di Antonio Merola
In Moonfall (2022) il regista Roland Emmerich mette in scena una Terra minacciata dalla collisione con il proprio satellite: la Luna sarebbe in realtà una megastruttura spedita nel cosmo da una civiltà umana pluriplanetaria, ma scomparsa a causa di una guerra con una intelligenza artificiale emancipata e diventata ostile, per dare una nuova possibilità alla specie umana popolando il sistema solare. A scontrarsi sono quindi due intelligenze non umane: da una parte una AI che vuole prosperare per conto suo e che vede una minaccia nell’umanità, dall’altra una struttura artificiale integrata con la specie umana in un rapporto simbiotico e coevolutivo. Una battaglia continua proprio all’interno della Luna, mentre la prima AI cerca di spingere il satellite a scontrarsi con il pianeta e l’altra di mantenerne l’orbita stabile, necessaria alla vita biologica. Sembra di sentire parlare Koert van Mensvoort quando sostiene a proposito delle creature memetiche: «Le nuove specie, basate sullo scambio di informazioni, non ci rimpiazzeranno o subentreranno al nostro posto più di quanto gli alveari abbiano rimpiazzato le singole api. Formeranno invece una superstruttura in cui verremo incapsulati».
Con NextNature. Perchè la tecnologia è la nostra natura del futuro, pubblicato in Italia da D Editore in collaborazione con Future Fiction (2022), Koert van Mensvoort presenta una teoria interessante, che potremmo riassumere in questo modo: così come la biosfera si è sviluppata sulla precedente geosfera, le creazioni tecnologiche degli esseri umani hanno formato una tecnosfera, che cresce e interagisce con la biosfera, e che ha finito per modificare il mondo in cui viviamo al punto da instaurare quella che Mensvoort definisce una natura prossima. Il fatto che le attività umane abbiano alterato gli ecosistemi come nessuna altra specie, fino a causare il surriscaldamento globale e ad avviare una sesta estinzione di massa, portarono il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen a coniare il termine Antropocene. C’è ancora un dibattito aperto nella comunità scientifica su quando datare la nuova era geologica, che si sostituirebbe all’Olocene, se alla comparsa dell’Homo Sapiens, considerando di fatto la nostra come una specie manipolatrice per natura, oppure in tempi più recenti a partire dalle rivoluzioni industriali, o ancora più vicino fissando il chiodo d’oro allo scoppio della bomba atomica. Certo è che, a prescindere da quando sarà stabilita la nascita dell’Antropocene, il tempo per rimediare alle conseguenze delle nostre attività prima di arrivare a un punto di non ritorno è ormai molto poco, questione di qualche anno. In questo quadro, si collocano gli aspetti più problematici della teoria di Mensvoort, che invece considera obsoleto il modello dell’Antropocene e di cui cercheremo di illustrare le connessioni principali.
«Guardatevi attorno nella stanza in cui siete e trovate la cosa più naturale. Cercate con cura. Siete voi». Questo è il punto di partenza della teoria di Mensvoort: fin dalla sua comparsa, Homo Sapiens ha manipolato la natura a proprio vantaggio grazie agli usi della tecnologia, fino alla comparsa della tecnosfera. Ciò che preme per prima cosa a Mensvoort è dimostrare come sia sbagliato giudicare una simile manipolazione innaturale. C’è alla base una idea mutuata dall’antropologia che considera quello umano come un «essere carente»: mentre ciascun animale pare essere attrezzato per un ambiente specifico, noi sembriamo non essere adatti a nessun ambiente in particolare. Ecco allora che a colmare il vuoto interviene la cultura: siamo da sempre esseri culturali per natura. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale nascono assieme e interagiscono tra di loro. Ne consegue, che a essere naturale è allora anche la nostra attività plasmatrice: «Siamo artificiali per natura […] gli esseri umani sono impegnati in un rapporto evolutivo simbiotico con la tecnologia». Grazie alle nostre tecnologie siamo riusciti a diffonderci nella maggioranza del pianeta, rendendo abitabile anche ciò che per noi non lo era, a discapito di altre specie. La cultura è la nostra attrezzatura. Il problema per cui la tecnologia ci sembra innaturale secondo Mensvoort è che continuiamo a «pensare alla natura come a ciò che è rimasto inviolato dalla mano umana». Paradossalmente, il mercato contribuisce ad alimentare questa idea. «La natura è un ottimo prodotto, forse quello di maggior successo del nostro tempo»: se ci pensiamo bene, ci vengono venduti solo gli aspetti della natura in armonia con le nostre vite e mai quelli tragici. Ma anche i gruppi ambientalisti mantengono una idea di natura «conservatrice», riassumibile nello slogan dagli echi trumpiani: «Rendiamo di nuovo grande la natura». Qui Mensvoort è impietoso, ma è chiaro come voglia calcare la mano per arrivare al nodo cruciale: la natura come l’abbiamo sempre immaginata è in realtà un prodotto culturale, tanto quanto la tecnologia ha carattere naturale.
