Lunedì 11 Luglio 2022 a Sherwood Festival si è tenuto un “dialogo tra (trans) femminismi” intitolato “corpi elettrici” con Jennifer Guerra, giornalista, scrittrice e attivista transfemminista. Il talk riguarda un progetto visuale sull’iconografia femminista degli anni ‘70 in Italia e ha preceduto di qualche ora la sfilata transfemminista. L’incontro è stato moderato da Melania Pavan (Globalproject).
Melania Pavan: Dove, come e quando nasce questo progetto visuale sull’iconografia femminista degli anni ‘70? Può essere questo uno strumento per comprendere come i femminismi si siano evoluti, come si è arrivati a parlare di transfemminismi e cosa succede nel nostro paese?
Jennifer Guerra: Lo spunto principale di quest’idea arriva casualmente, la decisione di aprire un profilo Instagram ad hoc è stata estemporanea. L’idea nasce soprattutto da una serie di ricerche che stavo facendo sul femminismo italiano degli anni ‘70. La cosa ad avermi colpita di più cercando queste informazioni era quanto alcuni slogan, temi, e una certa iconografia si ripresentassero nel corso della storia.
A volte abbiamo la percezione del femminismo degli anni ‘70 come di un “femminismo storico”, passato, invece l’idea di creare una pagina che raccogliesse fotografie, immagini, disegni, volantini, manifesti degli anni ‘70 aveva proprio l’obiettivo di cercare di recuperare qualcosa che nella divulgazione del femminismo nei social media manca, mi riferisco alla prospettiva di una storicità.
Io uso il mio profilo Instagram per divulgare temi femministi e mi rendo conto che questo social non sia una piattaforma fatta per un confronto orizzontale, per unire le persone, bensì è composta da singolarità. Questa caratteristica porta via la dimensione sistemica del femminismo e la sua prospettiva storica, manca la consapevolezza di cosa ci è arrivato da quella stagione femminista come anche da che conflitti questa stagione è stata attraversata.
Si pensa erroneamente che negli anni ‘70 tutte le femministe la pensassero allo stesso modo, che fossero tutte d’accordo politicamente, che gli obiettivi nella conquista dei diritti fossero gli stessi, ma è più complesso di così. Io ho l’impressione che andando a scavare nei conflitti degli anni ‘70 se ne ritrovino tanti di attuali e che si possa in questo modo provare a ragionare su alcune cose. Il tema dell’aborto può essere un buon esempio: oggi ci sembra impossibile pensare che una femminista possa essere contraria alla legge sull’aborto e invece non era così negli anni ‘70.
Quindi ritornando alla domanda, l’idea del progetto era quella di creare una raccolta di tutta questa stagione di femminismo, così importante nel nostro paese. Si vuole quindi fare una sorta di archivio di questa stagione in modo tale che leggendo uno di questi cartelloni o le rivendicazioni di un manifesto, e riconoscendosi in queste donne, scatti una “scintilla”, un interesse per approfondire quello che è stato il femminismo degli anni ‘70.
Nell’archivio ho fatto alcune scelte, ho scelto di trattare soltanto questa stagione per il ruolo che ha ancora oggi e mi sembrava importante anche attribuire i crediti, ho cercato di essere più corretta possibile nella didascalia, di ricostruire la storia dietro l’immagine e di riconoscere sempre i crediti a chi ha scattato la fotografia. Per me era importante anche restituire uno sguardo di autorialità perché la questione dello sguardo all’interno del femminismo è importante: guardare chi ha il potere di guardare, chi ha il potere di fare la storia. Mi sembrava quindi importante cercare di restituire nel rispetto dell’autorialità.
Melania Pavan: La possibilità di raccontare attraverso immagini può fare la storia, alla politica va bene raccontare un paese senza storia per cui è importante che ci siano degli sguardi dal basso, che spesso al mainstream non va di raccontare. Molta dell’iconografia degli anni ‘70 si basa sulla lotta per un aborto libero e sicuro. Il precedente americano di qualche settimana fa ci riporta a parlare di aborto (anche se in realtà non si è mai smesso di parlarne). Abbiamo visto sia la decisone della corte suprema americana sia la vittoria delle compagne di Ni una menos Argentina che riprendendosi le strade sono riuscite a far approvare la legge sull’aborto libero e sicuro. Ti chiedo quindi secondo te perché nel 2022 siamo di nuovo nelle strade a parlare di aborto libero e sicuro?
Jennifer Guerra: Quello che è successo negli Stati Uniti è quello che tutte le femministe avvertivano in questi anni: il fatto che i diritti che diamo per scontati non lo siano affatto. Qualche tempo fa il tema dell’impraticabilità di un aborto libero e sicuro era centrale in paesi molto illiberali, adesso questa cosa è successa negli Stati Uniti, si pensi che negli ultimi 30 anni sono solo tre i paesi che hanno fatto passi indietro sull’aborto (ora quattro con gli Stati Uniti), gli altri sono tutti andati avanti.
