Non è il primo e purtroppo non sarà l’ultimo. A Civitanova Marche Alika Ogorchukwu, venditore ambulante nigeriano di 39 anni, marito e padre di un figlio di 8 anni, è stato ammazzato di botte da un 32enne italiano, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo. Secondo la ricostruzione Ferlazzo avrebbe usato anche la stampella di Ogorchukwu per colpire ripetutamente l’uomo.
L’omicidio è stato ripreso in “diretta” da diversi passanti che si sono ben guardati dall’intervenire per fermare il pestaggio limitandosi a gridare qualche parola, del tutto inutile, contro l’aggressore.
Omicidio razzista di #civitanovamarche. Un tizio italiano ha ucciso un disabile nigeriano.
Questo è il video dell’inizio.
C’èra chi commentava, c’era chi filmava con il telefonino, ma non c’era chi ha aiutava la vittima.
Che è stata uccisa davanti a tutti. pic.twitter.com/2GCt12fMLY— Sarita (@Sarita_Libre) July 29, 2022
Il movente, se così si può chiamare, secondo l’omicida, sarebbe una molestia verbale nei confronti della donna che passeggiava con Ferlazzo.
Questa la nuda cronaca che quest’oggi possiamo ritrovare più o meno su tutte le prime pagine dei giornali, accompagnata nelle versioni web dal video del vigliacco pestaggio nei confronti di Ogorchukwu. E’ invece del tutto assente una riflessione che vada oltre alla cronaca, dichiarando che in Italia c’è un problema serio.
Non è accettabile continuare a minimizzare la situazione: occorre dire che si è trattato di un omicidio razziale perché la violenza che muove l’aggressore è una miscela spietata di odio, classismo e mascolinità tossica che è propria di un’ideologia suprematista.
Occorre sottolineare che questo omicidio razziale è una diretta conseguenza di troppi anni in cui politici, opinionisti, media hanno quotidianamente alimentato e normalizzato forme violente di linguaggio razzista e diversi episodi di razzismo, dapprima identificando (o lasciando identificare) il nero, il migrante, lo straniero, il clandestino, il venditore ambulante come un nemico da cui difendersi e poi, quando qualcuno dalle parole passava ai fatti, omettendo la matrice razzista del gesto oppure derubricando la violenza xenofoba come il gesto di un singolo folle.
È già successo a Macerata con la tentata strage compiuta dal militante leghista Luca Traini che un tipo di narrazione virasse sul “gesto del folle”, oppure a Fermo sempre nelle Marche con il dimenticato omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, un richiedente asilo nigeriano ucciso con un paletto stradale da Amedeo Mancini estimatore di Casa Pound e del movimento 5 Stelle.
A Voghera, addirittura, l’assessore alla sicurezza della Lega Massimo Adriatici e i vertici nazionali sono riusciti nell’intento di giustificare il colpo sparato dal leghista contro il cittadino marocchino Meardi Youns El Boussettaoui, che ne ha causato la morte, come legittima difesa.
Perfino la procura a Firenze non ha considerato la matrice razziale dell’assassinio del senegalese Idy Diene, unica persona colpita sul ponte Amerigo Vespucci da 6 proiettili sparati da Roberto Pirrone.
Ma come lo spietato omicidio di Willy Monteiro Duarte, è purtroppo molto lunga la scia di sangue e di violenza che il razzismo strutturale ha provocato in questi anni in Italia[1]. Solo che la verità raccontata è un’altra e si basa su colpevole disonestà intellettuale e giustificazionismo.
Abbiamo un serio problema con la propaganda sull’immigrazione che si amplifica in ogni campagna elettorale e che alimenta xenofobia e razzismo, e su come questa riesca a fare presa su uomini bianchi cresciuti in contesti di mascolinità tossica e odio. È tempo e ora di tornare ad affrontarlo e contrastarlo con tutti i mezzi necessari, dalle scuole, ai luoghi di lavoro, alle istituzioni, fino alle piazze.