La sorveglianza speciale per ‘Eddi’ Marcucci è decaduta la scorsa primavera, una storia che ha con sé del grottesco, dal momento che i tribunali hanno inteso la sorveglianza per Eddi come un ammonimento per chiunque abbia intenzione di impegnarsi in manifestazioni di dissenso di qualunque sorta.
«La mia rabbia mi ha protetto», iniziano così i saluti di Maria Edgarda Marcucci – per la prima volta a Sherwood Festival – davanti all’affollatissima platea accorsa per ascoltarla.
Venerdì 8 luglio è stato l’ultimo dei quattro appuntamenti organizzati dall’Associazione “Ya basta! Êdî Bese!”, inserito tra gli Sherbooks Event. Incontri che hanno spaziato dalle terre ancestrali del Messico, con lo sguardo già verso la Carovana che partirà ad agosto; alle lotte femministe in Argentina, dando voce tramite Claudia Korol a quelle attiviste che per difendere la terra, i diritti e i loro princìpi hanno perso la vita; alle pratiche sportive come resistenza nei territori occupati in Palestina; fino al Kurdistan.
“Ogni volta che ho deciso di prendere parte a un evento pubblico mi sono dovuta chiedere: e se questa mia rottura del decreto avesse delle conseguenze? Per esempio, un processo con condanne da tre a dodici mesi? Penserò che ne sarà valsa la pena? Se ci sono andata, è perché mi sono risposta di sì. Sì, perché questa è una lotta che ritengo importante, quindi vado in piazza, ma anche solo sì, perché questa cosa mi dà nutrimento, potrebbe farmi crescere. (p. 243)”
Da questo estratto di “Rabbia Proteggimi”, nasce in maniera naturale la chiacchierata tra Eddi e Marco Sandi.
Marco Sandi: In una precedente presentazione hai spiegato che questo libro è la storia di un processo, quello della pericolosità sociale ma anche del processo alla tua vita e alle tue scelte. Vorrei ripercorrere con te come Maria Edgarda diventa Eddi, militante No Tav e compagna attivissima nelle lotte transfemministe, e da come Eddi diventa Shilan, combattente Ypj.
Maria Edgarda Marcucci: Ci tengo a ribadire che io sono sempre stata Eddi, sono ancora Maria Edgarda e sono anche Shilan. Eddi è il mio soprannome, una creatura mediatica, proveniente principalmente dalla lettera che scrissi per il 25 novembre, giornata della violenza maschile contro le donne, mentre ero nelle Ypj, al movimento transfemminista, e la firmai come Eddi, così i giornali ripresero la faccenda. Non credo di essere molto diversa dagli altri, credo che il mio percorso di militanza sia anzi abbastanza simile a quello di molti altri nella maggior parte dei suoi aspetti, la differenza sostanziale è quella dell’esperienza della guerra e della possibilità e della volontà di vivere in un territorio in cui c’è una rivoluzione in corso, il Rojava.
Ci tengo a tenere insieme Maria Edgarda, Eddi e Shilan proprio perché ogni passaggio della mia vita non è stato progettato ma contenuto nelle scelte che facevo e che prefiguravano il passo dopo. C’è una postura che viene insegnata dal transfemminismo che è quella del partire da sé. Quella della mia militanza è una storia del partire da sé: io ho perso mia sorella a 18anni a causa delle nocività ambientali, ho perso una borsa di studio perché il governatore del Piemonte, regione in cui studiavo, disse che il diritto allo studio non era più una priorità, andai a Torino nel 2011 per immatricolarmi e pochi mesi dopo io e altri 11mila studenti perdemmo lo status di borsisti perché non c’erano più i soldi.
Quindi mi sono avvicinata alla lotta No Tav perché metteva a tema le lotte ambientali, perché parlava di un modello di sviluppo diverso, della cecità del modello di sviluppo capitalista, contraddistinto dall’ “immediato”, da un eterno “qui e ora” che sembra cancellare le conseguenze di quello che facciamo, quando le conseguenze in realtà ci sono sempre e sono anche forti e chiare. Quindi mi sono avvicinata alla lotta No Tav perché parlava forte al mio vissuto, perché superare quel lutto non mi sarebbe stato possibile senza inserire quella che ritenevo una disgrazia in un quadro molto preciso di tassi di tumore che ci sono in questo pese a causa della nocività ambientale.
