Mercoledì 29 giugno si è tenuto nella Free Sport Area di Sherwood Festival il dibattito dal titolo “Lo sport come resistenza. Voci dalla Palestina”, con Davide Valeri (sociologo), Alba Nabulsi e Camilia Farah (attiviste del collettivo “Falafel e Cultura”), Dawod Al-Taamari (Giovani Palestinesi d’Italia) e con la partecipazione in video conferenza di Muhanned Qafesha (giornalista e attivista di Youth Against Settlements, Hebron) e Flavia Cappellini (regista e documentarista).
Valentina Nessenzia dell’associazione Associazione Ya Basta! Êdî bese! e della Polisportiva San Precario apre il dibattito presentando i numerosi ospiti e ringraziandoli per aver voluto condividere la loro storia. Sono rare le occasioni di dibattito sul tema dello sport come strumento di resistenza, ed ancora più rare sono le occasioni in cui si parla in maniera approfondita di questo argomento contestualizzato in Palestina.
Il primo relatore a prendere parola è il sociologo Davide Valeri, il quale si focalizza sulla storia del burkini: un indumento sportivo dalla storia tanto interessante quanto controversa.
Questa tuta sportiva, simile ad una muta da subacqueo, nata in Australia nel 2004, assume i tratti di quello che il sociologo definisce un oggetto polisemico: quando si parla di burkini, infatti, emergono fenomeni culturali che ci riguardano; dal controllo del corpo delle donne, alla questione migratoria, passando per il pluralismo religioso. L’indumento è stato realizzato per la prima volta da una stilista australiana di origine libanese, Haeda Zanetti, resasi conto che le ragazze musulmane non frequentavano la spiaggia, un luogo di aggregazione importante per la cultura fondativa australiana.
Valeri prosegue raccontandoci che il nuovo indumento passa abbastanza inosservato finché non accadono due fatti di cronaca, quando nel 2005 un’aggressione ai danni di due bagnini australiani bianchi da parte di 8 ragazzi australiani di origine libanese si trasforma nel pretesto per una massiccia caccia all’uomo: una settimana dopo 5 mila persone si recano in spiaggia armati di spranghe per aggredire tutte le persone con tratti somatici mediorientali. Il fatto, sintomo di un profondo razzismo mai del tutto celato, sconvolge la coscienza australiana.
A quel punto, il governo supporta attivamente un’organizzazione no profit per facilitare processi di integrazione e contatta così Haeda Zanetti per promuovere l’uso del burkini che si diffonde sia tra le ragazze musulmane che cominciano così a frequentare la spiaggia il burkini sia da donne che volevano proteggere la pelle dai raggi UV, o portano le cicatrici di interventi chirurgici pregressi.
L’indumento esce dalle cronache fino al momento in cui alcuni comuni francesi, nel 2016, decidono di vietarlo in pubblico facendo riferimento ad una presunta laicità istituzionale, molto ideologica e che di fatto assume a tutti gli effetti le caratteristiche di una religione di stato.
La Francia mantiene tuttora il divieto dell’Hijab con ripercussioni sulle donne che praticano attività sportive, soprattutto le calciatrici. La peculiarità è che il divieto vale solo per le atlete di nazionalità francese. In occasione dei prossimi Giochi Olimpici del 2024, che si disputeranno proprio a Parigi, le atlete non francesi potranno scegliere di indossare l’hijab, quelle con la cittadinanza no.
A partire da questa discriminazione e che si manifesta sull’ennesima forma di controllo del corpo femminile, le atlete si stanno mobilitando in forme organizzate per rivendicare il loro diritto all’autodeterminazione, in quanto donne e in quanto sportive. Valeri conclude con una breve panoramica un caso italiano, dove il burkini non ha mai conosciuto una vera diffusione. Nel 2009, Gianluca Buonanno, allora sindaco leghista del piccolo comune di Varallo Valsesia, emanò pretestuosamente un’ordinanza che vietava il burkini sul territorio comunale, ma ad oggi nessuna multa è mai stata effettuata.
