di Wu Ming 4
1. «Io odio l’elfo nero»
La serie tv Amazon Gli Anelli del Potere, tratta dalle appendici del Signore degli Anelli, ha deluso parecchi fan tolkieniani e non solo loro. Pur mostrando il suo punto di forza nella resa immaginifica di panorami e skyline, nelle prove di alcuni attori e nella ricerca per così dire etnografica sui popoli della Terra di Mezzo, è parsa incredibilmente carente sul piano della scrittura, cioè per quanto riguarda la costruzione della trama e dei personaggi. [Qui un’estesa recensione/riflessione con spoiler]
Prima ancora dei giudizi trancianti sulle falle narrative però, la serie tv ha suscitato una quantità di polemiche e dibattiti sulla canonicità della rappresentazione, e sulle intenzioni politiche della produzione stessa. Amazon Prime è stata accusata di strumentalizzare le storie di Tolkien, reclutando un cast multietnico e presentando personaggi femminili clamorosamente più forti rispetto a quelli maschili, in ossequio ai dettami del politicamente corretto made in USA. Nei mesi scorsi, in giro per la rete e per i social media, sono state lanciate invettive per la presenza di un elfo, una regina numenoreana, una principessa nanica e alcuni hobbit interpretati da attori e attrici nere. La loro presenza non sarebbe filologicamente corretta – ha protestato certo fandom -, perché nelle storie di Tolkien le suddette razze non comprendono individui non bianchi, dunque inserirli sarebbe una forzatura strumentale, un «fare politica usando Tolkien» (in Italia ne sappiamo qualcosa, anche se più spesso si è trattato di una politica di segno opposto, ma tant’è).
In effetti la risposta del cast agli attacchi ricevuti in nome dell’epidermicamente filologico conteneva senz’altro un’interpretazione politica della Terra di Mezzo:
«JRR Tolkien ha creato un mondo che, per definizione, è multiculturale. Un mondo in cui popoli liberi di razze e culture diverse si uniscono, in compagnia, per sconfiggere le forze del male. Gli Anelli del Potere riflette questo concetto. Il nostro mondo non è mai stato tutto bianco, il fantasy non è mai stato tutto bianco, la Terra di Mezzo non è tutta bianca. Le persone nere, indigene e di colore appartengono alla Terra di Mezzo e sono qui per restare.»
Domenica 30 ottobre, al Teatro del Giglio di Lucca, nella giornata clou di Lucca Comics & Games, a prendere la parola nel panel sulla serie Gli Anelli del Potere è stata proprio la parte nera del cast: Ismail Cruz Cordova, Cynthia Addai-Robinson e Sophia Nomvete. I tre hanno raccontato di come si sono calati nelle rispettive parti, provando a caratterizzare i loro personaggi al meglio delle loro possibilità. All’elfo nero Cruz Cordova è toccata la risposta più esplicita sulla questione etnica: «Qualcuno ha detto che io non assomiglio a un elfo, ma non mi sono fatto scoraggiare… Sono molto fiero di essere un elfo».
Parole che oltre a scatenare un applauso fragoroso, sono suonate come una pietra tombale sulle polemiche. Nondimeno Amazon Prime ha pensato bene di eliminare la sessione di fotografie con i fan per i tre attori, insospettita dalle voci su non meglio precisati fascisti che avrebbero organizzato una contestazione al cast “black”. Onda lunga delle elezioni che hanno portato al governo una persona cresciuta nell’MSI, il cui libro preferito è dichiaratamente Il Signore degli Anelli, indicato in gioventù niente meno che come testo politico di riferimento? Chissà. Senz’altro un caso di boxe con le ombre tra un colosso dell’intrattenimento e branchi di leoni da tastiera. These are the times…
2. Tolkien e le razze
Facciamo un passo indietro. Torniamo alle fonti, anzi, ancora più indietro, all’autore. Tolkien, si sa, non simpatizzava per alcuna ideologia razzista in voga nella sua epoca e nel corso degli anni ci tenne sempre più a farlo sapere, rigettando le interpretazioni della sua opera che andassero in quella direzione. È celebre il suo rifiuto, nel 1938, di fornire a un editore tedesco una certificazione di “arianità”, per non «avvalorare l’idea di avere aderito alla teoria perniciosa e antiscientifica della razza» (Lettera 29). Perfino nel suo campo di studi e insegnamento il Professore volle precisare che la lingua non coincide con la razza né con particolari tratti caratteriali estensibili a un intero popolo (“Inglese e Gallese”, 1955).