Un altro esempio recente è quello della Polonia, paese in cui c’è stata una grande battaglia sull’aborto: prima si è provato a far passare un divieto di aborto con una legge votata dal parlamento, bloccata da grandi proteste dello sciopero femminista, infine si è arrivati allo strumento della corte costituzionale che ha decretato l’aborto come incostituzionale.
Questo per dire che c’è questa tendenza a dare per scontati i diritti quando non lo sono affatto. In Italia la questione è ancora più difficile, mi sono arrivate molte domande dopo la decisone della corte suprema: “Questa cosa potrebbe succedere anche da noi?”, “Potrebbe esserci tolto dall’oggi al domani il diritto di aborto?”.
Rispondo dicendo che in Italia la questione è diversa, c’è una legge sull’aborto, non una sentenza, e solo un referendum abrogativo potrebbe abrogare questa legge. Purtroppo, però, la nostra legge sull’aborto è molto imperfetta, obsoleta, e più si va avanti nel tempo più mostra i suoi limiti di applicazione nella concretezza. La strada per smantellare questa legge è una strada secondaria, e questa è una cosa molto rischiosa perché passa nel silenzio, non fa clamore mediatico il fatto che il 70% dei medici siano obiettori.
Nessuno si chiede perché esista questa obiezione così alta in un paese sempre meno cattolico, com’è possibile che uno strumento (quello dell’obiezione) pensato inizialmente come temporaneo, e che avrebbe dovuto permettere l’approvazione di quella legge tutelando gli interessi della popolazione cattolica in Italia, si sia trasformato in uno strumento di abuso. Nessuno si chiede che potere ha il ministero della Sanità nel porre un freno all’abuso dell’obiezione di coscienza. Non si evidenzia la difficoltà di accedere ai dati sull’IVG (interruzione volontaria di gravidanza), un tema che potrebbe sembrare secondario, ma così non è.
È centrale anzi il problema dell’accessibilità dei dati riguardanti la legge 194. In Italia le informazioni pratiche sono molto poche, non si può sapere quali sono e dove sono i medici obiettori nella propria città o regione, la relazione annuale al parlamento sull’IVG di quest’anno è stata resa disponibile alla cittadinanza con parecchi mesi di ritardo e presenta la situazione del 2020: questo risulta inutile per chi cerca informazioni pratiche sull’aborto. Inoltre, anche facendo una richiesta di accesso ai dati, l’ufficio competente risponde con mesi di ritardo e comunque non può fornire i nomi dei medici obiettori a causa della privacy.
Io credo che la relazione annuale sulla 194 sia uno strumento molto interessante anche perché dà un quadro completo di chi ricorre all’aborto, demograficamente parlando, che è un dato molto importante per poter abbattere alcuni pregiudizi su questo tema. La realtà è diversa da quello che crediamo, ricorrono all’aborto: donne che hanno già figli, sposate, con un alto livello di istruzione. L’idea che abbiamo dell’aborto è molto stereotipata dalle narrazioni che ci vengono fatte, estremamente stigmatizzanti, parziali, improntate alla tragedia, al dolore. L’informazione è molto importante, è lo step di base per l’accesso ad un aborto libero e sicuro.
Tutti questi sono meccanismi meno eclatanti rispetto a una decisione della corte suprema negli Stati Uniti, ma sono veri ostacoli per le persone che vogliono accedere all’aborto. Su queste particolarità inoltre c’è un enorme potere da parte delle amministrazioni locali; in Italia la Sanità è amministrata regionalmente, per questo le regioni hanno un enorme potere sulla questione dell’aborto. In Umbria pochi anni fa si è cercato di limitare l’aborto farmacologico con una delibera regionale che in maniera arbitraria diceva che l’aborto farmacologico non si poteva fare in quella regione. Tutto questo fortunatamente ha portato poi a rivedere le regole sull’aborto farmacologico a livello nazionale.
È chiara la gravità della situazione: un’amministrazione regionale può decidere qualunque cosa in tema di aborto e nessuno può dire niente, così come un ospedale può essere al 100% obiettore, perché la legge 194 è estremamente vaga e dice soltanto che il servizio abortivo dev’essere garantito senza specificare altro. Questo potrebbe voler dire, ad esempio, che potrebbe esserci all’interno di un ospedale, anche un solo dottore non obiettore per un’ora al mese e risulterebbe essere garantito il servizio abortivo secondo la legge, ma di fatto così non è.
La mia grande preoccupazione è proprio quella di cercare di evidenziare come l’opposizione all’aborto non passi solo con il togliere una legge, ma anche con tutte queste azioni, alcune molto informali, difficili da riconoscere, altre scritte in leggi regionali che vengono approvate. Queste sono le cose che concretamente erodono la 194.
