Mercoledì 13 luglio presso lo stand Media e Produzioni si è tenuto il penultimo appuntamento organizzato da Sherbooks, in collaborazione con Melting Pot Europa: la presentazione di Respinti. Le «sporche frontiere» d’Europa, dai Balcani al Mediterraneo, con Duccio Facchini, (co-autore insieme a Luca Rondi), intervistato da Stefano Bleggi (Melting Pot Europa).
Il testo è edito da Altrəconomia, rivista mensile indipendente di cui Facchini è giornalista e direttore e per cui aveva già scritto nel 2018 “Alla deriva. I migranti, le rotte del Mar Mediterraneo, le Ong: il naufragio della politica, che nega i diritti per fabbricare il consenso”, sulla criminalizzazione del soccorso civile nel Mar Mediterraneo e sulle politiche italiane ed europee di respingimento e contrasto della migrazione.
“Respinti” ha un focus più ampio: è innanzitutto un’inchiesta sul campo, ricca di dati e testimonianze, report istituzionali e non su quello che accade lungo le frontiere esterne ed interne dell’UE, ed è un tentativo di inquadrare l’attualità per un’analisi più profonda che leghi quello che accade ai confini con le politiche italiane ed europee su immigrazione e asilo, contribuendo a delineare il quadro purtroppo drammatico di iniquità, violenze, vessazioni e morte. Quadro al quale gli autori cercano di fornire quanti più elementi possibili grazie al contributo di diversi avvocati, studiosi e attivisti come Gianfranco Schiavone, autore della prefazione e Caterina Bove, Anna Brambilla, Riccardo Gatti, Maurizio Veglio, Cristina Molfetta.
Il libro è stato ultimato nell’aprile del 2022: pochi mesi prima sul confine tra Polonia e Ucraina avevamo avuto l’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia europea in materia di immigrazione: qui da febbraio-marzo si sono create vie legali e forme di passaggio sicuro – definite “porte spalancate” – mentre a pochi chilometri, sul confine con la Bielorussia, giusto pochi giorni fa è stata ultimata la più grande barriera metallica dopo il muro di Berlino (oltre 150 chilometri) per bloccare gli ingressi di migranti in fuga. Alcune immagini esemplificative ritraggono da una parte la polizia polacca farsi selfie con famiglie ucraine e dall’altra respingere con violenza famiglie curde, siriane, irachene, in generale non bianche.
Duccio Facchini: Il libro è un’opera “collettanea” e quindi oltre al lavoro d’inchiesta mio e di Luca Rondi ci sono diversi interventi multidisciplinari ad impreziosirla. Prima di arrivare al tema delle migrazioni forzate e dei diritti umani, con il primo capitolo “Prima di partire” abbiamo delineato un quadro generale sulle migrazioni internazionali per ricordare che nel nostro modello economico attuale sono per lo più i ricchi a spostarsi e al contempo ad impedire la libertà di movimento ad un’ampia parte della popolazione globale. Siamo noi – europei – a violare le nostre stesse Convenzioni e Costituzioni (Art. 10 Cost. italiana) sul diritto d’asilo, alle frontiere esterne e interne all’UE. Dopo questa panoramica introduttiva abbiamo voluto procedere per frontiere, partendo da quella tra Polonia e Bielorussia. È qui che si misurano le politiche dei governi dell’UE, a partire dal governo polacco ma con ampio sostegno politico-istituzionale ed economico dell’UE (la Commissione Europea ha finanziato con 810 milioni di euro la frontiera metallica sul confine). A fronte di 25 mila tra iracheni, iraniani, siriani, yemeniti, camerunensi, congolesi presenti in Bielorussia che tentano di entrare in UE per richiedere una forma di protezione internazionale, la politica europea risponde lamentando un “attacco ibrido” (citando l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josef Borrell) a cui segue lo stato di emergenza – dichiarato dal governo polacco nell’ottobre 2021 – filo spinato, allontanamento degli operatori umanitari e legali, dei giornalisti, risposta militare – con cannoni ad acqua, cani, filo spinato e 20 morti accertate nella foresta bielorussa al confine con la Polonia. Contestualmente dal 24 febbraio 2022 – data dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina – ad oggi, 4 milioni e 270 mila persone dall’Ucraina sono entrate in Polonia, forti del riconoscimento della “protezione temporanea”, attivata per la prima volta dopo 20 anni dalla sua previsione (Direttiva 2001/55/CE) che però non era stata attivata per afghani, siriani, yemeniti. A dimostrazione che i numeri non sono un problema quando c’è la volontà politica e che la solidarietà “fa spazio”.