Tuttavia, come ha fatto notare Dimitra Fimi nel suo bellissimo Tolkien, Race and Cultural History (2008), Tolkien era pur sempre figlio del suo tempo, dunque condivideva una visione razzializzante, che nel corso del XX secolo non ha conosciuto lo stesso rapido declino delle teorie pseudoscientifiche sulla razza. Una volta sconfitti manu militari i regimi ideologicamente razzisti e smentita la teoria della razza, rimane pur sempre il razzismo implicito nello sguardo, come costruzione percettiva e culturale che rispecchia precisi rapporti di forza nella società e nel mondo. Se le razze non esistono ontologicamente – come ci dicono la scienza e la coscienza contemporanee -, tuttavia noi seguitiamo a percepirle e a dar loro importanza quando ci relazioniamo agli altri, categorizzando i gruppi umani in base a certe loro caratteristiche fisiche e associandole a certi tratti culturali o a qualità innate, e per questo accettando come ineluttabili molte delle disparità del mondo. Smantellare questo sguardo è impresa assai più lunga e complessa di vincere una guerra mondiale.
Non ci sono dubbi che nella costruzione fantastica tolkieniana – le cui basi furono gettate negli anni Dieci del Novecento – le razze abbiano un ruolo centrale. Razze, popoli e stirpi di Arda sono ben delineate da specifici tratti fisici e caratteriali. Ma soprattutto nella cosmogonia e mitologia di Arda vige una rigida gerarchia razziale.
Elfi e Uomini sono Figli di Iluvatar, il Creatore, rispettivamente Primogeniti e Secondogeniti. I Nani invece no, sono figli adottivi, perché li ha creati una sotto-divinità, il vala Aulë. Gli Orchi sono una razza derivata dagli Elfi per corruzione. La razza degli Uomini è a sua volta suddivisa in popoli le cui caratteristiche fisiche e morali si accordano al grado di distanza, anche geografica, dagli dei. Quindi si va dai “caucasici” membri della Casa di Hador, Numenoreani, Rohirrim – tra i quali si troveranno coloro che resisteranno alle insidie di Morgoth e Sauron – ai piccoli modesti Mezzuomini (Hobbit), fino agli Esterling e ai Sudron, dai tratti orientali e dalla carnagione scura, traditori dei propri simili nella Nirnaeth Arnoediad, e poi volenterosi alleati di Sauron.
A questo si aggiunge che nelle storie di Tolkien le uniche coppie interazziali di cui si ha notizia sono talmente rare da essere famose: Thingol e Melian, Beren e Lúthien, Tuor e Idril, Aragorn e Arwen.
Dunque è innegabile che nella storia di Arda l’identità razziale o etnica abbia un ruolo importante. E si potrebbe aggiungere che essendo la Terra di Mezzo anche una proiezione fantastica della parte occidentale dell’Europa, i nemici umani di Gondor e Rohan sono orientali e meridionali perché nell’antichità e nel Medioevo europeo, a cui Tolkien vagamente si ispira, è da lì che sono sempre arrivati gli invasori: Persiani, Arabi, Unni, Mongoli, Turchi, ecc., ai quali Esterling e Sudron assomigliano parecchio.
3. Potenza e potenzialità del testo
Secondo Tolkien, «Elfi e Uomini sono aspetti differenti dell’Umano» (lettera 181), così come gli Hobbit sono «uomini comuni» molto simili a noi (lettera 131). Per certi versi questo potrebbe essere esteso a tutte le razze di Arda. Le caratteristiche peculiari di ogni razza lo sono in primis perché stanno per qualcos’altro, ovvero per le varie attitudini umane. Siamo tutti un po’ algidi conservatori come gli Elfi, un po’ orgogliosi e avidi come i Nani, un bel po’ corrotti devastatori come gli Orchi, e più di un po’ volubili come gli Uomini (ma anche coriacei e umili come i Mezzuomini).
In altre parole, il mondo coniato da Tolkien è assolutamente razziale e razzializzato, ma è anche una metafora che sarebbe sciocco prendere alla lettera, cercando corrispondenze con il nostro mondo. È proprio quello che si sforzò di dire Tolkien nelle sue lettere e anche nelle interviste degli anni Cinquanta e Sessanta per smarcarsi dalle letture razziste del Signore degli Anelli.
Ecco perché – al netto dell’opportunità politica – non può essere efficace una protesta per la scorrettezza filologica nella resa delle razze tolkieniane trasposte sullo schermo. Certo, a meno di non contestare allo stesso modo anche altre licenze poetiche in quanto tali, come ad esempio i piedoni degli Hobbit, di cui Tolkien non ha mai parlato, e che cinema e tv hanno trasformato nel loro tratto peculiare. La differenza tra gli Hobbit macropodi e gli Hobbit neri è tutta politica e riguarda il nostro mondo, non quello creato da Tolkien. Perché negli Anelli del Potere gli Hobbit sono Hobbit – anche se non si chiamano ancora così. Lo stesso vale per Elfi, Nani e Uomini: le caratteristiche tipiche delle razze tolkieniane sono rispettate. Eccetto il colore della pelle. Il problema quindi non è l’hobbit nero, ma l’hobbit impersonato da un nero.
