Al Festival di Internazionale 2022, al Teatro Apollo di Ferrara, ha avuto luogo la rassegna di audiodocumentari a cura di Jonathan Zenti.
Nel primo appuntamento sono stati trasmessi due episodi del podcast “AfroQueer”, a cura di Selly Thiam, giornalista e autrice statunitense-senegalese. Selly Thiam, ospite del festival nei successivi giorni, è la fondatrice di None on record: stories of queer Africa, un’organizzazione che ha raccolto e archiviato varie narrazioni di africani LGBTQI+, inoltre dirige AQ Studios, una società africana di podcast, con cui ha prodotto proprio AfroQueer.
Il lavoro divulgativo sotteso a questa progettualità è indubbiamente significativo, oltre che di chiaro impatto per chi vive a determinate latitudini e certe cose le dà – ormai – per consolidate, riconosciute. L’ottica con la quale si guarda al riconoscimento dei diritti civili è normalmente eurocentrico e dunque, parlare di omosessualità e rivendicazioni queer in un continente tanto sconfinato quanto sconosciuto, se non in termini paternalistici, cambia sul serio tutte le carte in tavola.
Nei due episodi presentati durante il Festival di Internazionale 2022 esiste un fil rouge, quello di sacrificare qualcosa di personale per costruire “qualcosa di più grande”.
Da un lato si parla di cinematografia LGBTQI+ in Africa, nello specifico del quasi-sconosciuto film Dakan del regista, di cui ormai si erano perse le tracce, Mohamed Camara. A seguito della pubblicazione del film, non sono tardate ad arrivare critiche di biasimo o addirittura di disgusto. Lo stesso regista racconterà come fosse necessario darsi alla macchia ad ogni presentazione negli ultimi minuti prima della conclusione del film.
Nella seconda parte, invece, viene presentata una vicenda accaduta in Ghana nel distretto municipale di Ho, ormai più di un anno fa. Quel giorno, la polizia fece irruzione in un centro comunitario per omosessuali, a seguito della quale 21 persone furono arrestate e rinchiuse per 21 giorni prima che il caso venisse archiviato. A corredo di tale orribile vicenda, per comprendere al meglio lo stato dei diritti civili in Ghana, il podcast si concentra su una bozza di legge presentata da otto parlamentari, una legge che, se adottata, renderebbe un crimine il solo essere queer o perfino l’essere sostenitore delle lotte queer.
Dakan – Stagione 2, Ep 4
La rappresentazione del mondo LGBTQ+ nei libri, nei film e serie tv è qualcosa che solo recentemente abbiamo iniziato a vedere. E chi non fa parte di tale comunità può solo immaginare l’enorme importanza che il riconoscersi in storie simili al proprio vissuto possa avere. Selly Thiam che si definisce una “folk” delle storie queer racconta come grazie a una raccomandazione di You Tube si sia imbattuta nel primo film prodotto in Africa occidentale con al centro la tematica dell’omosessualità. Si intitola “Dakan” ed è un film drammatico franco-guineano del 1997, scritto e diretto da Mohamed Camara. Narra la storia d’amore di Manga e Sory, due giovani ragazzi che combattono per il loro amore e per trovare un posto nel mondo. Ciò che ha colpito la conduttrice del podcast è stato attestare che esistesse un film del genere alla fine degli anni 90’, quando le tematiche legate all’omosessualità erano ancora trattate pochissimo e spesso un tabù, specialmente in un paese come la Guinea (paese dell’Africa settentrionale, conservatore di lingua francese e a maggioranza musulmana, profondamente intollerante nei confronti della comunità LGBTQ+). Non è difficile capire il perché del suo stupore se si pensa che nel continente africano, attualmente, 33 dei 54 stati che lo compongono hanno leggi che criminalizzano l’omosessualità. Ad esempio in alcuni paesi non se ne può parlare in pubblico ed è vietato distribuire materiale multimediale che ne facciano riferimento. In Kenya nel 2018 venne messo al bando il film “Rafiki”, diretto da Wanuri Kahiu, in quanto dava una rappresentazione positiva di una relazione sentimentale tra due donne.
