La guerra e il lato oscuro dell’Occidente /1: il nemico esterno

di Fabio Ciabatti

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.

Ciò nonostante, dovendo parlare del rapporto con il nemico bisognerà per prima cosa fare alcune considerazioni sulla sua natura che, senza pretesa di esaustività, saranno utili per approfondire successivamente il filo principale del nostro ragionamento e che, al tempo stesso, serviranno a sgomberare il campo da alcuni dei più diffusi luoghi comuni della propaganda bellicista dell’Occidente. Il primo pregiudizio implicito nella narrazione occidentale è che la Russia post-sovietica si era incamminata verso l’economia di mercato e la democrazia durante gli anni di Yeltsin, ma che questo processo è stato invertito a causa di Putin. Insomma, l’unico russo buono è un russo ubriaco! In realtà gli anni di Yeltsin furono un disastro completo: tra il 1991 e il 1995 il PIL crollò di poco più di un terzo, mentre tra il 1991 e il 1994 l’aspettativa di vita tra gli uomini precipitò di 5 anni, solo per citare alcuni dati clamorosi. Per quanto riguarda la democrazia basterà ricordare il bombardamento del parlamento russo che si opponeva ai voleri di Yeltsin nel 1993.
Considerando questi antefatti, Tony Woods nel suo testo Russia Without Putin, da cui prenderemo molti spunti nelle righe che seguono, sostiene che “L’autoritarismo per il quale Putin è ampiamente criticato non è il prodotto di una sinistra preferenza personale, ma piuttosto una caratteristica integrante del sistema che ha ereditato e ha continuato”.2 Gli anni Novanta e gli anni Duemila devono dunque essere visti come due fasi nell’evoluzione dello stesso sistema: nel prima turbolento periodo si assiste alla distruzione del sistema sovietico e all’installazione di un nuovo ordine capitalistico, nel secondo si verifica processo di stabilizzazione e consolidamento in cui il nuovo modello si radica in profondità nel tessuto socioeconomico del Paese. La priorità, però, è sempre rimasta la difesa del capitalismo, come dimostra il fatto che Putin, nel corso dei suoi mandati, ha introdotto molti provvedimenti di stampo neoliberale: flat tax sul reddito al 13%, tagli di tasse per il capitale privato, codice del lavoro con il ridimensionamento dei diritti dei salariati, accrescimento del ruolo dei privati nell’educazione, nella sanità e nel settore immobiliare, trasformazione di servizi sociali in pagamenti in denaro.
In altri termini il sistema politico russo si è sviluppato dalla contraddizione tra i suoi dichiarati obiettivi democratici e la mancanza di un supporto popolare per il suo programma di trasformazione verso il libero mercato. Anche Putin non ha mai negato il principio democratico in sé, ma ha sostenuto che va declinato sulla base della specificità russa. Di fatto, la sovranità popolare è stata sacrificata ogni volta che è entrata in contraddizione con le necessità della transizione capitalistica. Se tra democrazia e capitalismo si sviluppa un rapporto contraddittorio non altrettanto si può dire a proposito della relazione tra i principi dell’economia neoliberale e la logica statalista. In questo caso si può parlare di due impulsi paralleli che ispirano la gestione putiniana del potere. È fuori di dubbio che lo stato sotto Putin abbia riguadagnato il controllo sulle leve fondamentali dell’economia nazionale, a cominciare dal controllo sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas. Ma questo significa che abbiamo assistito ad un ribaltamento della dinamica che vedeva il capitale privato utilizzare lo stato per il suo profitto a favore di un processo in cui lo stato si serve del capitale privato per perseguire le sue politiche di potenza? Probabilmente le cose sono un po’ più complesse. Il rapporto tra potere e ricchezza nella Russia post-sovietica è stato sempre molto stretto, quantomeno perché il capitalismo è iniziato con la vendita a prezzi di saldo da parte dello stato di pezzi dell’economia pianificata. Se all’inizio i principali beneficiari sono stati i cosiddetti outsider (persone prive di significativi rapporti con l’élite economico-politica sovietica) che hanno prosperato principalmente nei settori della finanza, dei media e dell’industria leggera, con l’inizio del nuovo millennio, complici la crisi finanziaria del 1998, la crescita dei prezzi delle commodities e il consolidamento dello stato, a emergere come vincitori sono stati gli insider che controllavano l’industria delle materie prime.
Insomma, ciò che è cambiato con Putin sono state le fonti della ricchezza, l’identità dei suoi possessori individuali e i metodi per mantenerla e estenderla. “Dopo il 2000, i termini del rapporto tra stato e ricchezza privata hanno cominciato a cambiare, ma l’impegno dello stato nei confronti del principio del guadagno privato – e delle enormi disuguaglianze che ha generato – no”.3 C’è stata una sempre maggiore convergenza nelle logiche e nelle pratiche dello stato e del settore privato dell’economia. Molte persone provenienti dal settore del business entravano nella sfera del governo mentre il settore privato reclutava i suoi dirigenti tra le fila dei funzionari governativi. È dunque emersa una élite ibrida capace di attraversare facilmente due domini formalmente separati, quello della politica e quello dell’economia privata. La promiscuità tra un capitale privato sempre più centralizzato e un potere statale che ha ristabilito la “verticale del potere” ha dato luogo a un sistema fortemente oligarchico in cui la democrazia diventa una forma sempre più svuotata di contenuto: democrazia gestita, democrazia sovrana, democrazia per imitazione, democratura sono le varie definizioni che se ne sono date (le prime due dagli stessi ideologi del Cremlino).