Aggiungo che la 194 continua ad essere difesa ad oltranza, e questo è un problema perché questa legge non va più bene, è comprensibile il timore di perdere questa legge ma non si può andare avanti così, perché ogni anno la situazione peggiora. Finché avremo questa legge così imperfetta, e la questione dell’obiezione di coscienza non verrà affrontata, non potremo fregiarci di avere una legge sull’aborto che mai verrà toccata.
Parlando del legame con gli anni ‘70, è interessante sapere che alcune delle femministe dell’epoca erano contrarie alla 194, una parte di loro era contraria alla depenalizzazione dell’aborto perché pensava che avrebbe portato ad una deresponsabilizzazione maschile, un’altra parte di militanti invece diceva che questa legge sarebbe stata una legge di compromesso, e che un giorno se ne sarebbe pagato il prezzo. Io credo che oggi ne stiamo pagando il prezzo.
Melania Pavan: Ricordiamo che in Veneto abbiamo provato a farci dare i dati degli obiettori dei vari ospedali seguendo tutta la burocrazia, ma la risposta è stata che per motivi di privacy non potevamo sapere nemmeno il numero degli obiettori. L’aborto è stata una delle lotte che ci portano a parlare di transfemminismi. L’altra cosa di cui sarebbe bello parlare, che ci raccontano anche le immagini che hai raccolto, è lo strumento dello sciopero. Sciopero visto come strumento non solo sulla questione abortiva, ma anche sull’accessibilità ai diritti, penso a persone non eteronormate, a soggettività Lgbtqia+ che devono acceder alle cure, a donne, alla violenza burocratica contro cui si scontra una persona in transizione. La domanda è: lo strumento dello sciopero continua ad essere uno strumento con il quale possiamo riprenderci questi diritti dal basso, dato che le leggi non bastano? Questo strumento può essere implementato?
Jennifer Guerra: Anche su questo tema c’è un filo diretto con gli anni ‘70, lo sciopero è stato un grande strumento più per le lotte operaie che per quelle delle donne. Però, ad esempio, nel 1975 in Islanda si tenne un enorme sciopero delle donne che paralizzò l’intero paese, si dice che quel giorno i supermercati finirono le scorte di cibi precotti perché gli uomini li comprarono in massa, infatti le donne non solo si erano astenute dal lavoro salariato, ma anche da quello domestico e di cura. Questo fu un enorme shock perché ad esempio anche i centralini erano tutti gestiti da donne e quel giorno neanche i telefoni funzionarono, il paese si paralizzò. In pochi anni l’Islanda diventò un modello per la parità di genere e nel giro di sei anni ebbero una Presidente della repubblica donna. Diventarono un modello perché riuscirono a dimostrare con la forza di questa astensione: l’importanza e il ruolo disconosciuto delle donne nella società, non solo come forza lavoro, ma anche come lavoro di cura, lavoro riproduttivo.
Quest’eredità è stata raccolta dai movimenti transfemministi attuali. In Polonia nel 2016 c’è stata la famosa “protesta in nero” contro il tentativo del governo polacco di far passare una legge che proibiva l’aborto in ogni caso, che poi è stata implementata nel 2021 con una sentenza della corte costituzionale, all’epoca lo strumento prediletto fu quello dello sciopero, l’astenersi dal lavoro retribuito ma anche da quello di cura.
Lo strumento dello sciopero ha dimostrato anche recentemente la sua importanza, in Sud America la “marea verde” ha portato ad una straordinaria stagione dei diritti per l’aborto in America Latina, non solo in Argentina ma anche in Cile l’aborto è stato depenalizzato recentemente. Negli anni ‘70 le islandesi contestavano l’essere pagate il 60% in meno rispetto agli uomini, volevano emanciparsi attraverso il lavoro, oggi la speranza di emancipazione che si riponeva nel lavoro è stata ampiamente disattesa, oggi per le donne non si è creato un lavoro emancipativo, il lavoro è anzi raddoppiato, è diventato: lavoro di cura, riproduttivo e salariato.
Quindi lo sciopero diventa uno strumento duplice, utile non solo per astenersi dal lavoro ma anche per distanziarsi dall’immagine di donna legata alla precarietà sociale, alla violenza economica e alla dipendenza economica. Si mette in discussione tutto un ruolo delle donne e di tute le soggettività marginalizzate, un ruolo estremamente complesso e problematico. Quindi lo sciopero ha questa valenza diversa.
Un altro aspetto importante da sottolineare è il fatto che non è più la sigla sindacale a scegliere quando scioperare, questo è qualcosa che arriva dal basso, che si decide collettivamente e che va oltre i confini del lavoro e arriva ad agire su quegli ambiti che non sono considerati lavoro ma in fondo lo sono.