Che cosa significa che «la biologia sta diventando tecnologia e la tecnologia sta diventando biologia»? Dobbiamo cogliere alcuni passaggi importanti. Esiste una natura autonoma dal nostro controllo, come i vulcani o il sole, ed esistono tecnologie create e controllate dall’essere umano, come i telefoni o le auto. La differenza tra i due poli non riguarderebbe solo ciò che è creato da noi e ciò che è naturale, ma anche ciò che è vivo da ciò che non lo è. Si tratterebbe però di una polarizzazione sbagliata, per Mensvoort. «Tradizionalmente, vediamo la natura come tutto ciò che nasce (le piante, gli animali, il clima, l’universo) e la cultura come le cose costruite dall’essere umano. Con la convergenza tra nato e costruito, questo confine è sempre più labile». Ormai manipoliamo a tal punto le cose nate che «la natura diventa cultura»: pensiamo alle nostre coltivazioni, in cui abbiamo agito sulla natura per adattarla alle nostre esigenze. Allo stesso modo, alcune tecnologie che abbiamo creato sono sfuggite al nostro controllo, diventando autonome: «la cultura diventa natura». L’esempio più estremo di Mensvoort sono le corporation, che considera come creature vive. Nessuno infatti potrebbe davvero sostenere di riuscire a controllarne il comportamento.
Per spiegare che cosa intenda, Mensvoort riprende una teoria chiamata dell’operatore: «Jagers op Akkerhuius afferma che l’evoluzione sia progredita dalle particelle più elementari verso strutture di complessità sempre maggiore. Ogni livello prevede un cosiddetto operatore (qualsiasi cosa sia, da un quark a un animale) che possiede una chiara interfaccia in cui sia incluso il livello precedente. Sebbene il cambiamento avvenga anche all’interno dei livelli, questi atti di inclusione sono i gradini evolutivi più importanti. Ciascun gradino permette, a sua volta, l’evoluzione dello stadio successivo». Ci sono sette livelli di complessità naturali, in cui quello successivo ingloba il precedente, per esempio pensiamo alla cellula formata dalle molecole, oppure agli organismi pluricellulari formati dalle cellule. Ogni livello quindi ha in sé più forme di vita, tale per cui la somma delle parti non coincide mai con il suo insieme: noi non siamo la somma delle nostre cellule, ma siamo anche le nostre cellule. All’ottavo livello si collocano invece delle nuove specie che Mensvoort definisce creature memetiche, perché non si basano sui geni, ma sui memi, teorizzati da Richard Dawkins come «unità di trasmissione culturale». Questa tecnologia globale starebbe inglobando così i livelli precedenti, diventato però qualcosa di metamorfico: una tecnologia viva.
Ecco qui dove si piazza il focus più problematico della teoria sulla natura prossima. Torniamo sull’esempio delle corporazioni: sono formate da esseri umani, ma agiscono per proprio conto. Si riproducono, creando nuove corporazioni, o muoiono andando in bancarotta. Hanno un proprio metabolismo. Il loro scopo è sopravvivere, anche se questo potrebbe danneggiare i suoi stessi creatori: «Una volta superato lo sciovinismo al carbonio del genere umano e aperta la mente all’idea che le aziende siano un nuovo tipo di organismo sulla Terra, il motivo per cui sembriamo non riuscire a risolvere problemi ambientali come la deforestazione e il cambiamento climatico diventa chiaro. Le compagnie non respirano aria pura. Le emissioni delle fabbriche ne aumentano, in realtà, il fatturato e ne rafforzano il metabolismo». È vero che l’insieme non coincide con la somma delle parti, ma qui Mensvoort sembra proporci una forzatura retorica. Leggiamo un passaggio da Howl di Allen Ginsberg: «Moloch whose mind is pure machinery! Moloch whose blood is running money! Moloch whose fingers are ten armies! Moloch whose breast is a cannibal dynamo! Moloch whose ear is a smoking tomb! / Moloch whose eyes are a thousand blind windows! Moloch whose skyscrapers stand in the long streets like endless Jehovahs! Moloch whose factories dream and croak in the fog! Moloch whose smokestacks and antennae crown the cities!» Moloch vive, si nutre, respira. Noi siamo dentro Moloch, incapsulati in Moloch. E soprattutto, Moloch è sfuggita al nostro controllo. È una personificazione efficace, in poesia. Ma Moloch, come tecnologia senziente, esiste davvero? La stessa costruzione discorsiva potrebbe valere per le galassie: collidono, si mangiano a vicenda o si espandono. Una galassia non è l’insieme delle sue parti e potrebbe essere l’ottavo livello di complessità evolutiva più di una corporazione o una rete bancaria. Mensvoort opera una traslazione di caratteristiche biologiche su delle creazioni non biologiche, cercando di giustificare il gioco linguistico attraverso la sostituzione dei geni con i memi. Manca però, in NextNature, uno sprofondo accurato proprio nella teoria dei memi. Sono gettati là, come quelli di internet.
