«Wasteocene è soltanto uno dei molti (troppi) -cene alternativi adottati dagli studiosi più radicali per stimolare un discorso maggiormente critico sull’Antropocene, le sue vicende e i suoi racconti» scrive Marco Armiero con l’umiltà tipica di chi non ha bisogno di impressionare per esporre i suoi concetti. In realtà, L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale è qualcosa di molto di più di un -cene alternativo o di un libro che parla di “rifiuti”, ma è una disamina rigorosa e appassionante di una delle facce più evidenti e allo stesso tempo più oscure del capitalismo contemporaneo: la sua capacità di creare spazi e comunità di scarto per riprodursi.
Ma veniamo alla critica al concetto di Antropocene, che è il punto su cui si regge l’impianto iniziale del libro. L’autore parte – anzi ritorna, per citare letteralmente il paragrafo che apre l’opera – da Cuernavaca, ossia la città messicana dove Paul Cruntzen, premio Nobel per la chimica nel 1995, pronuncia per la prima volta il termine “Antropocene”, per definire la prima era geologica nella quale le attività umane sono state in grado di influenzare l’ambiente e alterarne gli equilibri. Quello non è solo l’inizio delle fortune di un termine diventato in breve tempo tra i più popolari del nuovo millennio, ma anche un profondo cambio di prospettiva sulla questione climatico-ambientale. Un cambio che ha influenzato gran parte della comunità scientifica, ma anche il mondo del giornalismo, dell’attivismo e – in parte – anche della politica istituzionale.
Perché allora criticare questo termine? Armiero si rifà a una letteratura molto prolifica nell’ultimo decennio – Rob Nixon, Dipesh Chakrabarty, Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, Andreas Malm, Jason W. Moore – che in varie forme ha evidenziato quale fosse il “punto cieco” della narrazione antropocenica, ossia l’invisibilizzazione delle diseguaglianze di classe, razza e genere che hanno prodotto la crisi ecologica nel cambio di era. Moore in particolare è stato in grado di trovare un’importante sintesi a questa critica, coniando a sua volta il termine “Capitalocene”, inteso come modo di organizzare la natura da parte del capitalismo che trae origine dalla scoperta delle Americhe e dalla inevitabile ascesa di una civiltà fondatasi sulla mercificazione infinita degli esseri umani, non umani e della natura (la rete della vita)[1].
Armiero, per sua stessa ammissione, deve tanto all’intuizione di Moore, al punto di scrivere che il Wasteocene può essere compreso nel più ampio concetto di Capitalocene come «una delle svariate manifestazioni delle ecologie capitaliste che stanno producendo la crisi contemporanea» (p.20). Allo stesso tempo riesce a dare una prospettiva molto originale e convincente, basata sull’idea che l’insieme delle relazioni socio-ecologiche che creano persone e luoghi di scarto (wasting relationship) sia una delle componenti fondative del capitalismo contemporaneo, tanto nei meccanismi di accumulazione quanto nella sua intrinseca capacità di riprodursi attraverso le diseguaglianze che crea.
L’era degli scarti è dunque un libro che parla di classe,nel momento in cui attribuisce all’atto di scartare un valore che si ripercuote direttamente sull’organizzazione economico-sociale della comunità di riferimento; persone “di scarto”, che abitano in luoghi “di scarto” e che comunque rientrano a pieno titolo nei meccanismi della vita messa a lavoro tipici della post-modernità capitalista. Parla di colonialismo e razzializzazione, perché le wasting relationship contengono quelle pratiche di “alterizzazione” (la cosiddetta “produzione di othering”) che sono al centro dell’idea coloniale di mondo. Parla di corpi subalterni intesi come spazi di oppressione e liberazione, nel momento in cui il Wasteocene «è incorporato, è fatto di carne, sangue e tossicità» (p. 23).
Da storico, Marco Armiero non poteva lasciare inevaso il tema della memoria collettiva, il cui ruolo è stato chiaro soprattutto a chi detiene il potere. È una memoria “addomesticata” quella a cui viene dato rilievo nel secondo capitolo del libro (Storie del Wasteocene), fatta di racconti scartati e veri e propri processi di rimozione fatti dall’alto. Una selezione fatta in nome e per conto di una “narrazione del padrone”, come scrive Armiero citando Stefania Barca (p. 34), funzionale a uno storytelling in cui non c’è spazio per la violenza del Wasteocene.
È il caso del Vajont e del cimitero dove erano sepolte le vittime della strage, che nel 2003 l’amministrazione comunale decide di radere al suolo e di sostituire con un monumento alla memoria. Un’operazione che cancella quella parte di memoria viva che era ancora colma di rabbia, lasciando spazio all’anonima tristezza di alcuni blocchi di marmo. In poche parole: nascondere, normalizzare l’ingiustizia, rimuovere i saperi e le esperienze che possano in qualche modo mettere in rilievo le ingiustizie subite (p. 40). Ed è proprio per sovvertire queste narrazioni che la lotta dentro e contro il Wasteocene deve essere combattuta anche a colpi di “guerriglia narrativa” che sappia «svelare e smantellare la logica fondata sullo scarto» (p. 43[2]).