Prende parola Alba Nabulsi del collettivo “Falafel e Cultura” che si focalizza sulla condizione della donna all’interno delle dinamiche sportive e mettendo in relazione le questioni di genere nel mondo dello sport, a sua volta inquadrato in un contesto di apartheid e occupazione militare. All’interno delle definizioni identitarie di “popolo” e “nazione” il gioco sportivo – soprattutto quello calcistico – rappresenta un grande fattore di identificazione, non soltanto all’interno delle squadre in cui si gioca ma anche quando ci si confronta all’estero in occasioni di competizioni sportive.
In Palestina sono molte le celebrazioni di coloro che vengono definiti eroi nazionali, in diversi ambiti della società: dai poeti, agli atleti ai cantanti, fino al caso della giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa dalle forze israeliane. Tutte persone che hanno partecipato a forme resistenziali all’occupazione sionista. Molte sono le donne palestinesi elevate a eroine e, a dispetto delle dinamiche patriarcali che si sommano in una società tradizionale che vive sotto occupazione, le atlete donne diventano protagoniste nazionali, sventolando all’estero lo stendardo della Palestina. Con lo sport il corpo femminile, così represso e ridimensionato dal controllo sociale e dalle dinamiche dell’occupazione, riesce così a sfuggire. Tale cambiamento di prospettiva fa sì che le donne attraverso lo sport non vengano più rappresentate come vittime di una nazione perduta né come soggetti deboli e oppressi da una tradizione patriarcale antica.
Camilia Farah, anch’ella attivista del collettivo “Falafel e Cultura” racconta l’esperienza delle persone palestinesi che vivono nei territori della Palestina Storica occupati nel 1948.
L’apartheid per definizione implica trattamenti differenziati, anche nello sport. In generale è raro che un giocatore palestinese venga ingaggiato. Gli sportivi palestinesi con cittadinanza israeliana preferiscono andare all’estero anziché iscriversi ad una società sportiva israeliana, a causa del diffuso razzismo che dovrebbero subire e perché nelle società sportive palestinesi non riuscirebbero a raggiungere livelli agonistici elevati.
È questo il caso di una sua parente, ballerina professionista, che ha scelto di trasferirsi a Berlino. L’unico esempio degno di nota è rappresentato dall’Ihud Bnei Sakhnin, unica squadra palestinese a militare nella massima serie israeliana.
Il giornalista e commentatore sportivo Muhanned Qafesha è intervenuto da Hebron con un video. Nonostante abbia l’abbia richiesto per tempo, è ancora in attesa del visto israeliano per lasciare la Palestina: un’altra conseguenza dell’apartheid israeliana. Qafesha, impiegato in una tv sportiva nazionale palestinese, racconta di come lo sport sia utilizzato come strumento di resistenza contro l’occupazione.
La Nazionale palestinese ha partecipato per la prima volta alla Coppa d’Asia nel 2015 in Australia. Questo fu motivo per puntare l’attenzione a livello internazionale su come i giovani palestinesi che giocavano nelle leghe locali in Palestina soffrissero l’occupazione anche a livello sportivo. La causa palestinese in quel momento era sulla bocca di tutti in un momento in cui la politica aveva smesso di occuparsene. Il racconto del giornalista si sofferma su alcuni episodi chiave che ben dimostrano cosa significhi praticare sport in Palestina.
Tre anni fa il calciatore Sameh Maraaba è stato arrestato dagli israeliani e sottoposto alla detenzione amministrativa al rientro da un’amichevole disputata in Qatar. Anche agli arbitri palestinesi viene resa difficile la pratica sportiva, impedendo loro di raggiungere lo stadio, nonostante siano in possesso del permesso e dell’uniforme FIFA. Qafesha racconta che anche quando sono i soldati israeliani a lanciare lacrimogeni negli stadi, le ripercussioni ricadono poi sulle sedi delle società sportive palestinesi, che vengono occupate e perquisite. Anche il materiale sportivo che arriva dall’ estero in Palestina viene spesso confiscato dalle forze di occupazione israeliane.
