Il workshop proposto da Melting Pot Europa e il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino ha posto la libertà di movimento come rivendicazione necessaria nella lotta per la giustizia climatica e sociale. Si è parlato soprattutto di come poter unire lotte che a volte sembrano non parlarsi eppure si oppongono a uno stesso modello, che si manifesta in diversi spazi e forme ma con gli stessi meccanismi di dominio, gerarchizzazione e sfruttamento. Infatti, oggi i confini d’Europa sono un luogo esemplare di espressione brutale di questi meccanismi, come testimoniato dall’estremo livello di violenza e dalla sospensione sistemica dello stato di diritto. Le frontiere quindi posso essere pensate come zone di sacrificio, estendendo un concetto solitamente ristretto al dibattito ambientale, prodotte dallo stesso sistema di morte che antepone il profitto alle nostre vite e sacrifica corpi, terre ed ecosistemi.
Dopo aver affrontato il tema dell’intersezionalità, si è passatə a descrivere più nel dettaglio le politiche europee di militarizzazione ed esternalizzazione delle frontiere, in particolare focalizzandosi sul contesto balcanico. Si è definito cosa si intende per respingimento (push-back) e si è delineato il crescente ruolo di Frontex nel coordinare le polizie di frontiera non solo europee ma anche dei paesi esterni, nonché quello delle grandi aziende (vedi Leonardo) che fanno profitti nella vendita di dispositivi militari e di controllo ad alta tecnologia. È stata approfondita l’evoluzione delle tecniche di controllo, basate ora non solo su droni e sensori ma anche sulla raccolta di dati biometrici, fotografie e informazioni personali prese dai social – secondo un disegno di efficientamento e integrazione delle banche dati europee, prima frammentate tra i singoli stati e le diverse agenzie. Le informazioni più tecniche sono state collegate alla narrazione delle storie incontrate e delle esperienze vissute, dando corpo e soggettività a nozioni che altrimenti rischiano di rimanere statistica.
Il workshop è proseguito analizzando la molteplicità del sistema confine, che vede nella militarizzazione delle frontiere solo uno dei suoi aspetti. Infatti, il sistema d’asilo stesso si presenta come dispositivo coloniale di selezione tra “migranti veri e falsi”, di categorizzazione delle persone fatta secondo criteri occidentali da persone occidentali, che si arrogano il potere di decidere sulla vita dellə altrə. Si è posta particolare attenzione all’emersione della “forma campo”, ovvero alla diffusione sia alle frontiere interne ed esterne di strutture di restrizione geografica e detenzione delle persone, come gli hotspot greci, i lager libici, i CPR. È stata ricordata la genealogia coloniale del “campo”, che nella sua essenza è produttore e riproduttore di differenze tra chi deve/può essere internatə e chi no. Successivamente, è stato sottolineato anche il ruolo delle università e di fondazioni come MED-OR (di Leonardo), che da un lato finanziano la ricerca funzionale al regime del confine, come nel caso della collaborazione del Politecnico di Torino con Frontex, dall’altro promuovono la mobilità e gli scambi per ricercatorə e studentə “eccellenti” del Nord Africa e Medio Oriente – nel contesto della global race for talent, come scritto nel Patto Europeo per la Migrazione e l’Asilo. Ancora una volta, emerge la differenzialità del movimento, definita dalla sua funzionalità per il capitale.
Infine, si è discusso delle pratiche della lotta no border, a partire dall’esperienza del Collettivo, che negli ultimi mesi sta portando avanti dei progetti di solidarietà a Bihac e a Subotica, rispettivamente in Bosnia e in Serbia. È stata sottolineata la radicalità del lavoro di cura e del supporto al movimento attraverso i confini, così come l’importanza di costruire relazioni orizzontali che prefigurino la società senza confini per cui lottiamo. Sono stati poi citati alcuni esempi di mobilitazioni portate avanti in prima persona dalle persone in movimento, soprattutto nei così detti “paesi di contenimento”, per smontare la narrazione dei “migranti depoliticizzati” ed evidenziare l’importanza di supportare l’autorganizzazione delle lotte dal basso e costruire battaglie comuni. Tra gli esempi riportati, le recenti proteste degli abitanti di Eleonas Camp ad Atene, che stanno resistendo da mesi allo sgombero dell’ultimo campo cittadino, e i movimenti di rifugiatə in Libia e Tunisia, che per mesi hanno presidiato le sedi di UNHCR a Tripoli e Tunisi, subendo la violenta repressione delle autorità locali e delle istituzioni internazionali che invece dovrebbero proteggerlə.
La mattinata si è conclusa sottolineando l’urgenza di agire l’intersezionalità in un medesimo conflitto, che tenga insieme le diverse linee di oppressione e faccia convergere le lotte costruendo spazi di resistenza e autonomia sempre più ampi, alle frontiere come nei nostri territori.