolica contenente libri vietati da leggere e possedere.

Giordano Bruno. La sentenza dell’inquisizione.

Roma 8 febbraio 1600. Palazzo del Sant’Uffizio.

NOI chiamati dalla misericordia di Dio e invocato il nome di nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre vergine Maria:

DICHIARIAMO

Te, frate Giordano Bruno eretico impenitente, pertinace ed ostinato e perciò incorso in tutte le censure ecclesiastiche per aver sostenuto l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni.

NOI condanniamo i tuoi libri come eretici ed erronei. Siano essi bruciati avanti le scale di san Pietro.

Tu, frate Giordano Bruno eretico ostinatissimo sarai spogliato nudo e con lingua inchiodata, legato ad un palo e arso vivo.

In ginocchio ascoltò Giordano Bruno il verdetto e a lettura finita si alzò in piedi e rivolto ai giudici inquisitori esclamò:

“Forse con maggiore timore pronunciate contro di me la sentenza di quanto ne provi io nel riceverla.”

All’alba del 17 febbraio del 1600 un mesto corteo composto dai seguaci di san Giovanni decollato conduce Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, luogo dell’esecuzione, intonando canti liturgici.

Il condannato ha bocca e lingua immobili nel ferro della mordacchia perché non potesse esprimere neppure l’ultima parola, ordine del soave, dolce cardinale Roberto Bellarmino, gesuita e santo.

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