Si potrebbe aggiungere che nemmeno la rappresentazione di genere negli Anelli del Potere è propriamente filologica. Se i pochi ma buoni personaggi femminili tratteggiati da Tolkien nelle sue storie non sono quasi mai protagonisti, nella serie tv le donne assumono un ruolo preponderante. Anche questo, si diceva, è stato stigmatizzato da certi fan critici: l’ostentazione di femminismo tramite la messa in scena di protagoniste intraprendenti che incarnano un girl power fin troppo contemporaneo. Galadriel, Miriel, Browyn e Nori, protagoniste delle loro sottotrame, sono donne volitive dalla forte personalità. I personaggi maschili, al loro confronto, sono quasi tutti degli indecisi o dei meschini o dei cavalieri serventi di scarso carattere e di non troppa utilità.
Eppure, a guardar bene, nemmeno questo contraddice i principi del mondo immaginato da Tolkien. Perché le società patriarcali della Terra di Mezzo sono effettivamente popolate anche da donne capaci di entrare in conflitto con il ruolo a loro riservato, in vari modi e con vari esiti, alcuni fortunati altri tragici. Scegliere di raccontare la storia dal loro punto di vista, mettendole al centro ed esaltandole, non snatura un bel niente, casomai sviluppa una potenzialità insita nel racconto stesso. Vengono in mente la saggia e abile Nerdanel; la potente Melian; la poliedrica Lúthien; la sfortunata Finduilas; la caparbia Erendis; e certo anche le più celebri Galadriel, Arwen ed Éowyn, già trasposte sullo schermo. Ognuna di loro è – in potenza o in atto – protagonista indiscussa della propria storia, e assolutamente in grado di mettere in ombra i comprimari maschili.
4. «Galadriel è un dito in culo»
A conti fatti, il problema di certo fandom con Gli Anelli del Potere non è più filologico di quanto non sia politico. Se la serie Amazon Prime supera la coerenza etnica per fare woke-washing e ammantarsi di un’aura progressista, bisognerà pur chiedersi quanto un’accusa del genere nasconda il sincero fastidio per la rappresentazione post-etnica e post-sessista.
In fondo, l’abolizione della coerenza etnica nelle serie tv, come Bridgerton, Gli Irregolari di Baker Street, La Ruota del Tempo, e Gli Anelli del Potere, equivale a dire una cosa che – secondo un celebre aneddoto, vero o falso che sia – Albert Einstein scrisse sul modulo di richiesta d’ingresso negli Stati Uniti d’America, da emigrante in fuga dalla Germania nazista: alla voce “race” il padre della teoria della relatività scrisse “human”. Il fatto che nella rappresentazione scenica la mescolanza etnica avvenga senza alcuna giustificazione filologica, ossia come manifesta affermazione di unicità della razza umana, mette allo specchio la nostra visione razzializzante di questo mondo, quella a cui siamo abituati da sempre.
Un problema analogo lo crea la diminutio capitis della componente maschile negli Anelli del Potere, percepita come una forzatura. E lo è senz’altro. Di fatto vediamo una storia in cui le donne dominano; non devono essere difese, ma si difendono da sé; non hanno bisogno di un uomo al loro fianco per essere complete, ma possono fare scelte di vita diverse; non subiscono l’autorità maschile, ma addirittura comandano gli uomini, perfino sul campo di battaglia.
Cosa infastidisce di queste rappresentazioni di girl power e post-etnicità? E chi è infastidito da una certa enfasi, per quanto strumentale possa essere? La sensazione, per dirla in termini un po’ rozzi, è che siano ancora maschi bianchi a rigettare tutto questo, al fondo irritati dall’ostentazione di quei modelli. La contraddizione si manifesta dentro la coscienza maschile bianca, che è al tempo stesso quella dominante e quella oggi più in crisi.
Chi non ha una coscienza di questo tipo è Ebony Elizabeth Thomas, autrice di The Dark Fantastic: Race and Imagination from Harry Potter to the Hunger Games (2019), professoressa associata all’Università del Michigan. Thomas ha fatto notare come i personaggi neri semplicemente ci sembrino fuori luogo nel genere fantasy perché «le persone sono abituate a vedere il fantasy e le fiabe come tutte bianche, in particolare in ambientazioni pseudo-medievali o magico-medievali. […] Ora che si trovano spinte fuori dal modo in cui hanno sempre immaginato il fantasy si sentono a disagio. Ecco perché dicono: “Chi sono questi personaggi? Questo non è ciò che intendeva Tolkien! Non è accurato!”»
