Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 1

di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.» (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)

Genealogia di un concetto

Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note il ricorso al parlamentarismo, sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista, ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne.

Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo Estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”, tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”.

Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo, a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo, ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento, poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta.

Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin, tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed è esattamente da ciò che occorre partire.

Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica1.

Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuali di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi, oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto.

Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono, e né possono esserlo, una classe storica2.

A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico–politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone3. Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio, a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri4.

In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale5. Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva6, ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso7. In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione.

Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto”8 del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite.

Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole9.

Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali10. Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle11 all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitro tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana12. Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità.

La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato13.

Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra14 viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare15. L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras16, in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato.

Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione, attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista.

Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato, per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia, si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”17, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista18. Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini19.

(fine prima parte – continua)

  • Nel Novecento l’interesse nei confronti degli ambiti dell’esclusione e della marginalità è stato un tema particolarmente coltivato dalla sociologia nordamericana e in particolare dalla “scuola etnografica” di Chicago, al proposito di veda R. Rauty, Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1995. Questo non è un caso poiché la presenza non secondaria di immigrati, estranei al ceppo bianco, protestante e anglosassone dominante negli USA, forniva al fenomeno dell’esclusione sociale e della marginalità numeri e consistenze di gran lunga superiori, e quindi socialmente interessanti, rispetto alle società europee la cui costituzione e formazione poggiava su delle popolazioni maggiormente omogenee. Inoltre, proprio nel Novecento statunitense, era presente un fenomeno come quello di una classe operaia mobile e flessibile che rappresentava un problema sociale e politico, molti di questi lavoratori erano infatti legati agli IWW, al proposito si veda F. Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, Odradek, Roma 2004 ma anche, benché collocato in una panoramica temporale più ampia, J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 1999, che doveva essere affrontato non solo in termini di ordine pubblico ma anche analizzati da un punto di vista sociale e culturale. Proprio intorno a questa figura sociale, non per caso, è stata costruita una delle opere di maggior rilievo della “scuola di Chicago”, N. Anderson, Hobo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 1996. Un insieme di lavori che, pur assumendo il conflitto come parte costitutiva della vita sociale, ne perimetravano gli effetti dentro una cornice puramente antropologica e culturale glissando bellamente sulla sua dimensione politica. Sotto il profilo politico, invece, la questione dell’esclusione sociale è stata posta come semplice problema di governance delimitata agli ambiti della povertà. Al proposito si veda: G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998  

  • Sul concetto di classe storica si veda in particolare G. Lukács, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973  

  • Oltre allo scontato riferimento al famoso passaggio hegeliano, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973 si vedano al proposito le argomentazioni weberiane, M. Weber, Economia e società, Vol. II, Edizioni di Comunità, Torino 1995, in relazione ai vincoli che legano, in un abbraccio mortale, servo e padrone nelle società preindustriali. Vincolo che, in ogni caso, è determinato da un determinato modo di produzione. Solo la rivoluzione industriale, l’avvento dell’economia monetaria e la relazione capitale lavoro salariato hanno sciolto i vincoli propri di un’era dominata, indipendentemente dall’odio o dall’amore che legava le parti, dalla gabbia del rapporto comunitario.  

  • Significativa, al proposito, è l’alleanza tra proletariato e contadini poveri inaugurata, in quanto forma di governo, nel corso della rivoluzione russa. Il partito bolscevico, al fine di mantenere il potere dei soviet, cerca l’alleanza con una classe sociale che, in virtù della postazione che occupa dentro il ciclo produttivo, è classe economica e sociale a tutti gli effetti mentre del tutto inessenziali risultano, ancorché quantitativamente non irrilevanti, le masse impoverite presenti soprattutto nelle città. Ciò che diventa decisivo, per stipulare una politica di alleanza, è il ruolo e la funzione produttiva che una classe sociale è in grado di vantare ed esercitare. L’estraneità dei poveri al mondo delle produzione li rende, obiettivamente, privi di potere contrattuale nei confronti di qualunque forma di governo. Sull’alleanza del proletariato con i contadini poveri si veda, V. I. Lenin, “Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III Congresso dell’Internazionale Comunista”, in Id., Opere, Vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967; “La Nuova Politica Economica e i compiti dei Centri di educazione politica. Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia”, in Id., Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  • Cfr. G. Simmel, “Il povero”, in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989.  

