Da oltre due settimane forti proteste stanno scuotendo il paese centro americano. Come successo recentemente in Ecuador e come sta succedendo in questi giorni in Sri Lanka, anche a Panama le motivazioni delle proteste sono l’aumento vertiginoso del costo della vita, in particolare di carburante, medicine e generi di prima necessità, che colpiscono in modo indiscriminato la popolazione.
Al centro dell’attenzione le politiche economiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale che il governo di Laurentino Cortizo sta portando avanti e che, come sta succedendo in diverse parti del mondo, vedono l’aumento indiscriminato dei prezzi dei beni al consumo, in particolare di carburante, medicine, la corrente e generi di prima necessità. A queste rivendicazioni di base si sono aggiunte i costi della burocrazia e la mancanza di fondi per la sanità, l’educazione e l’impiego, che hanno fatto crescere il malcontento popolare e portato le organizzazioni sociali, sindacali, indigene e popolari a chiedere al governo di agire per non scaricare la crisi economica sul popolo panamense.
Già a metà maggio infatti diverse organizzazioni avevano presentato al governo un elenco con trentadue richieste: «la crisi economica, sociale, ambientale e politica che affrontiamo non si origina dalla pandemia di COVID 19 ma ne è acuita; pertanto, le misure che il governo adotta per uscire della crisi non possono continuare ad essere orientate a recuperare solo i tassi di profitto e a tutelare il capitale». Tra le trentadue richieste, oltre al congelamento del prezzo di carburante, medicinali e generi di prima necessità, ci sono anche l’aumento dei salari, l’istituzione di una indennità di disoccupazione, il blocco dei licenziamenti, azioni concrete per frenare la corruzione politica, il miglioramento dei servizi di assicurazione sanitaria, maggiori investimenti nel sistema educativo, politiche di protezione ambientale e contro i progetti estrattivisti che devastano i territori, mettere fine alle violazioni dei diritti umani e agli abusi di polizia.
In un primo momento il governo non ha risposto alle rivendicazioni sociali così si è giunti alla mobilitazione che da oltre due settimane ha investito tutto il paese, con grandi manifestazioni nella capitale e nelle principali città del paese e blocchi stradali disseminati in tutto il territorio nazionale, a Santiago, La Villa de Los Santos, Aguadulce, Penonomé, La Chorrera, Changuinola, Chiriquí e naturalmente nella capitale. Blocchi stradali che sono cresciuti con l’adesione della Coordinadora Nacional de los Pueblos Indigenas de Panamá che ha contribuito alla protesta bloccando le strade a San Juan, Tolé, Viguí, San Félix, Ojo de Agua ed Escudo, paralizzando completamente i trasporti nella provincia di Chiriquí.
A guidare la protesta sono principalmente due coalizioni. Da una parte la Alianza del Pueblo Unido por la Vida al cui interno ci sono diverse organizzazioni sindacali e sociali come il forte e combattivo sindacato dei costruttori edili SUNTRACS (con circa quaranta mila membri), CONUSI, Convergencia Sindical, Central Nacional de Trabajadores de Panamá, Central General de Trabajadores de Panamá, Asociación de Profesores de la República de Panamá (ASOPROF), organizzazioni di medici, di autotrasportatori e il Movimiento de Comunidades MOCONA. Dall’altra parte l’Alianza Nacional por los Derechos del Pueblo Organizado (ANADEPO) che ha sede nella provincia interna di Veraguas e che rappresenta ventidue organizzazioni di docenti, civili, allevatori, pescatori, agricoltori, trasporti e di studenti, tra le quali la forte Asociación de Educadores Veragüenses (AEVE).
Il crescendo della protesta ha costretto però il governo a correre ai ripari. Qualche giorno fa il presidente Laurentino Cortizo ha annunciato il congelamento del prezzo del carburante a 3,95 $ al gallone e al tempo stesso il governo ha introdotto una serie di misure di austerità tra cui la sospensione degli aumenti nel settore pubblico e la stretta su una serie di benefici ai parlamentari, tra cui l’assegnazione di telefoni cellulari, la proibizione di effettuare viaggi all’estero e sui rimborsi non autorizzati. Tutte queste misure sono state considerate insufficienti dalle parti sociali, che hanno più volte fatto appello al governo a costruire le basi per un dialogo vero. E in effetti il governo ha lanciato un tavolo di trattativa, ma ancora una volta le organizzazioni sociali hanno ritenuto una presa in giro la mossa del governo dal momento che ha imposto la mediazione della Chiesa cattolica e gli interlocutori coi quali trattare.