All’accuratezza Thomas contrappone l’autenticità. Dal momento che la razza è un costrutto arbitrario, culturale e politico, scegliere attori neri per interpretare gli Elfi o gli Hobbit non è meno autentico che scegliere attori bianchi, benché senz’altro sia meno accurato dal punto di vista filologico. Ogni rappresentazione volente o nolente è rappresentazione della società che la produce e il nostro mondo, la nostra coscienza attuale, non sono gli stessi di quando Tolkien scriveva le sue storie.
«I miei antenati sono qui, parlano inglese, da dieci generazioni», dice la professoressa Thomas. «Non è un caso che alcune strane persone che non provengono dalla cultura anglo-americana stiano improvvisamente chiedendo di essere rappresentate. Siamo qui da secoli. E continuiamo a esistere».
E non è nemmeno un caso che a centrare l’aspetto politico della faccenda, e a rivendicarlo, sia una donna americana non bianca, che studia il portato razzializzante del fantasy. The Times They Are a-Changin’, cantava quel tale.
5. Raddrizzando il tiro: ritorno all’economia politica
Mentre nei maestosi panorami della Nuova Zelanda si girava la prima stagione degli Anelli del Potere, il colosso dell’e-commerce al vertice dello spezzone più avanzato del capitalismo globale – quello della logistica, della distribuzione a domicilio di merci e intrattenimento – prosperava sulla pandemia.
Nel marzo del 2020, la prospettiva planetaria di lunghi mesi di confinamento domestico e negozi chiusi a oltranza, ha portato Amazon a investire 350 milioni di dollari in un enorme piano espansivo, con l’assunzione di centomila nuovi dipendenti nel mondo. Nel 2021 Amazon ha superato il valore di un trilione di dollari di capitalizzazione in borsa, entrando nel novero delle superpotenze del mercato globale insieme a Microsoft e Apple. Di pari passo in vari paesi del mondo, inclusa l’Italia, sono partite grandi lotte dei lavoratori degli hub Amazon per introdurre diritti sindacali, condizioni di lavoro più eque, stabilizzazione contrattuale e paghe migliori. Perfino i governi ultraliberisti dei paesi occidentali hanno iniziato a porsi il problema di come contenere o regolamentare l’espansione infinita del moloch amazonico.
Tra le altre cose, le straordinarie immagini della Terra di Mezzo negli Anelli del Potere celano – o piuttosto dimostrano – la capacità del grande capitale di prosperare sulla crisi e di dipingersi sul piano spettacolare come promotore dei diritti universali e del melting pot. Quelli che contestano Jeff Bezos per la sua ostentazione woke (che siano i fantomatici fascisti o altri senz’arte né parte), lo fanno per i motivi sbagliati e soprattutto perdenti, offrendo all’uomo sempre più ricco del mondo l’opportunità di presentarsi come paladino di libertà e progresso contro un fandom retrogrado, reazionario e razzista. Ma i diritti che costui nega sono quelli dei lavoratori – ad esempio impedendo o ostacolando l’attività sindacale, sorvegliando elettronicamente i dipendenti, ecc. – e il denaro che costui investe nelle mega produzioni televisive proviene dal più alto tasso di sfruttamento del lavoro subordinato, quello dei lavoratori della logistica.
L’incapacità di criticare e attaccare le fondamenta dello strapotere di Amazon – come di altri analoghi colossi privati che colonizzano le nostre esistenze tramite le nuove tecnologie – è direttamente proporzionale all’inefficacia della critica mossa al loro idealismo woke. Così come apprezzare quest’ultimo senza un corollario di critica all’economia politica equivale a ignorare le contraddizioni di quelli che un tempo erano i padroni delle ferriere e oggi sono i padroni dell’industria dell’immaginario, signori dei big data e dell’algoritmo.
In definitiva pare evidente che sul lavoro creativo di un oscuro professore di filologia del secolo scorso, diventato fenomeno planetario grazie allo show business, insistono oggi spinte ideali, politiche ed economiche connesse alle trasformazioni e alle contraddizioni del mondo. Che qualche anima bella possa deprecare la contaminazione mondana dell’opus tolkieniano con i conflitti del presente e qualcun’altra più cinicamente realista possa invece accettarla come inevitabile, ciò che sta accadendo in questi anni dimostra ancora una volta quanto la creazione tolkieniana sia viva e in divenire mezzo secolo dopo la morte del suo autore.
La battaglia per la Terra di Mezzo ha ormai una dimensione e una scala nuove, con un legame sempre più forte ed esteso con la realtà primaria. Non nel senso che Tolkien avrebbe immaginato, certo. Ma la storia non va mai come vogliamo. Nemmeno quella su cui apponiamo la firma e un imprimatur. Perché in fondo le storie la sanno sempre più lunga dei loro autori.