Uno studioso a cui Mensvoort deve molto, ma che non viene mai citato, è probabilmente James Lovelock con la sua teoria di Gaia, da cui le logiche della tecnosfera non sembrano essere differenti: l’idea cioè che il pianeta Terra sia un gigante vivo, che inglobi in sé altri livelli di complessità evolutiva che collaborano con la parte inorganica al mantenimento delle condizioni necessarie alla vita biologica. Leggiamo le parole di Lovelock: «La parola Gaia mi serve a indicare la mia ipotesi che la biosfera sia un’entità autoregolata, che stabilisca le condizioni materiali necessarie per la propria sopravvivenza […] e che risulta perciò distinta dalla pura somma delle parti che la compongono» (da Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, 2021). Per quanto affascinante possa sembrare, la teoria di Lovelock non è stata accolta dalla maggioranza della comunità scientifica, anche se è sopravvissuta nell’immaginario per la forza poetica con cui riesce a farci sentire più vicini al nostro pianeta. La problematicità di una simile traslazione è quella di attribuire una coscienza a delle logiche reticolari, come osserva Telmo Pievani nell’introduzione alla nuova edizione: «Su questo versante Lovelock cammina però su un crinale potenzialmente scivoloso […] Leggiamo per esempio che questa entità globale avrebbe facoltà e poteri superiori di molto a quelli dei suoi singoli costituenti, che Gaia cerca e costruisce un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita come sua finalità intrinseca, e così via, il che chiaramente è diverso dal dire che si è instaurata una regolazione biologica attiva che mantiene condizioni geofisiche relativamente costanti». Che si possa parlare di un debito di Mensvoort verso le teorie di Lovelock, sembra confermato anche dalla lettura di Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Bollati Boringhieri, 2019): qui lo scienziato a cento anni torna sull’ipotesi Gaia, immaginando un passo successivo. L’Antropocene sarebbe un modello di lettura del mondo già obsoleto, perché molto presto sarà sostituito da una nuova era: quella del Novacene, in cui homo sapiens e macchine super-intelligenti collaboreranno tra di loro in un rapporto co-evolutivo ed entrambi avranno interesse a mantenere su Gaia le condizioni necessarie alla vita organica. In poche parole, una tecnosfera; con la differenza, che per Lovelock avvierebbe con noi una collaborazione interessata.
La teoria della natura prossima ha senza dubbio degli aspetti interessanti, su cui vale la pena di interrogarci e che sono stati illustrati fino a qui. Se da una parte è illuminante il discorso attorno alla produzione culturale della natura, dall’altra quando Mensvoort scrive che «Con “cultura” indichiamo tutto ciò che viene creato dal genere umano» sembra essere più vicino a una definizione tyleriana di cultura, immaginata come un «insieme complesso» che include le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume eccetera eccetera, rispetto a quella «ragnatela di significati» di cui ha scritto Clifford Geertz nella sua Interpretazione di culture (1973) e che ha rivoluzionato gli studi antropologici, immaginando invece «la cultura come un testo» che l’antropologo deve interpretare. Forse sarebbe meglio indagare la tecnosfera attraverso la teoria delle reti, a partire dal lavoro dello scienziato Albert-László Barabási in Link. La nuova scienza delle reti (Einaudi, 2004). È proprio il paradigma della teoria delle reti, che ha trovato negli ultimi anni un felice campo di attuazione nell’informatica, nell’economia, nell’ecologia (pensiamo solo ai lavori di Stefano Mancuso sull’intelligenza delle piante), nella sociologia, nell’antropologia e nelle neuroscienze, a rappresentare uno dei paradigmi contemporanei su cui fare maggiore affidamento. Anche le teorie di Barabási partono dall’assunto che un insieme non sia la somma delle sue parti. Per formare una rete, c’è bisogno di un numero di nodi che siano in connessione tra di loro. Barabási però presta una particolare attenzione a un tipo specifico di rete, quella «a invarianza di scala»: la differenza è che nelle reti casuali ogni nodo ha la stessa possibilità di avere dei link rispetto agli altri, mentre la rete a invarianza di scala è regolata da una legge di potenza che presenta degli «hub», cioè dei connettori con un numero maggiore di link rispetto agli altri nodi e che con il tempo sono destinati ad averne sempre di più, secondo la formula per cui «i ricchi diventano sempre più ricchi». Gli altri nodi sono destinati invece ad averne sempre di meno. Una rete a invarianza di scala è caratterizzata quindi dalla presenza di un «collegamento preferenziale» formato da tutti i suoi hub e dal fatto che possa crescere. Sebbene si evolvano però le reti sono immaginate come modelli di «una tela senza il ragno». Sarebbe bello guardare all’Antropocene come a un’era da lasciarsi dietro. Siamo però intrappolati nella ragnatela del cambiamento climatico. E il ragno, in questo caso, esiste: il ragno siamo noi.