In “Respinti” raccontiamo le chiusure e i respingimenti non solo lungo questa frontiera ma anche nel Mediterraneo centrale, sulle rotte balcaniche e lungo le frontiere interne all’UE: Ventimiglia, la rotta alpina, il confine Italia-Slovenia. Penso poi anche ai CPR e all’operato di Frontex, l’Agenzia europea istituita nel 2004 con il mandato di sorvegliare le frontiere esterne dell’UE, che è diventata sempre di più soggetto centrale della strategia di respingimento e confinamento delle persone: ad oggi l’Agenzia rivendica di avere agenti per “facilitare il passaggio di rifugiati ucraini” e allo stesso tempo rivendica l’utilizzo di droni (pagati con fondi UE) per prevenire gli “attacchi ibridi” rappresentati dal flusso di persone che tentano di attraversare la frontiera Grecia–Turchia.
E non sono solo i paesi del blocco cattivo di Visegrad i responsabili.
Una buona parte del libro si sofferma sulle cosiddette rotte balcaniche. Emerge come ci siano prove inconfutabili di quello che avviene, nel libro citate e analizzate con l’evoluzione delle politiche adottate in quest’area toccando non solo il tema dell’esternalizzazione ma anche quello del confinamento. Tema che con la rete di associazioni “RiVolti ai Balcani” avete poi ben analizzato in un convegno. Parlaci di questi report, della qualità del giornalismo investigativo e dei campi di confinamento dislocati nei paesi “di frontiera”
Lungo le rotte balcaniche, a cui è dedicato il terzo capitolo di “Respinti”, è possibile osservare il volto più cruento e violento della strategia. Violenza che è ormai innegabile ed è purtroppo frutto di una volontà precisa, a fine di deterrenza. La scintilla di queste rotte, ovvero la frontiera Turchia-Grecia, sia nel suo tratto marittimo – dalla costa turca alle vicinissime isole greche – che in quello continentale – tagliata dal fiume Evros – in questi anni è stata oggetto di numerosi rapporti, testimonianze, report di ONG sulle violenze condotte non soltanto dalle forze di sicurezza turche ma soprattutto dalle guardie costiere e dalle forze dell’ordine greche (finanziate quindi dall’UE). Nell’indifferenza di larga parte della società europea, qui – come testimoniano rapporti di Human Rights Watch e Border Violence Monitoring Network – i richiedenti asilo vengono denudati, chiusi in centri clandestini su suolo greco, in stanze sovraffollate. Ancora peggio se possibile, a concludere le operazioni di respingimento spesso non è la polizia ma altri migranti – afghani, pakistani, siriani – assoldati dalle forze greche con la promessa di ottenimento del documento, nel ruolo di quelli che potremmo chiamare dei contemporanei kapò.
Spostandosi al confine tra la Grecia e la Macedonia del Nord i respingimenti continuano, per non parlare di quello con la Bosnia, che nonostante non sia membro UE e sia istituzionalmente ancora molto instabile, è stato finanziato per decine di milioni di euro per costruire autentici campi di confinamento per trattenere persone che non possono proseguire – li attenderebbero le violenze della polizia croata – né tornare indietro. Il convegno di “RiVolti ai Balcani” ha fatto un lavoro di vitale importanza non solo sulla Bosnia-Erzegovina ma anche sulla Serbia, altro paese non UE ma altamente strategico a livello di flussi, per via dei suoi confini con Ungheria e Romania.