Sottolineare i momenti di continuità tra gli anni Novanta e i Duemila non significa però ignorare che la Russia di Putin sia stata protagonista di un progressivo slittamento ideologico che ha incentrato la sua rinnovata identità nazionale su alcuni princìpi di stampo conservatore, se non propriamente reazionari: Stato, sovranità, autocrazia, ortodossia, patriottismo, militarismo, famiglia tradizionale e status di grande potenza.  In particolare, la difesa dei valori cristiani e tradizionali, è nato in opposizione a quello che viene considerato il declino morale dell’Occidente e al relativismo culturale dell’Europa. Per certi versi il nemico non è tanto l’Occidente in quanto tale ma la sua degenerazione postmoderna, come testimonia la crociata anti LGBT.
Questa dinamica non è una novità nella storia russa, sostiene Luca Gori nel suo saggio La Russia eterna,4 perché il conservatorismo ha sempre accompagnato il percorso di sviluppo della Russia, offrendole un “rifugio” ogni qual volta si è sentita minacciata dall’esterno o messa sotto pressione da spinte riformiste interne di segno “eccessivamente” liberale. La “svolta conservatrice” della Russia andrebbe dunque letta come un riflesso ricorrente e difensivo, come la ricerca di una risposta tranquillizzante alla sensazione di una minaccia esistenziale o al rischio di un cambiamento troppo radicale.
Questa natura difensiva della identità ideologica della nuova Russia è confermata dal rapporto particolare che la lega al suo nemico. La ricerca post-sovietica di una nuova identità nazionale, nota Gori, ha individuato negli Stati Uniti l’”altro” dalla Russia: gli USA, più che l’Europa, sono stati il termine di paragone per valutare la bontà del proprio percorso e l’interlocutore privilegiato per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza. Per molto tempo l’élite post-sovietica, Putin compreso, ha aspirato ad un’alleanza o anche a un’integrazione con l’Occidente. Il confronto, però, è diventato scontro perché le reciproche aspettative si sono dimostrate irrealistiche.