Per Fernando Ábrego, dirigente sindacale della ASOPROF appartenente all’Alianza del Pueblo Unido por la Vida, «per un dialogo vero il governo deve convocare le organizzazioni in lotta e le parti insieme devono accordarsi sul mediatore e sui temi da affrontare». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Saul Mendez, portavoce del SUNTRACS: «il governo ha imposto nuovamente un dialogo “yo con yo”, decidendo chi può partecipare al tavolo e chi lo modera. Abbiamo notizie che chi ha deciso di partecipare a questo dialogo vuole reprimere chi sta lottando nelle strade. Dall’altra parte, il presidente ha annunciato repressione, cioè ha iniziato un cammino che può portare lutto e dolore al popolo panamense invece di cercare soluzioni. Il governo deve dare risposte concrete ai problemi posti dal popolo panamense, noi continueremo a lottare fino a quando non otterremo risposte serie». Luis Sánchez, rappresentante della ANADEPO che ha sede nella provincia di Veraguas, ha invece aperto al dialogo: «se esiste umiltà da parte del presidente Laurentino Cortizo, che questa umiltà si trasformi in una vera volontà per poter risolvere i problemi», ha dichiarato a Critica. Per la ANADEPO però il tavolo con il governo deve avvenire a Veraguas, dove è iniziato nei giorni scorsi un primo incontro tra il governo e le realtà sociali.
Nel fine settimana, mentre la ANADEPO si è seduta al tavolo delle trattative col governo, arrivando a un accordo preliminare di riduzione del prezzo del carburante a 3,25 $ al gallone, i dirigenti delle organizzazioni aderenti alla Alianza del Pueblo Unido por la Vida si sono riuniti in assemblea presso l’Università di Panamá per organizzare i prossimi passi della lotta. Nella conferenza stampa indetta al termine della riunione, i portavoce hanno rigettato i risultati del tavolo di Santiago de Veraguas in quanto al suddetto tavolo non sono presenti tutte le organizzazioni in lotta e annunciato che a partire da lunedì sarebbero riprese le mobilitazioni con picchetti di fronte alla sede del Ministero dell’Economia e della Finanza e la paralizzazione totale delle vie di comunicazione dell’intero paese fino a quando non otterranno un solo tavolo di dialogo. «Questa lotta del popolo, non è per centesimi, è per un cambio profondo», hanno dichiarato i dirigenti dell’Alianza del Pueblo Unido por la Vida.
Come preannunciato, la settimana è cominciata con i blocchi stradali organizzati dall’Alianza del Pueblo Unido por la Vida e con l’inatteso passo indietro da parte della ANADEPO: dopo aver consultato le basi, l’alleanza ha deciso di rompere l’accordo firmato il giorno precedente con il governo perché nell’accordo non ci sarebbero riferimenti alle date entro le quali mettere in pratica l’accordo. «Oggi di fronte alle telecamere rompo ciò che si è firmato ieri perché obbedisco alle basi e le basi hanno l’ultima parola», ha dichiarato Luis Sánchez ai giornalisti panamensi, aggiungendo poi che «ci deve essere un tavolo unico di negoziazione, assieme all’Alianza del Pueblo Unido por la Vida».
La crisi economica che ha colpito il paese centro americano non deve cogliere di sorpresa. Infatti, nonostante un recente report della CEPAL, attesti la forte crescita del PIL (6,3%, superiore di oltre due punti alla media regionale), guidata dalle esportazione di rame e dai profitti in costante crescita del Canale di Panama, fa da contraltare la crisi che colpisce la popolazione: inflazione alle stelle (4,2% nel solo mese di maggio secondo l’Instituto Nacional de Estadísticas y Censo), aumento del 47% del carburante dall’inizio dell’anno, tasso di disoccupazione all’11,3% e tasso di lavoro informale al 47%.
Le cause di questa crisi non sono da ricercarsi esclusivamente nella pandemia ma hanno radici più profonde, come evidenziato dal rapporto della CEPAL Patrones de desarrollo económico en los seis países de Centroamérica (1950-2018), nelle politiche economiche neoliberiste messe in atto nel paese negli ultimi trent’anni. La pandemia, semmai, ha acuito ed evidenziato tale processo, innescando a sua volta la risposta popolare di ribellione e resistenza.
Ricucito lo strappo tra i movimenti, ora la parola passa al governo di Laurentino Cortizo, che dovrà decidere se accettare la sfida e sedersi al tavolo con tutte le organizzazioni in lotta o continuare ad escluderne alcune dal dialogo. Per evitare una grave crisi politica e la rivolta – o l’utilizzo della repressione come arma di risoluzione del conflitto – il governo dovrà quindi fare delle concessioni importanti, a partire proprio dalla decisione di includere nel dialogo tutti gli attori della protesta e comunque mettendo mano alle politiche neoliberiste che hanno prodotto privilegi e disuguaglianze al centro della lotta.