La mancanza di precipitazioni dello scorso inverno ha fatto scattare l’allarme siccità in tutta l’Europa meridionale. Sul 46% del territorio europeo c’è il rischio che la carenza idrica e la scarsa umidità del suolo aggravino ulteriormente la situazione nei prossimi tre mesi. L’Italia è tra i paesi più colpiti e il governo ha decretato lo stato di emergenza per cinque regioni. C’è un unico comune denominatore, ossia che la situazione locale è legata a quella globale: in ogni area geografica, dal Sud America, all’Africa e al Medio Oriente, la lotta per l’acqua è una lotta per la vita.
La siccità è solo uno degli effetti della crisi climatica, aggravata dal lasciapassare a multinazionali e industrie di espropriare e inquinare intere falde acquifere per i loro profitti, con la complicità delle istituzioni, minacciando – inoltre – l’accesso all’acqua pulita per intere popolazioni ed ecosistemi.
Nel 2011, in Italia, 27 milioni di persone hanno votato perché questa risorsa rimanesse pubblica, eppure anche quest’anno, a undici anni da quel referendum, ci si è trovati davanti all’ennesimo tentativo di privatizzazione dell’acqua: il DDL Concorrenza.
Se diciamo che l’accesso all’acqua deve essere un diritto garantito, al di fuori delle logiche di mercato, allo stesso tempo il referendum è stato boicottato da tutti i governi che si sono succeduti e dalle stesse amministrazioni locali.
E in questa torrida estate, che non accenna a rinfrescarsi, ci proiettiamo almeno fino a settembre a fare i conti con “condizioni meteo profondamente più secche della norma”.
L’Italia presenta un’ampia varietà climatica sul territorio, la Pianura Padana corre lungo il 45esimo parallelo, che si posiziona a metà fra Equatore e Polo Nord, definendosi così come area di “confine climatico”, un confine bilanciato poiché lo “scontro fra sistemi atmosferici polari e equatoriali” ha garantito comunque un equilibrio per secoli grazie all’anticiclone delle Azzorre. Così interviene in questo focus Roberto Mezzalama – climatologo – che continua spiegando come il cambiamento epocale del clima negli ultimi dieci anni abbia messo in crisi questo equilibrio.
Il 2022 è stato caratterizzato da un inverno caldo con scarsissime precipitazioni, con un’estate particolarmente secca mutilata dalla mancanza dei classici temporali estivi. Si tratta di una sequenza di eventi che è associata ad altissime temperature – non registrate nemmeno nella tragica estate del 2003, caratterizzata da un’ondata di calore che ha causato 70mila morti – e ha portato ad un deficit idrico che si aggira attorno al 70% solo nel nord-ovest.
Non c’è acqua, il territorio si inaridisce e la vegetazione soffre: succede così che gli ecosistemi si trasformano con un portato di conseguenze che non sono positive.
Il 60% dell’acqua dolce, in Europa, viene impiegata nella zootecnica (negli allevamenti e per le coltivazioni che servono per i mangimi); parliamo di produzioni – quelle degli allevamenti intensivi – che consumano troppe risorse, che occupano i 2/3 dei terreni agricoli diventando dirimenti nell’influenzare e modellare l’intero settore produttivo. Dal consumo diretto di acqua degli animali, all’acqua utilizzata per annaffiare le colture destinate a diventare mangime, l’allevamento è il settore che richiede la più grande quantità di acqua.
A questo si aggiunge, come ricorda Simona Savini di Greenpeace, che questo sistema di produzione si lega a doppio filo con la guerra in Ucraina, uno dei principali esportatori di mais come mangime a livello globale.
L’Ucraina, sottolinea la Coldiretti, è uno dei principali produttori ed esportatori e nel mondo esporta il 10% del frumento tenero destinato alla panificazione per un totale di oltre 18 milioni di tonnellate ma anche il 15% del mais per oltre 27 milioni di tonnellate.