Da un lato, quella russa di vedersi riconosciuta – in cambio dell’adesione alle regole del gioco occidentale – una “partnership egualitaria” con Washington e una sorta di “sfera di influenza” nello spazio ex sovietico. Dall’altro, quella di Stati Uniti ed Europa per cui la Russia, sconfitta dalla Storia, fosse ormai pronta a svestire gli abiti imperiali per diventare un Paese “normale”, una democrazia liberale secondo i canoni del paradigma impostosi nel post Guerra fredda.5

Il risultato è stata l’impossibilità di conciliare due forme diverse di “eccezionalismo”: da una parte, l’aspirazione universalistica americana a sostegno della diffusione universale di libertà e democrazia e, dall’altra, l’ispirazione conservatrice a difesa di ordine, stabilità, equilibrio multipolare e di una missione speciale della Russia ortodossa.
Da un punto di vista ideologico, il richiamo all’ortodossia può però costituire una debolezza perché condanna la Russia a oscillare tra “particolarismo” e “universalismo”, tra il riconoscimento del diritto di ciascun popolo alla propria specificità in un mondo multipolare e l’attribuzione a Mosca di una missione unica, rivolta a tutti i Paesi. Una seconda possibile mancanza è costituita dal fatto che Mosca si è proposta come una potenza a difesa dello status quo che enfatizza i principi di sovranità e di non ingerenza negli affari interni in opposizione alla freedom agenda statunitense.
Queste debolezze, insieme ad una sproporzione di mezzi materiali rispetto ai suoi competitor, hanno determinato il fatto che la Russia post-sovietica difficilmente sia riuscita a presentarsi come una potenza in grado di esercitare un ruolo egemonico. Putin non è in grado di offrire un progetto di sviluppo attrattivo per le classi e le nazioni subalterne. Priva di soft power ha deciso alla fine di fare ricorso all’hard power della sua potenza militare. I successi degli anni passati della politica internazionale di Mosca sono non a caso il frutto di una maggiore prontezza e spregiudicatezza che la forte concentrazione del potere politico consente, anche in campo militare, alla Russia. Ma si può sostenere che questi successi, più che essere frutto di una strategia compiuta, siano dovuti a reazioni estemporanee a situazioni critiche che, in ultima istanza, hanno creato effetti opposti a quelli desiderati. Di qui la spericolata fuga in avanti rappresentata dall’invasione dell’Ucraina che si sta trasformando in una guerra di lunga durata rischiosissima per le sorti della Russia.

In estrema sintesi, “il capitale e lo stato della Federazione Russa sono predatori (come tutti i capitali e tutti gli stati capitalistici), ma predatori di ‘secondo rango’” perché sono incapaci, a differenza degli Stati Uniti, di manipolare gli altri attori del processo economico e politico mondiale imponendo le proprie “regole del gioco” a livello globale.6
Da un punto di vista strutturale, seguendo gli autori appena citati, si può definire la Russia un capitalismo semi-periferico nato da un’incompleta trasformazione dell’economia pianificata sovietica che ha dato luogo a un sistema di transizione estremamente contraddittorio, non organico, ma al tempo stesso relativamente stabile. Un sistema caratterizzato dal dualismo tra una sfera integrata nel sistema capitalistico mondiale e una contraddistinta da un’ampia gamma di forme pre-borghesi o da rimanenze di ordinamenti sovietici. Nonostante il consolidamento dei rapporti di produzione capitalistici, l’economia russa è ancora  deindustrializzata rispetto all’epoca sovietica e per questo  fortemente dipendente dall’esportazione di materie prime ed energetiche, ha istituzioni finanziarie sottodimensionate rispetto ai competitor internazionali, non esporta capitali in misura significativa se non nella forma di ricchezze private alla ricerca di paradisi fiscali, è piagato da una corruzione e una burocratizzazione endemiche.

In conclusione, la Russia non può essere considerata una potenza imperialistica, almeno non nel significato che a questo termine viene attribuito da una classica analisi marxiana. Ciò, come risulta ovvio dall’invasione dell’Ucraina, non esclude che possa perseguire progetti di restaurazione della sua passata grandezza imperiale e praticare politiche di aggressione nei confronti di stati e capitali più deboli. Ma, aggiungiamo, proprio per il suo carattere di predatore di secondo rango, sembra davvero eccessivo considerare la Russia “la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina”, come ha sostenuto Ursula von der Leyen. Ingigantire il pericolo rappresentato dal nemico può essere una mera mossa propagandistica, ma può anche essere una spia di debolezza. E se l’“aggressione barbara” più che una minaccia all’“ordine internazionale” fosse un sintomo della sua crisi già in atto?

(1 – continua)

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