Va inoltre ricordato che ci sono 6 squadre israeliane che provengono dagli insediamenti illegali presenti in West Bank che giocano in diverse leghe israeliane e la FIFA non ha ancora preso posizione. Allo stesso tempo i giocatori palestinesi vengono presi di mira, colpiti da armi da fuoco e uccisi. Alcuni anni fa, Mohammad Al-Qatri, un giocatore di 23 anni che giocava nella nazionale libanese di 23 anni è stato ucciso da uno sparo vicino Ramallah. Tre settimane fa Mohammad Ghnim di 20 anni che giocava con la squadra Al-Khadhr è stato ucciso dall’esercito israeliano vicino a Betlemme. Anche i centri sportivi e gli stadi palestinesi sono considerati un target, come a Gaza quando nel 2014 più di 35 sportivi sono stati uccisi durante un attacco aereo mentre lo stadio è stato completamente distrutto. Nonostante lo sport in Palestina continui ad essere attaccato duramente e a rappresentare a tutti gli effetti uno strumento con cui portare avanti l’apertheid, i palestinesi continuano ad usarlo come forma di resistenza anche per issare la bandiera durante le competizioni internazionali.
Lo sport è anche un modo per lavorare su sé stessi e concentrarsi sui propri obiettivi. E in un luogo come Gaza, anche questo diventa un atto di resistenza. La storia di Abdallah Al Qassab comincia proprio dalla più grande prigione a cielo aperto al mondo. Al Qassab ha 25 anni e pratica il parkour dal 2005. Ha iniziato in maniera un po’ pazza e incosciente, racconta, assieme ad alcuni amici con il quale ha fondato il Gaza Parkour Team. Hanno appreso le tecniche attraverso i video di youtube e una pratica costante. All’inizio non era facile trovare posti dove allenarsi. Quello che si prestava maggiormente era un cimitero che, per quanto strano, era l’unico posto a Gaza in cui il team si sentiva al sicuro. In questo sport tuttavia, la sicurezza non esiste e tutto il team, lui compreso, è andato incontro a diversi infortuni. Pur continuando a seguire gli insegnamenti di diversi maestri su internet, con il tempo sono riusciti a inventare e portare avanti una tecnica unica ed originale. Racconta che la guerra a Gaza del 2014 è iniziata sotto i suoi occhi mentre si allenava. La città ridotta in macerie era diventata una palestra in cui allenarsi e mostrare al mondo, attraverso nuovi video, le conseguenze drammatiche dell’aggressione israeliana. Il Gaza Parkour Team riuscì ad attirare l’attenzione di numerosi media internazionali, che vennero a Gaza per vedere le loro esibizioni tra le macerie. Cominciarono a ricevere inviti internazionali per partecipare a workshop e competizioni ma molto spesso Israele impediva loro di uscire da Gaza. Ora Al Qassab vive in Italia e continua a praticare il parkour ma al contempo continua a lottare per Gaza, il luogo in cui un giorno vuole tornare, da persona libera.
Anche Dawod Al-Taamari vive in Italia, dove è nato e dove ha ottenuto – a fatica – la cittadinanza. Nonostante questo e nonostante abbia trascorso solamente due settimane della sua vita a Betlemme, sua città di origine, non ha dubbi sulla propria identità palestinese.
Spesso in contrapposizione con la “vecchia guardia”, come la definisce lui, i Giovani Palestinesi vogliono cambiare le logiche che hanno sempre attraversato il movimento palestinese in Italia, sdoganandosi dagli ideali di partito che l’hanno sempre contraddistinto. E in quest’ottica anche lo sport diventa politica e strumento di resistenza. Quando si decide di lasciare fuori la politica dallo sport, come si sente invocare spesso, in realtà si sta mettendo in atto una precisa scelta politica, soprattutto quando si sta parlando di Palestina e si vuole cambiare lo status quo.
Riprendendo il filo di quanto detto da Qafesha, Dawod pone l’accento sull’effettiva sostanza della Nazionale calcistica palestinese, accettata dalla FIFA solo dopo anni. Una nazionale fantoccio che non rappresenta i palestinesi ma solo chi abita nei territori amministrati dall’autorità palestinese. Lui – con passaporto giordano e italiano – non potrebbe farne parte, così come non possono farne parte i 3 milioni e mezzo di palestinesi in Giordania, i 500 mila palestinesi nei campi profughi libanesi, completamente privi di documenti, o i 700 mila palestinesi in Siria. Chi riesce a intraprendere una carriera agonistica dovrà rappresentare una nazionale che non gli appartiene. È il caso di Ahmed, il suo vicino di casa che alle Olimpiadi di Rio del 2016 ha vinto la medaglia d’oro, contribuendo, tuttavia, ad accrescere il medagliere giordano.