Poi mi sono avvicinata al collettivo universitario autonomo perché ero un’universitaria che si è ritrovata senza borsa di studio. Poi ho cominciato a lavorare perché mi dovevo mantenere e mi sono scontrata con l’orrorifica realtà del mondo del lavoro in questo paese, anche nel libro ci sono episodi che non hanno a che fare né con il Kurdistan né con la lotta No Tav ma con la vita che facciamo in questo paese, penso al presidio per reclamare la paga di un amico cuoco che è valso come argomento della mia pericolosità sociale. La mia realtà dialoga tanto con quelli che sono i principi e le pratiche della rivoluzione in Rojava e l’ideologia del movimento di liberazione del Kurdistan, che nel nostro contemporaneo è l’unica rivoluzione in corso ed è l’esperienza che ha avuto il merito di mostrarci che questo è possibile.
Sono 10 anni che questo modo di organizzarsi continua ad allargarsi, 10 anni fa dichiararono l’autonomia democratica in alcune città in Rojava, ad oggi quando parliamo di amministrazione autonoma della Siria del nord-est, parliamo di più di 5 milioni di persone, ben oltre i territori a maggioranza curda. Questa rivoluzione ha scelto consapevolmente di rompere qualunque identità su base etnica, è partita dal Kurdistan ma esso da principio, non è mai stato qualcosa di solo curdo. Io sono partita perché mi ponevo una serie di domande, e quello che vedevo nella rivoluzione partita dal Rojava era una possibile risposta operativa a queste domande, prima tra tutte: c’è un’alternativa possibile? Si può vivere meglio e in un altro modo?
Io avevo il sentore che la risposta fosse “sì” e ne ho avuto la conferma perché l’ho visto, perché ho attraversato per quasi un anno della mia vita quest’esperienza di rivoluzione. Rivoluzione sociale vuol dire partire dal presupposto che le risposte e la soluzione capitalista non sono efficaci, non sono valide, non sono desiderabili, questioni che non trovano spazio nella nostra realtà, sono in Rojava al centro. Una rivoluzione che mette al centro: la libertà e l’autonomia delle donne, un’ecologia molto lontana dalla transizione ecologica in “salsa” di dominio; si parla di autogoverno, di autodeterminazione delle popolazioni.
Dopo il 2013 e il 2014, con il tentato genocidio della popolazione yazida da parte dell’Isis e la storica resistenza di Kobanê, questa rivoluzione si è conosciuta sempre più e mi è stato chiaro che quel pezzo di storia in corso era contiguo a quello che io cercavo di fare in questo paese. Io sono partita con una delegazione civile proprio perché avevo delle domande che in molti ci facevamo, ho scelto di unirmi alle Ypj e di rimanere perché più rimanevo lì e più mi era chiaro che quella era anche la nostra battaglia. Penso sia necessario tenere insieme quel che si pensa, quel che si dice e quel che si fa. Unione del pensiero, della parola e dell’azione, per me quando si dice che si vuole cambiare questo sistema bisogna molto seriamente porsi la questione di come fare e cosa mettere al posto di questa macchina mortifera che è il sistema attuale. Andare lì era quindi necessario e una volta lì era necessario per la mia coscienza prendere parte a qualcosa che considero un patrimonio dell’intera umanità.
Marco Sandi: Nel tuo libro ci sono delle figure ricorrenti che caratterizzano la tua storia, due figure molto importanti come Anna Campbell e Lorenzo Orsetti; due rivoluzionari che trovano nella difesa dell’idea del confederalismo democratico e della rivoluzione, il martirio. Questo termine per noi ha una connotazione religiosa, ti chiederei quindi di spiegarne il significato. Ti chiedo anche di tracciare la vita di queste due persone e di spiegare quanto sia importante in questo momento mobilitarsi. Che esempio possono dare queste persone per chi come noi hanno qualcosa che “arde dentro”?
Maria Edgarda Marcucci: Io parlo molto di entrambi anzitutto perché ci ho vissuto insieme ma anche perché penso che la loro vita sia un buon esempio, soprattutto oggi in cui i personaggi nefasti che affollano lo spazio pubblico sono la maggior parte. C’è bisogno quindi di altri esempi, i quali esistono ma non vengono narrati.
Io sono solo un “eco” del loro passaggio, in quanto la loro vita e le loro parole già dicono tutto. Anna Campbell, per me Helin, è stata l’altra metà di me, abbiamo fatto la formazione militare insieme, siamo andate al fronte insieme, nonostante i compagni e le compagne abbiano cercato di dissuaderci da questa evenienza, infatti noi abbiamo servito sul fronte di Afrin dove c’era già l’esercito turco, il secondo esercito più numeroso della Nato.
