Un po’ di (voluta) confusione lessicale del nuovo Governo Meloni

Iniziamo con l’enunciare quali sono le terminologie e locuzioni che Presidente Meloni sta già usando in maniera fallace: sovranità alimentare ed ecologismo, affiancandolo antiteticamente al concetto di conservatorismo.

Ora, un passo alla volta, andiamo a capire che pensieri e studi (e definizioni) si celano dietro queste due locuzioni.

Si definisce Sovranità Alimentare il diritto dei popoli ad avere accesso ad un cibo salutare eculturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi ecologici e sostenibili, ovveroautodeterminare i propri sistemi agroalimentari.

Forum Sovranità Alimentare (2007), Dichiarazione di Nyeleni, 27 febbraio 2007, Sélingué, Mali

La locuzione “sovranità alimentare” è stata coniata nel 1996 dall’organizzazione internazionale La Via Campesina e indica il diritto inviolabile di una data società all’equo accesso al cibo, che si affianca al diritto di poter costruire le politiche volte a soddisfare questo obiettivo nel più sostenibile dei modi. Tutto parte dal diritto insormontabile dell’accessibilità al cibo, atto a garantire il benessere fisico e mentale della popolazione locale e mondiale, diritto che parte dunque da un giusto soddisfacimento di un bisogno primario e primordiale.

Cosa invita a fare la “sovranità alimentare”? Invita a costruire un insieme di politiche tese a mantenere il controllo delle comunità sui sistemi agricoli e alimentali locali, minacciati sempre di più dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Le colture agricole locali e le colture alimentari ad essa legate sono da lungo tempo a rischio e sempre di più sono soppiantate dal commercio globale, col mantra della massimizzazione della produzione e del profitto.

Qual è la principale conseguenza di questo sistema capitalista?

L’uccisione delle biodiversità. Un ecosistema è composto da una moltitudine di organismi viventi il cui ruolo è fondamentale per il mantenimento del corretto funzionamento di un dato ecosistema. Dal momento in cui il mantra diviene la produzione su larga scala, intensificare e stuprare il terreno affinché possa dare più frutto possibile, si utilizzano meccanismi non naturali, quali pesticidi chimici, che annientano le biodiversità in maniera pressoché irreversibile. E spesso all’utilizzo di pesticidi si affianca la pratica del costringere un dato prodotto a crescere in un territorio in cui non è consuetudine coltivarlo.

A partire dal 2001 la società civile in tutto il mondo ha intrapreso una serie di iniziative nella direzione di proteggere i sistemi agricoli locali. All’interno di queste iniziative vi è la necessità di mettere al centro dell’agenda politica le strategie inerenti le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano, che non superi invece le richieste e i bisogni dei mercati e della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Demandare il diritto alla sovranità alimentare vuol dire pensare a delle valide alternative per fortificare la produzione locale affinché non venga schiacciata dai Grandi della distribuzione globale, affinché si vada verso un tipo di produzione che, essendo locale e piccola, rispetti di più l’ambiente – e fare in modo che la quantità di prodotto finale sia il risultato di tante piccole realtà che, rispettando l’ambiente, producono su piccola scala ma che insieme costituiscono una rete.

Che cosa vuol dire? Riconoscere l’importanza dell’agricoltura contadina e familiare, della pesca artigianale, l’allevamento orientato alla pastorizia; promuovere un commercio che garantisca redditi dignitosi per chi lo produce e il diritto di consumatori di controllare la provenienza del cibo e nutrimento.

Il cambiamento, oltre che economico, ha necessità di essere anche culturale. Come l’ha inteso Presidente Meloni questo cambiamento culturale? La nuova premier ha caricato di nazionalismo e di appartenenza maniacale alla Nazione il termine, probabilmente la vicinanza tra “sovranismo” e “sovranità” le ha permesso di accomunare i due termini in maniera errata e, appunto, fallace. Ha caricato di nazionalismo un termine che è volto alla protezione del locale in senso ambientale e umanitario, ed invece nella realtà Meloni il termine è semplicemente un cambiamento di rotta dall’importare all’esportare, ma senza uscire dalla mentalità della produzione sfrenata e massimizzata. Il cambiamento culturale a cui auspica invece questo concetto è quello di una società libera da oppressioni e disuguaglianze tra uomini, donne, popoli, gruppi razziali, classi socio-economiche e generazioni.

Presidente Meloni l’ha inteso erroneamente tirando fuori l’idea del made in Italy, con quest’ossessione che la nostra produzione debba essere quella a cui tutti puntano il dito smaniosamente.

Questa comunicazione è fallace quanto efficace. Quale aspetto migliore del cibo, per un italiano, per farlo riconoscere in maniera più veemente in questo tratto identitario? Non c’è molto da fare, per mantenere salda la nostra identità, a volte, difendiamo anche in modo goliardico l’attaccamento al cibo e alla capacità dell’italiano del saperlo trattare, curare, cucinare. È su queste cose semplici e un po’ primordiali su cui Meloni fa leva; non di certo parlando della precarietà dei piccoli imprenditori agricoli, dello sfruttamento di altre nazionalità, del sangue e delle fiamme che colorano e assaporano il cibo che spesso mangiamo. Le persone muoiono di fatica, muoiono tra le fiamme della baraccopoli. Queste persone Meloni non le riconosce nei suoi discorsi, sono di altra identità, altra nazionalità. L’idea del proteggere il made in Italy è molto radicata anche nell’idea di “eliminare” le etnie che col made in Italy, per lei, non hanno niente a che fare. Invece di riconoscere tali comunità come tassello importante della produzione agricola – si pensi alla comunità indiana sikh nell’Agro Pontino, la quale gestisce la quasi totalità della produzione agricola della zona.