Sorge allora spontaneo nella conduttrice il bisogno di indagare la genesi e il destino del film di Mohamed Camara, che non solo è riuscito a dare alla luce sul grande schermo una storia d’amore tra due giovani uomini africani ma è stato riconosciuto e premiato al Festival di Cannes del 1997. Selly Thiam piena di dubbi e curiosità riesce a rintracciare il regista e a farsi raccontare la sua storia.
Fu una casualità che fece avvicinare Mohamed Camara al mondo della cinematografia. Galeotta fu una passeggiata sugli Champs Elysées dopo un insuccesso universitario che lo portò a conoscere l’attore francese Michel Piccoli. Lo fermò e si congratulò con lui, dicendogli che i suoi film erano trasmessi e amati anche in Guinea. La star del cinema francese lo prese in simpatia e gli rimediò un ruolo come comparsa in un film che stava girando. Da lì ebbe inizio la sua carriera da attore che rimase relegata per anni a ruoli come il ladro o lo spacciatore di droga. Stanco di incarnare uno stereotipo negativo, Camara decise di scrivere di suo pugno personaggi con maggior complessità psicologica, dirigendo Denko, nel 1993 e Minka nel 1994. I problemi per il regista iniziarono con la presentazione dello script di Dakan. Tutti coloro ai quali propose di produrre il film si rifiutarono di finanziarlo adducendo come motivazione il fatto che in Africa non esistesse l’omosessualità. Con grande perseveranza riuscì a trovare i finanziamenti e l’approvazione del Presidente della Guinea per girare il film nel paese, dovette affrontare una nuova difficolta: non trovava attori disposti ad interpretare ragazzi gay. Sormontato anche questo ostacolo e gli attori vennero scelti ma si assicurarono che le rispettive compagne fossero presenti sul set, e terminato ogni scena di bacio gli attori raggiungevano le fidanzate per baciarle e mettere in chiaro che nella vita reale erano eterosessuali. Non fu facile girare il film ma Camara era determinato a raccontare le contraddizioni dell’omosessualità considerata deplorevole da una fetta della società e contemporaneamente accettata e normalizzata da un’altra parte. Nel film Sory e Manga troveranno l’ostilità dei genitori e il supporto dei compagni di classe. E più in generale il regista voleva puntare i riflettori su quanto fosse l’aspetto sessuale dell’omosessualità il vero tabù.
Se girare il film era stato burrascoso, presentarlo al pubblico divenne qualcosa di pericoloso. Alla première in Guinea del film, Mohamed Camara venne avvertito che le reazioni del pubblico potevano diventare violente. Prese l’abitudine per ogni première africana di alzarsi dalla sala del cinema e nascondersi cinque minuti prima della fine per evitare di essere picchiato.
Andando avanti con la presentazione di Dakan le cose si fecero dure per il regista che venne escluso dalla comunità cinematografica del suo paese; fu accusato di aver vissuto troppo a lungo nel mondo occidentale e di non essere in grado di narrare il mondo africano. Tra le varie mosse per riabilitare il suo nome Camara arrivò a sottoporsi a un dibattito televisivo all’Imam della Guinea, che lo aveva definito un nemico dei musulmani.
Non ci furono solo accuse e controversie legate all’uscita del film, una parte del pubblico amò e sostenne il film. La reazione più emozionante avvenne in USA all’Indipendent Film Maker Showcase di Los Angeles, dove si presentarono in centinaia di afroamericani che per la prima volta vedevano la rappresentazione su schermo di un amore gay con protagonisti africani. Ed è questo che ancora oggi, a distanza di quasi 30 anni, ha emozionato la conduttrice del podcast. Vedersi e riconoscersi è fondamentale, soprattutto se si appartiene a minoranze che per secoli sono state annullate nella loro individualità. Alla fine anche se il regista non ha più voluto e potuto lavorare la sua opera continua e continuerà ad essere un simbolo .
GHANA 21 – Stagione 4, Episodio 2
21, un numero che ritorna. Innanzitutto l’anno dell’avvenimento, poi le persone. Proprio 21. I giorni, 21 anch’essi.