In particolare, la Turchia ha sempre sostenuto totalmente lo stato islamico. In Turchia era accettabilissimo passare tra i confini Turchia-Stato islamico e entrare a Daesh. In Inghilterra i legami con lo stato turco sono molto forti, come anche in Italia, ci sono però anche tante persone che vengono dal movimento di liberazione, come Anna Campbell. Lei era una donna rivoluzionaria impegnata in molte lotte nel suo territorio, io mi ci rispecchiavo molto, è una persona che ha lottato ovunque si trovasse: ha lottato come studentessa contro l’aumento delle tasse in Inghilterra (lei smise di studiare per colpa della legge che le aumentò), andò a fare la ragazza alla pari in Francia e tentò di organizzare le ragazze alla pari per come venivano trattate, era una donna queer, lesbica, femminista, tratteneva corrispondenze con persone in carcere per non farle sentire sole, era attiva nel sabotaggio della caccia.
Helin ha visto in quella rivoluzione, nel protagonismo delle donne che quella rivoluzione ha deciso di sancire, la continuità con quello che faceva in Inghilterra. Sarebbe stolto pensare che quello che accade in un’altra parte del mondo, non ci riguardi. Lei rifiutava l’idea di essere andata ad aiutare questa rivoluzione, lei diceva di essere venuta a contribuire alla difesa armata di qualcosa in cui credeva. La sua storia è un esempio, lei leggeva il mondo come uno, non stava andando ad aiutare qualcuno (non era la “salvatrice bianca”), era una donna rivoluzionaria che pensava che questa rivoluzione fosse importante per fare in modo che ci potessero essere questo tipo di rivoluzioni anche in altri luoghi del mondo.
Quella di Orso è una parabola diversa, lui non veniva da un’esperienza militante in senso classico, sebbene fosse cresciuto in una famigli antifascista. Io penso che la grandezza di Lorenzo Orsetti stia nel come ha scelto di usare la sua vita e di donarla a noi, ed è anche preziosa la sua parabola nei termini in cui la prima battaglia che ha sostenuto e ha vinto è quella contro la sua stessa rassegnazione. Tekosher (nome di battaglia di Lorenzo Orsetti) ha avuto tanti momenti di buio, di sconforto, di incapacità di trovare un senso alla propria vita, nonostante questo quando io l’ho conosciuto era una persona luminosa e serena rispetto al posto nel mondo che aveva scelto. Quando gli si chiedeva “come mai sei qui?”, Orso riusciva a sintetizzare la sua risposta in poche parole: “Non volevo passare la mia vita a cucinare per gente che si può permettere un piatto di pasta a 20 euro, non ha senso.”
Rispetto alla parola martire, “Sehid”, in curdo ha una radice comune con la parola saggezza, testimonianza, la connotazione religiosa a cui siamo soliti associarla è un risultato culturale storico nostro che non sta nella parola in sé, tanto che il movimento rivoluzionario l’ha assunta senza problemi perché non c’è questa ambiguità in quella cultura.
Quella degli sehid è un culto importante di questo movimento, un culto fondamentale perché si dice “Sehid namirin”, cioè “i martiri non muoiono mai”, e si parla di sehid e non di morti perché c’è una differenza sostanziale tra chi perde la propria vita e chi la dona e la mette a servizio di qualcuno. Non si è sehid solo morendo sul campo di battaglia, tante compagne e compagni hanno incontrato il proprio ultimo giorno in condizioni pacifiche, non dipende da come si muore essere martiri, dipende da come si è vissuto, sehid è un concetto che ha a che fare con la vita non con la morte.
Io penso davvero che i martiri non muoiano perché conosco molte persone che hanno fatto scelte di vita che non avrebbero mai fatto senza conoscere la storia di Anna Campbell e Lorenzo Orsetti. Per me parlare di morti quando queste persone continuano a prendere per mano tante e tanti di noi, consigliandoci e dandoci la forza di andare avanti, mi fa strano. Vedo vivo nel mondo il loro passaggio. Per me è molto chiaro che “Sehid namirin”.
Marco Sandi: Parliamo ora di attualità. Da qualche giorno l’amministrazione autonoma ha dichiarato lo stato di allerta per un possibile attacco turco, i tempi sono bui e bisogna prepararsi alla mobilitazione. Ci spieghi cosa sta succedendo in questi territori e quali sono le prospettive future?
Maria Edgarda Marcucci: Ieri, 7 luglio 2022, è stato dichiarato lo stato di emergenza in tutta l’amministrazione autonoma della Siria del nord-est, sia le Ypg che le Ypj sono in mobilitazione e in stato di emergenza, come anche i corpi civili preposti a prender le armi in caso di attacco al confederalismo democratico. La situazione è gravissima perché il memorandum congiunto tra Turchia, Svezia e Finlandia, ha fatto sì che fosse chiaro che chi è protagonista dentro la Nato, ha messo in conto come prezzo da pagare il genocidio della popolazione curda.