  • K. Marx, “Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva”, in Id., Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1994  

  • Il mondo dell’esclusione sociale e della marginalità, pertanto, raccoglie in maniera indistinta resti e frattaglie di ambiti sociali che hanno perso qualunque tipo di identità. Il nobile decaduto, il commerciante fallito, il disoccupato cronico al pari del contadino sradicato e così via diventano le figure abituali dei mondi dell’esclusione. Ciò che li unisce, oltre a un comune risentimento nei confronti del mondo, è la perdita di ogni prospettiva storica. L’unico tempo in cui diventa possibile abitare è il presente mentre del tutto assente diventa la dimensione del tempo storico. Con ogni probabilità chi ha colto con maggiore lucidità il rapporto tra proletariato e tempo storico è stato Paul Nizan in I cani da guardia, La Nuova Italia, Firenze 1970.  

  • Un’espressione che, nel presente, nei confronti soprattutto delle masse migranti ha conosciuto una certa notorietà, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma – Bari 2005. Si tratta, almeno questa è l’opinione di chi scrive, di un ipotesi decisamente fuorviante poiché, a differenza dei miserabili di Hugo, a tutti gli effetti scarti delle ere passate, le masse migranti attuali più che a una storia di ieri rimandano a una storia di un futuro divenuto in gran parte già presente. Queste, infatti, prefigurano al meglio la condizione proletaria media e necessaria a cui l’attuale modello di produzione capitalista aspira. Ben distanti dall’essere scarti queste rappresentano il corpo operaio massimamente produttivo e, grazie alle pratiche e ai dispositivi di segregazione, maggiormente docile. La loro salvezza ed emancipazione non sta in un “nuovo umanesimo” del quale l’intellighenzia progressista si fa paladina bensì nella loro organizzazione politica autonoma su basi classiste. Così come mai la merce sfamerà l’uomo, mai il culturalismo emanciperà i nuovi dannati delle metropoli.  

  • Le vicende tedesche tra le due guerre, cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, sotto tale profilo ne rappresentano una più che significativa esemplificazione. Il problema che queste masse ponevano alle organizzazioni proletarie e di classe non è sfuggito al movimento comunista internazionale che, proprio nella Germania weimariana, si mostrò in tutta la sua complessità dando vita a un dibattito quanto mai vivo e intenso tra le menti più lucide e attente del movimento comunista internazionale. Una buona ricostruzione del dibattito che attraversò per intero il KPD e l’Internazionale comunista è reperibile nei capitoli che formano la seconda parte del testo di E. H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno 1923 – 1924, Einaudi, Torino 1965.  

  • M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000.  

  • Al proposito si vedano M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992; Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004  

  • Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988  

  • Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998  

  • Per una buona discussione di questo tema si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009  

  • Rispetto al passato, oggi, le nazioni più ricche e potenti si pongono il problema del controllo e della limitazione delle nascite invece che del loro incremento esponenziale. Non è secondario notare come, nelle società contemporanee, il grado di ricchezza, forza e potenza, avendo a mente come parametro la popolazione, sia dato dalla longevità piuttosto che dal numero delle nascite.  

  • Cfr. AA. VV., Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, La casa Usher, Firenze 2010  

  • K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.  

  • Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.  

  • Mentre la borghesia, nei confronti delle classi aristocratiche, aveva potuto svilupparsi in maniera indipendente da queste tanto che, nel momento in cui decapita l’antico regime, la sua presa sul mondo, in senso economico, sociale e amministrativo può vantare uno stadio più che avanzato, paradigmatico al proposito il noto libello di E – J Sieyès, Che cos’è il terzo stato? Editori Riuniti, Roma 1992 nonché il classico, A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1990, per cui la “rivoluzione politica” diventa l’atto conclusivo di un processo che, sul piano economico e sociale, aveva conosciuto una lunga gestazione nel corso della quale, le vecchie classi dominanti, avevano potuto “ignorare” la borghesia e considerarla come ceto sociale di grado inferiore, la natura del modo di produzione capitalista obbliga a una relazione di natura completamente diversa. Il proletariato, infatti, non è esterno ed estraneo alla borghesia poiché, in veste di capitale variabile, è la vera fonte del plusvalore. Non per caso, mentre l’estinzione delle classi nobiliari spalancano le porte al dominio della borghesia, il proletariato emancipandosi, ossia negandosi come classe, decreta la morte del modo di produzione capitalista e della borghesia.  

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