Il blocco primaverile delle spedizioni dai porti del Mar Nero a causa dell’invasione russa ha decretato l’aumento dei prezzi del grano, una situazione che nei paesi ricchi genera inflazione e mancanza di alcuni prodotti ma in quelli poveri allarga l’area dell’indigenza alimentare.
Allo spreco dell’acqua va aggiunta la questione dell’inquinamento idrico: quello per via diretta, che avviene quando vengono riversate direttamente nei corsi d’acqua e nei mari sostanze inquinanti senza alcun trattamento di depurazione. La via indiretta, invece, si ha quando le sostanze inquinanti arrivano negli ambienti acquatici tramite l’aria o il suolo.
Un esempio regionale in questo senso è la Solvay, ad Alessandria, che sorge sulla seconda falda del Piemonte, fondamentale per la filiera agricola della zona.
Queste produzioni del settore della chimica hanno enorme fabbisogno idrico, e dunque spesso sorgono su grandi accessi alle acque, che finiscono poi per inquinare.
Solvay Sorge è uno stabilimento già precedentemente condannato per inquinamento legato al cromo esavalente, possessore di tubature obsolete con perdite che continuano a inquinare costantemente il territorio, le acque superficiali inquinate da Solvay finiscono nella Bormida, affluente del Po. Diventa così – come spiega bene Viola Cereda, del Comitato Stop Solvay – non un problema locale ma nazionale, esattamente come l’incidenza di malattie, soprattutto tumori, delle persone che sono oggetto di questo tipo di inquinamento.
Solvay è l’ennesimo esempio di come le logiche di mercato prevalgono sulla salute della popolazione e del territorio, ed anche le istituzioni contribuiscono a tali esiti drammatici.
Il vero tema però si riduce alla gestione dell’acqua, alla tutela delle popolazioni che la utilizzano, oltre le logiche di mercato.
Davanti al referendum tradito del 2011, bisogna riaprire una riflessione su come si possa operare verso una gestione pubblica dell’acqua, una discussione sul significato di acqua come bene comune, che altro non è che una risorsa naturale di proprietà di nessuno, che deve essere però gestita collettivamente in base alle necessità delle comunità.
Molte società di gestione delle acque sono sì società pubbliche, ma SPA, gestite quindi a scopo di lucro. E qui si mostra tutta la contraddizione di una gestione fintamente pubblica.
Stessa logica che permette allo stabilimento della Coca Cola di Nogara, di estrarre quasi un miliardo e mezzo di litri d’acqua all’anno dalla vicina falda a un prezzo poco più che gratuito, guadagnando milioni che, grazie a un sistema di holding, vanno tutti in paradisi fiscali. Basti pensare che il prezzo a metro cubo pagato dalla multinazionale è di circa 1 centesimo, mentre il costo medio dell’acqua per l’utilizzo domestico è di circa 1 euro e 37 centesimi a metro cubo.
Questo stabilimento è uno dei più limpidi esempi di estrattivismo nel nostro Paese. La fabbrica – già nota per condizioni di sfruttamento e precarietà a cui sono sottoposti i lavoratori – si avvale di concessioni che la stessa regione non ha mai voluto rinegoziare: meno di due anni fa un decreto del direttore della Direzione Ambiente escludeva addirittura l’azienda dalla procedura di V.I.A., rinnovando a tempo indeterminato l’uso delle derivazioni di acque sotterranee. La Coca Cola continua a estrarre, sfruttare, produrre e incassare – dice Niccolò Onesto di Rise Up 4 Climate Justice nel suo intervento in cui ricorda la mobilitazione proprio ai cancelli dello stabilimento di Nogara e rilancia verso l’appuntamento settembrino con la terza edizione del Venice Climate Camp, che si terrà al Lido di Venezia dal 7 all’11 settembre.
** Pic Credit: Gabriele Spera