Questo vuol dire che chi siede “al centro” della Nato (come Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna) ha messo in conto che questo possa accadere, altrimenti questo non sarebbe avvenuto. Domani Erdogan andrà in Iran, e questo è preoccupante perché l’Iran non ha mai avuto interesse a sostenere i piani espansionistici “neo-ottomani” della Turchia, mentre ultimamente si è espresso in una maniera ambigua rispetto al solito. Fa specie il susseguirsi degli eventi, vediamo la Russia che tenta di invadere l’Ucraina e tutti i governi del mondo che si scandalizzano per questo giustamente, facendosi forte de diritto internazionale che sancisce il fatto che non si sconfina in stati sovrani.
Mentre Putin era sanzionabile in quanto violatore del diritto internazionale, la Turchia sconfinava nel silenzio generale sia in Siria che in Iraq in Aprile. Il memorandum prevede di molto preoccupante: l’inizio della fornitura di armi alla Turchia da parte di Svezia e Finlandia, che avevano avuto il pregio di essere gli unici tra i pochissimi paesi che nel 2019, quando la Turchia invase la Siria del nord-est, sospesero la fornitura d’armi. Cosa che aveva annunciato anche il Ministro degli Esteri Di Maio nel 2019, mentre nel 2022 stringe la mano a Erdogan, e lo chiama “partner”.
La situazione è quindi gravissima, gli attacchi si sono intensificati. È preoccupante che nel memorandum si parli di PYD (Partito dell’unione democratica in Siria del nord), in Turchia il movimento di liberazione curdo ha tante anime, tra cui il PKK (il partito dei lavoratori del Kuridstan attivo in Turchia e Iraq) che è tutt’ora illegittimamente, a detta anche delle corti europee, tra le organizzazioni terroristiche secondo Europa e Stati Uniti. Questa cosa del memorandum avviene dopo che sono state raccolte milioni di firme per levare il PKK da questa lista, lo scollamento tra società e governi è lampante.
Questa cosa è molto grave, che un’organizzazione di difesa del popolo in un contesto di guerra civile sia un’organizzazione terroristica. Il fatto che sia nella lista, dà copertura a chi vuole garantirsi i propri affari in Turchia, mantenendo questa ambiguità. Nel memorandum compaiono poi anche le Ypg e il PYD, organizzazione attiva in Siria che si rifà al confederalismo democratico e al PKK, questa non era un’organizzazione dentro alle liste dei gruppi terroristici, continua a non esserlo a livello di Unione Europea ma lo è ora a livello di Nato. Si sta parlando di fatto di pulizia etnica a partire dal popolo curdo ma anche di tutte le persone che fanno parte di quest’alternativa.
L’amministrazione autonoma della Siria del nord-est sarà il primo fronte su cui le politiche oscurantiste di Erdogan si abbatteranno, e anche la nostra prima difesa, il Rojava ci ha difeso dallo stato islamico, mentre la Turchia lo alimentava. Nello scontro tra le due, se vincesse la Turchia, vincerebbe la pare che ha nutrito il jihadismo, che ha costruito con i soldi dell’Unione europea un muro al confine turco-siriano, muro aperto per i jihadisti ma chiuso per tutte le altre persone. Erdogan è una persona senza scrupoli, il prossimo anno ci saranno le elezioni in Turchia, in cui c’è un’inflazione al 75% e il presidente uscente non gode di alcun consenso.
Nonostante questo, la Turchia dal 2017 è una repubblica presidenziale, e non esiste una reale opposizione a Erdogan, gli oppositori o sono morti o sono rifugiati altrove o sono in carcere. Questo è un problema grosso che farà forse un giro largo, passando dalla Siria, ma che tornerà in casa nostra perché poi di fatto la questione della fornitura energetica (seguita alla guerra tra Russia e Ucraina) è qualcosa che sta consegnando sempre più pezzi nelle mani del sultano. In Anatolia passa il TANAP un gasdotto che dovrebbe ricollegarsi in Puglia. Quando parliamo di potere nei confronti di Erdogan, parliamo di: genocidio di un popolo e una crisi politica.
Se il confederalismo democratico scompare da questa terra tutte le persone che cercano un’alternativa non la troveranno, si tratta quindi di un’emergenza politica. E infine parliamo dell’arricchirsi di industriali e armaioli a scapito anche dei nostri territori e delle nostre tasche, quindi raccontarsi che il problema è altrove non può far altro che ingigantirlo. Io credo che se volgiamo pensare di avere un futuro dobbiamo affrontarlo e aggredirlo piuttosto velocemente perché la difesa di quest’esperienza politica è fondamentale anche per tutte le nostre esperienze politiche qui.