La parola “emergenza” è sempre più spesso accostata al tema delle migrazioni: ogni anno si ripete associata agli sbarchi, al sovraffollamento degli hotspot, come se la questione non fosse ormai sistemica. Il Mediterraneo, altra “frontiera” ampiamente trattata del vostro libro, probabilmente è stato il primo laboratorio sulle politiche di respingimento dell’UE. A breve sarà approvato con molta probabilità un nuovo rifinanziamento della cosiddetta guardia costiera libica, ti chiedo un commento a riguardo.
Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche, il tema del Mediterraneo ritornerà prepotentemente: è bene prepararsi a resistere alla solita retorica emergenziale legata agli sbarchi e alla narrazione del tutto infondata sui presunti limiti raggiunti dall’Italia rispetto all’accoglienza, a cui ha fatto riferimento persino il Presidente del Consiglio Draghi la settimana scorsa ad Ankara durante il vertice intergovernativo tra Italia e Turchia. Pubblicamente si continua ad invelenire il discorso pubblico con la retorica del “non possiamo accogliere tutti”, nonostante i dati parlino chiaro: in Italia abbiamo 89 mila persone in accoglienza (dati di giugno 2022) e contestualmente dal 24 febbraio sono entrate invece 145 mila persone ucraine. Delle 535 mila domande di protezione internazionale presentate nell’UE nel 2021, solo 43 mila e 900 – meno del 9% – sono state presentate in Italia. Se i numeri fossero più alti non giustificherebbero comunque il rifinanziamento, la formazione e l’equipaggiamento della guardia costiera libica che su Altrəconomia raccontiamo da tempo.
A questo proposito, nell’ottobre del 2021 il governo italiano ha sottoscritto una Convenzione con la Guardia costiera italiana per la cessione di 3 motovedette – costruite dal cantiere navale Vittoria, qui in provincia di Rovigo – al Ministero dell’Interno che a sua volta le avrebbe cedute alla “guardia costiera libica” nonostante le Nazioni Unite continuino a ricordarci le continue e gravissime violazioni dei diritti umani nei lager libici. Per queste 3 motovedette sono stati spesi circa 6 milioni di euro: con gli stessi soldi quante operazioni SAR (Ricerca e Soccorso) governative potevamo finanziare? Quanti progetti SAI sul territorio si potevano implementare? Si tratta di scelte politiche attualissime e, come racconta Riccardo Gatti – che ha operato sulle navi di Open Arms, e ora con Msf sulla Geo Barents – nel suo contributo al libro, queste politiche non sono solo materia per appassionati di diritto o operatori dell’accoglienza, ma incidono direttamente sulla vita delle persone poiché si traducono di fatto nel maltrattamento, a volte nella tortura delle persone: nei campi libici in Libia, lungo le rotte balcaniche, folgorati alle frontiere con Ventimiglia, bastonati alla frontiera italo-slovena, morti di freddo a Oulx, ultimo avamposto italiano della rotta balcanica.
Non commettiamo l’errore di ritenere questo tema conosciuto, di ritenerci “vaccinati”: occorre ancora fare alfabetizzazione dal basso, partendo dai fondamentali, soprattutto quando dall’altra parte la potenza mediatica e la tendenza a cambiare i connotati della storia sono forti. Citando un esempio pratico di cui abbiamo parlato su Altrəconomia qualche giorno fa: la Guardia costiera italiana è arrivata a rimuovere dal proprio sito i report sulle attività SAR di qualche anno fa, poiché parlavano di “ricerca e soccorso”, di “persone” per pubblicare un nuovo rapporto che parla invece di “intercettamento di migranti irregolari nel corso delle operazioni di polizia” e così legittimare un’altra narrazione.