21 persone sono state recluse per 21 giorni nel maggio 2021 con l’accusa di “riunione illecita” volta alla promozione di attività LGBTQI+ all’interno della società.
Persone recluse per essere omosessuali, non binari, bisessuali. Una carcerizzazione coatta immotivata realizzata per altro in condizioni pietose in quanto ad igiene e in un contesto machista e violento.
Durante i giorni degli arresti, nonostante le impervie difficoltà, gli attivisti LGBTQ+ sono riusciti ad innescare proteste forti e mobilitazioni per fare concentrare adeguatamente l’opinione pubblica su questa terribile quanto ingiustificata azione di repressione.
Dopo aver negato la liberazione su cauzione ben quattro volte, i cd. “Ho 21” venivano finalmente rilasciati in seguito alla documentazione dell’osservatorio Human Rights Watch, i quali documentarono le condizioni carcerarie vissute: celle sovraffollate, servizi igienici sporchi, oltre che le angherie subite da parte degli agenti di polizia.
Quando finalmente le accuse vengono ritirate per “prove insufficienti”, molti danni, tuttavia, sono ormai compiuti.
Le 21 persone raccontano nel podcast quanto accaduto rabbrividendo. C’è chi è stata reclusa tra gli uomini, con tanto di invito alla violenza sessuale da parte dei secondini, nonostante si fosse dichiarata donna, contrariamente al suo “sesso anagrafico”. C’è chi è stato sottoposto allo scherno ed all’umiliazione di dover forzatamente mostrare le parti intime poiché ermafrodita,
Tra le conseguenze peggiori, tutti/e parlano del proprio suicidio sociale e familiare. Tra i 21 c’era chi non aveva ancora fatto coming-out e la tempesta mediatica scaturita dalla vicenda, ha fatto sì che gli venisse affibbiato una vera e propria lettera scarlatta. C’era anche chi aveva marito e figli e ad oggi non può più vederli, c’è chi è stato licenziato dal lavoro o allontanato dalla propria comunità.
La bufera dei media ha reso ancora più vivida la loro stigmatizzazione.
Quasi un anno dopo l’arresto, molti degli “Ho 21” affrontano depressione, isolamento e chiaramente paura nell’essere identificabile come omosessuale e dunque perseguitato, sia dallo Stato che dalle persone comuni.
La terribile vicenda dell’Ho 21 è uno degli esempi di violenza che quotidianamente subiscono le persone LGBTQI+ in Ghana, in un Paese in cui perfino le figure istituzionali si sentono liberi di violare i diritti che dovrebbero essere protetti dalle leggi internazionali ed africane sui diritti umani, nonché dalla stessa Costituzione.
Tale violenza sarà ipertroficamente incontrollata se il Parlamento approverà una nuova legge sui “valori della famiglia”. Tale disegno, secondo i promotori, si rende addirittura necessario “per difendere i valori del Ghana dal flagello e dalla perversione che l’omosessualità rappresenta”.
Tra le proposte c’è quella di aumentare la pena da tre a cinque anni di reclusione nel caso di rapporti sessuali omosessuali. Inoltre diventerebbero illecite tutte le associazioni LGBTQI+, rendendone punibile l’eventuale partecipazione con pena fino a dieci anni di reclusione. La pena è perfino prevista nel caso di ‘promozione’ (condotta assolutamente generica) di attività LGBTQI+ o nel momento in cui venga insegnato a bambini che il genere va oltre il binario eteronormativo.
Non si sa ancora se tale disegno di legge verrà approvato. Numerose sono le proteste che ne richiedono il ritiro, tuttavia molti gruppi religiosi e culturali spingono per continuare la discussione ed approdare alla stesura finale. Le figure istituzionali sono del tutto ammanicate a tali spinte, basti pensare come l’attuale Presidente del Parlamento ha definito la presenza LGBTQI+ in Ghana: “peggiore della pandemia di COVID“.
La comunità LGBTQI+ ghanese è sotto attacco, rischia la carcerizzazione di massa, la ghettizzazione ed una stigmatizzazione ancora peggiore di quella che sta vivendo oggi.
Essa merita la nostra attenzione, qualsiasi sia la nostra provenienza.