Il capitalismo energetico si struttura non solo attraverso l’industria dei combustibili fossili, ma anche attraverso le energie rinnovabili. Il tanto decantato capitalismo verde va necessariamente posto sotto una lente critica sottolineando l’espropriazione, la devastazione e la colonizzazione che porta con sé.
I costi dello sfruttamento intensivo di una risorsa finita come i combustibili fossili richiedono conflitti e guerre per il controllo delle aree ricche di risorse e causano l’instabilità dei prezzi dell’energia, che pesano maggiormente sulle fasce più povere della popolazione. Inoltre, l’attuale sistema di produzione energetica è destinato al collasso e determinerà inevitabilmente il tracollo del pianeta in cui viviamo.
Se l’estrattivismo entra negli ultimi dieci anni nel linguaggio militante, come suggestione dall’America Latina, allo stesso tempo esistono progetti e megaprogetti lontani dalla nostra percezione, ma che devastano territori del Sud del mondo a favore dell’Occidente, senza curarsi dei danni provocati all’ambiente e ai popoli. Un male estremo della globalizzazione, una moderna e malcelata forma di colonizzazione.
Simone Ogno, di Re:common, ricorda come l’invasione dell’Ucraina ha fatto emergere con forza nel dibattito pubblico numerose questioni, alcune delle quali troppo spesso taciute da governi, multinazionali energetiche e gruppi finanziari, dal momento che la guerra stravolge di fatto la distribuzione e il trasporto energia nel resto del pianeta. Allo stesso tempo, anche se cambia il luogo di estrazione, permane la stessa dinamica quando le multinazionali energetiche proseguono nella propria violenza di estrazione di valore da corpi e territori.
Ad aggravare la situazione contribuisce la falsa soluzione dell’Europa di riconsiderare il nucleare, misure volte solo a risaldare la posizione delle multinazionali estrattive, e spostando ancora più in là la reale possibilità di una transizione che metta al centro corpi e territori.
In questo modo, possiamo notare come ci sia un ritorno dell’estrattivismo che mette insieme privato e pubblico, nella finanza e nelle istituzioni, nei governi determinando che il privato chieda la garanzia dei propri investimenti agli stati.
In questa cornice, anche il modello di transizione green che il potere propone ricalca gli stessi dettami del capitalismo. Una “ecologizzazione” del capitalismo, pur volendo porre in secondo piano la questione della sua fattibilità, non smantellerà le strutture neocoloniali sorte all’indomani del colonialismo, e ormai fortemente radicate nel nostro paesaggio geopolitico, che fanno degli Stati del Nord del mondo il suo principale beneficiario. Probabilmente si continueranno a ignorare i diritti umani in favore del business, ma la giustizia climatica chiede una battaglia per il futuro di tutta l’umanità, e non solo di chi gode e vive nel privilegio.
C’è una relazione fortissima fra il tema ambientale e le disuguaglianze sociali. La crisi climatica si interseca con esse, l’ambiente ha una correlazione stretta con i conflitti, con le situazioni di instabilità politica, con le persecuzioni, con le migrazioni: riguarda tutti, in particolare le persone più vulnerabili che, in ragione del loro tenore di vita, hanno minori possibilità di compiere delle scelte precise, ad iniziare da quella di vivere in un luogo in cui sia garantita la piena salubrità. Il legame fra ambiente e sociale è inscindibile.
La disuguaglianza pervade molti ambiti della nostra vita quotidiana. Se la disuguaglianza economica è forse quella più percepita dall’opinione pubblica, vi sono anche forme di disuguaglianza di cui si è meno consapevoli ma i cui effetti riguardano tutti.
La causa è da rintracciare in un sistema economico che basa la sua crescita in larga misura su attività estrattive e lo sfruttamento dell’ambiente circostante, senza minimamente preoccuparsi di contabilizzare i costi ad essi associati. Si parte dal presupposto totalmente errato che le risorse del nostro pianeta siano inesauribili. Da oltre quarant’anni la domanda di risorse naturali da destinare alle attività umane è superiore alla capacità rigenerativa del pianeta.
Come è possibile che ancora oggi i costi ambientali non compaiano tra i profitti e le perdite di un’impresa o nel PIL di un Paese? Come è possibile arrivare alla mercificazione di beni come terra e acqua? Eppure, preservare il pianeta dovrebbe essere un criterio fondante per la definizione di qualsiasi politica che guardi al benessere delle generazioni presenti e future.
Il 70% energia consumata nelle famiglie si suddivide fra automobili e riscaldamento, usare questa energia si alimenta la filiera estrattivista. L’unico modo per evitare di finanziarla sarebbe quella di non comprare e consumare tale combustibile. A fronte dell’impossibilità di un cambio cos radicale nel breve periodo, un buon punto di partenza potrebbe essere conoscere la reale provenienza dell’energia che si usa: sapere dove e quanta ne viene prodotta e quali sono gli esuberi di produzione che non vengono usati.
Dalla pandemia alla guerra in Ucraina, crescono i prezzi degli alimentari, dell’energia elettrica, del gas, della benzina, lievita davvero tutto, a cominciare dal pane. I prezzi raddoppiano, gli stipendi no. Le famiglie arrancano.
In questo quadro e contingenze storiche, tra la guerra in Ucraina e il primo, tangibile e drammatico segno del surriscaldamento globale del clima, hanno portato a riflettere innanzitutto sulla risparmio energetico, sull’efficientamento e sulle decisive spinte necessarie alla svolta sulle fonti rinnovabili, tanto dal punto di vista ambientale quanto su quello sociale ed economico.
Una nuova concezione dell’energia, fondata sui principi del benessere e dell’uguaglianza sociale, nel rispetto dei sistemi ecologici che abitiamo, è necessaria e urgente per affrontare la crisi climatica.
Ripensare il nostro rapporto produttivo e di consumo con l’energia, considerare l’energia come una ricchezza comune e delineare le prospettive della democrazia energetica è un passo fondamentale per avviare una radicale transizione ecologica dal basso.
** Pic Credit: Nicole Cascone