A proposito di Olimpiadi, il comitato olimpico ha preso recentemente posizione contro l’occupazione russa in Ucraina, mai contro quella israeliana in Palestina. Altro racconto emblematico è ciò che è accaduto durante le ultime Olimpiadi di Tokio, quando Fathi Nourrine, campione di Judo algerino rifiuta di combattere contro un atleta israeliano. A fronte di questa azione gli arriva una squalifica per 10 anni: una carriera stroncata. I media riportano che Nourrine si è comportato in modo antisportivo e che la politica doveva restare fuori dallo sport. Ma anche questo fa parte del boicottaggio, ogni forma di resistenza incluso il boicottaggio va supportata. Il boicottaggio non è solo una prerogativa palestinese ma di tutti i solidali con la causa.
Per questo anche la campagna contro Puma va supportata e resa capillare. L’azienda sportiva ha infatti deciso di supportare l’Israel Football Association (IFA), l’organo che più di tutti rappresenta l’apartheid nello sport: su un campionato di 12 squadre sono ben 6 quelle provenienti dalle colonie. L’ennesima dimostrazione che lo sport è politica, anche quando si definisce “araba” e non “palestinese la squadra del Sakhnin, unica presente nel campionato di serie A israeliano. Non è un caso che quando proprio questa squadra ha vinto il campionato del 2004 la risonanza mediatica è stata pressoché assente.
Lo sport è politico a tal punto da arrivare alla Knesset israeliana. Il caso emblematico è il derby disputato tra il Sakhnin e il Beitlar Jerusalem, conosciuto per il gruppo ultrà La Familia, la tifoseria più razzista e sionista del paese che qualche anno fa ha rapito, picchiato e dato fuoco a un sedicenne. Mentre i tifosi palestinesi sventolavano le proprie bandiere, La Familia ha cominciato a intonare cori che invocavano la morte di tutti gli arabi. Come risposta, un membro del parlamento israeliano ha chiesto l’espulsione del Sakhnin dal campionato israeliano, in quanto i tifosi erano colpevoli di aver sventolato le bandiere palestinesi. Al-Taamari espone alcuni dati.
Dal 2007 a 2017 sono stati registrati 26 divieti di spostamento, 12 uccisi in bombardamenti, 11 morti sparati, 9 incarcerati e 9 gambizzati. La mutilazione è un aspetto su cui le forze di occupazione stanno investendo: i morti fanno rumore, è meglio renderli invalidi e rovinare loro la vita. Recentemente a un check point sono stati fermati due calciatori della nazionale palestinese di calcio: a uno hanno sparato a un ginocchio, all’altro a entrambi i piedi. Esistere, in Palestina, è un atto di resistenza. Ogni volta che un palestinese nega le proprie origini un sionista sta festeggiando. La soluzione a due stati non è una soluzione. Al-Taamari ha un sogno, quella di una Palestina libera e liberata, dove la libertà di movimento è garantita incondizionatamente, dove ogni palestinese ha il diritto di vedere il mare.
Un altro sogno è quello raccontato dalla giornalista e documentarista Flavia Cappellini che conclude via video l’incontro parlando del suo progetto nella striscia di Gaza dove ha potuto raccontare la storia del ciclista agonistico Alah, gambizzato dai cecchini israeliani in occasione della Marcia del ritorno. Nonostante la disabilità Alah continua ad allenarsi con il sogno di partecipare alle prossime paralimpiadi di Parigi, sebbene ottenere i permessi per farlo non sia affatto semplice. Flavia ne approfitta per lanciare il crowdfunding che permetterà alla squadra gazawa di ciclisti paralimpici di costruire un team ben strutturato ed allenarsi in maniera adeguata a partecipare alle prossime paralimpiadi.
Nessenzia chiude l’incontro proiettando il cortometraggio di Flavia Cappellini “Cycling Under Siege” invitando il pubblico a non smettere mai di parlare di Palestina.