Dal piano globale a quello territoriale, il Wasteocene prende forma in tutta la sua complessità. Il terzo capitolo (Il Wasteocene al microscopio) si concentra sull’esperienza campana, e napoletana in particolare. In questo caso l’autore veste i tripli panni di studioso, di attivista e di nativo di una Napoli che nell’immaginario globale rappresenta uno dei paradigmi di uno spazio fisico, ma soprattutto culturale e sociale, dominato dai rifiuti. Ma è proprio nel “far west dei rifiuti” – emerso ufficialmente nel 1994, ma con radici che affondano nel tormentato passato dell’area metropolitana partenopea, che si afferma una delle esperienze di movimentazione sociale più importanti degli ultimi decenni. Dalla rivolta di Pianura nel 2008, vera e propria “epifania del Wasteocene”, alla costituzione di Stop Biocidio emerge un mosaico di racconti nei quali tanto il dramma quanto la rabbia divengono componenti fondamentali per un processo di soggettivazione politica vasto e profondo.
Ed è qui che emerge l’ambivalenza del Wasteocene, nel momento in cui si instaura una dialettica tra le ingiustizie che continuamente si producono e riproducono e i germogli di alternative sistemiche, di pratiche del comune che l’autore definisce commoning, ossia «l’insieme delle pratiche socio-ecologiche che (ri)producono i commons, trasformandoli da cosa in pratiche collettive» (p. 25). In questo aspetto Armiero mutua l’idea di Toni Negri e Michael Hardt secondo la quale i commons siano non solo la materialità di ciò che si condivide, ma anche l’infrastruttura politica e sociale che ci consente di condividerli. Non c’è quindi commoning senza conflitto aperto, senza comunità che si organizzano, resistano e tentano di ribaltare quei rapporti di forza entro cui il Wasteocene li opprime. A questo l’autore dedica l’ultimo capitolo, intitolato in modo molto evocativo “Sabotare il Wasteocene”, che offre un’interessante cartografia di lotte, sicuramente incompleta ma efficace per cogliere i possibili punti di rottura in questo regime socio-ecologico intriso di tossicità.
In un libro così denso, non poteva mancare un riferimento al Covid-19, che l’autore definisce un altro esempio di “epifania del Wasteocene”, uno dei «momenti rivelatori che aprono una frattura nella struttura normalizzante del Wasteocene portando alla luce l’altro lato della sua linea di separazione» (p. 99). Nello svelare le fragilità della “normalità capitalista”, la pandemia ha in parte assottigliato quel muro che divide le vite che valgono dalle comunità di scarto. Facendo combaciare quest’analisi con quella fatta da Malm a proposito della “seconda contraddizione” del capitalismo di O’Connor[3], potremmo dire che il capitalismo ha talmente spremuto lavoro e natura da debilitare fortemente le sue stesse condizioni di riproduzione; e la pandemia è il primo di una lunga serie di episodi in cui questa cosa si determina in modo visibile e compiuto.
Allo stesso tempo, gli effetti del Covid-19 non sono stati uguali per tutti, con una distribuzione in termini di morti, costi sanitari e costi sociali che ha invece amplificato la subalternità delle vite e dei luoghi di scarto. I primi studi sociali della pandemia hanno ad esempio evidenziato che negli Stati Uniti i tassi di mortalità tra le minoranze etniche (in particolare afro-americani, latinoamericani e nativi) siano di gran lunga superiori alla media[4].
Ed è proprio in questa (ennesima) ambivalenza del Wasteocene che si sono incuneate le esperienze di mutualismo che conosciamo bene, secondo Armiero capace di dare vita a pratiche di commoning che nel tentare di riprodurre risorse e comunità hanno cercato di smantellare il progetto alterizzante delle wasting relationship (p. 82). L’autore cita l’esperienza milanese delle Brigate, ma si potrebbero fare centinaia di altri esempi disseminati in Italia e nel resto del mondo. Progetti che probabilmente nella fase post-pandemica non hanno espresso a pieno il potenziale politico che contenevano, ma che rimangono esempi di attivazione dal basso importanti e replicabili.
In conclusione, il libro di Marco Armiero ha numerosi pregi. Come è ormai prassi per gli autori più radicali che abitano il variegato mondo dell’ecologia politica (si pensi al già citato Malm, a Razmig Keucheyan, ma anche ad Emanuele Leonardi), anche in questo caso non ci si ferma alla pura elaborazione teorica, ma si offrono strumenti strategico-politici, si mette realmente nelle mani dei movimenti quella “cassetta degli attrezzi” di gramsciana memoria. Probabilmente, il maggior credito che acquisisce l’autore è quello di insistere molto sulla politicizzazione della crisi ecologica, sul superare completamente l’approccio unicamente tecnico e scientista e anche l’incombenza di dover per forza “trovare soluzioni”. Armiero cita molto spesso Naomi Klein ed è proprio a lei che deve l’idea che esiste una relazione strettissima tra la ricerca di soluzioni e cultura dell’emergenza nella prassi politica contemporanea. Forse, come movimenti, dobbiamo imparare a eccedere questa prassi, a ragionare su categorie di complessità che implicano innanzitutto il ribaltamento dei rapporti di classe e di potere per mutare il ciclo storico della crisi ecologica.