La pericolosità della diffusione di terminologia incorretta è tacitamente spesso ignorata. Citandone uno, l’utilizzo incorretto del termine giuridicamente inesistente di “clandestino” ha giocato un importante ruolo nella creazione del nemico sconosciuto e occulto, e le conseguenti discriminazioni nefaste. Quando inizia a propagarsi un termine incorretto è difficile fermarlo, perché la spiegazione originale è complessa, e richiede attenzione e tempo che nessuno è disposto a dare, e a darsi.

Il secondo termine su cui invece Meloni porta l’attenzione è quello di ecologia, che è strettamente legato al primo. Nel suo discorso per l’ottenimento alla fiducia alla Camera e al Senato parla di giovani. Parla di giovani e conservatori nella stessa frase, nello stesso discorso politico. E lo fa brillantemente, riuscendo ad accostare due termini che insieme potrebbero far fatica a stare, se facciamo riferimento alle nuove alternative proposte per affrontare la crisi climatica in atto: conservatorismo ed ecologia. Parla di volontà di difendere “la natura con l’uomo dentro”, e di farlo in un’ottica conservatrice – asserendo che i più grandi ecologisti sono sempre stati i più grandi conservatori.

La Presidente sceglie infatti di citare Roger Scruton, uno dei maestri del pensiero conservatore europeo, rappresentante un modello ideologico declinato al passato.

Attraverso questo escamotage affianca abilmente un’idea di conservatorismo positiva, legata a quanto di buono c’è nel mondo naturale e la necessità di conservarlo (quali la concezione organica della società, la difesa delle specificità, la restaurazione della concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria) e l’impalcatura di un’ideologia ben precisa che invece Giorgia Meloni sta iniziando a costruire nel suo governo. Questo però passa in secondo piano dal momento in cui si cita un autore, conservatore sì, ma con le idee ben chiare riguardo la maniera errata odierna di guardare alla natura. Parla infatti di “tecnologia invasiva e totalitaria”, ma non è esattamente questo il medium che verrà utilizzato per proteggere la natura con l’uomo dentro?

Mi chiedo, ci chiediamo, come si può parlare di ecologia in un’ottica che vuole conservare, però, un sistema capitalista, connotato da un’economia di tipo lineare? La problematica di questo discorso è che non può esistere ecologia senza sovvertire lo status quo che vede al centro come grande mantra il progresso inteso come produttivismo, come crescita economica. In questo processo la crescita economica, prima considerata mezzo per garantire il fine del benessere umano, oggi diventa fine ultimo dimenticandosi del benessere umano e non umano. Il problema qui è la fede cieca nell’illimitatezza delle risorse, che vede la natura come bacino infinito da cui attingere sempre, nell’illusione della loro sostituibilità e razionalità economica come meccanismo regolatore di tutti i legami sociali.

Modelli di agricoltura sociale, di circolarità urbana in grado di ri-pianificare lo spazio nelle città che incentivi una mobilità sostenibile, introdurre l’utilizzo dei rifiuti nella produzione, incrementare la produzione di materie prime seconde, e molto altro sono gli obiettivi a cui si dovrebbe auspicare. Impensabili in un frame ancora improntato sull’iper-produttivismo.

La Presidente Meloni però sa parlare, e citando pensatori che le danno credibilità, usando un tono pacato e non più stridulo e mostrandosi (fittiziamente) a fianco dei giovani, accostando concetti che evocano sentimenti ed emozioni, conferisce fiducia. Dietro tutto questo però, c’è negazionismo riguardo a quanto succede al pianeta terra e mondo, negligenza sulle giuste politiche e sulla oramai necessaria transizione ecologica, e un modo di vedere la natura che continua ad essere quello attuato finora e dunque da cambiare. La maggior parte dei problemi ambientali che abbiamo oggi è frutto della maniera errata con cui abbiamo interpretato la natura, come bacino infinito, o facilmente sostituibili con artefatti umani al loro esaurimento. La visione sbagliata è quella antropocentrica: non si ha una risorsa, si trova un’alternativa costruita dall’uomo. Peccato che piantando alberi dopo averli deforestati tutti non soddisferà le esigenze dell’ambiente originale, non è più un ecosistema di diversità come quello di prima. All’interno di questa impostazione la natura non esiste, è una costruzione sociale – e le parole di Meloni “vogliamo difendere la natura con l’uomo dentro” gridano a gran voce proprio questo. 

Selene Lovecchio è laureata in Linguaggi dei Media, attivista e studentessa magistrale di Scienze Internazionali, Human Rights and Migration Studies. Si occupa in particolare di migrazioni e agribusiness.

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