L’ex primo ministro del Giappone Shinzo Abe è stato ucciso lo scorso 8 luglio durante un comizio della sua campagna elettorale da parte di Tetsuya Yamagami. Questo ha spiegato alla polizia di aver sparato all’ex primo ministro giapponese per i suoi legami religiosi con la setta della Chiesa dell’Unificazione. Come ha rivelato un articolo apparso sul “The Guardian” lo scorso 27 settembre, data dei funerali di Shinzo Abe, dal titolo “I funerali di stato per Shinzo Abe tra le polemiche”, sebbene non ci fossero particolari legami tra Abe e la Chiesa dell’Unificazione, un recente sondaggio in seno al partito dell’ex premier – lo storico partito Liberal-Democratico – ha appurato che la metà dei membri ha rapporti con la chiesa e subisce in qualche modo la sua influenza. C’è anche da dire che questa Chiesa, fondata nel 1954 in Corea del Sud, ha avuto il suo radicamento in Giappone grazie all’impegno del nonno di Shinzo Abe, l’ex primo ministro Nobusuke Kishi.
Quello che però ha scatenato la rabbia di tantissimi giapponesi, sono stati gli esosi costi dei funerali di Stato previsti per la morte di Abe, che hanno toccato la cifra di 12 milioni di dollari, un ammontare spropositato rispetto a qualsiasi altro funerale di Stato precedentemente svolto nel paese. E così, nella giornata in cui si sono svolti i funerali, circa 15 mila persone hanno manifestato pacificamente a Tokyo sotto il palazzo della Dieta giapponese, sede del governo. A fare da sfondo alla protesta è stata la logica del grande evento, che in una fase di crisi economica e sociale peserà sulle casse dello Stato in maniera cospicua.
La protesta di tanti giapponesi ha quindi simboleggiato un racconto della vita politica del paese diverso dalla solita rappresentazione statica, organica e corporativista della società nipponica. E proprio contro questa visione vale la pena menzionare alcuni saggi, fumetti, inchieste, film, interviste che possono fare da appunti per una storia sociale del Giappone.
Noe Ito, vita e morte di un’anarchica giapponese (Francisco Soriano, Mimesis, 2018, 97 pp.)
Nell’epoca Taisho (1912 – 1926) il Giappone è ormai una potenza mondiale industriale e militare. Del processo di industrializzazione sono protagoniste le masse operaie sfruttate, che provano anche a mettere in moto contestazioni e proteste organizzate. Si formano i sindacati, i lavoratori scendono in strada, le organizzazioni di sinistra rivoluzionaria (socialisti, comunisti, anarchici) sono presenti nella vita politica e culturale del paese, e questo inizia a dare fastidio a chi controlla le leve del potere. Quando infatti il devastante terremoto del Kanto del 1923 mette in ginocchio il paese, con più di centomila morti e un’enorme scia di distruzione, proprio nella contingenza di quel disastro, le forze di polizia militare nipponiche decidono di arrestare e uccidere in modo brutale la scrittrice anarco – femminista Noe Ito e il marito, l’anarchico Sakae Osugi.
Nel libro di Soriano vi è una ricostruzione complessiva della presenza e l’impatto delle forze rivoluzionarie presenti in Giappone, della repressione che dovettero subire, e di quanto fossero attive e vivaci ad esempio le anime femministe, di cui faceva parte Noe Ito, in un paese con una cultura patriarcale atavica e che nel periodo di industrializzazione aveva fatto della donna l’emblema di una schiava che lavorava per le stesse ore di lavoro e con una minore redistribuzione. Il Giappone non è un paese che per vocazione, inclinazione, è stato omogeneamente e senza contraddizioni incline a un capitalismo ovattato ed irreggimentato, come il libro del docente universitario Soriano ben attesta.
Showa – Una storia del Giappone – 1926 – 1939 (Shigeru Mizuki, Edizioni BD, 2021, 532 pp.)
Shigeru Mizuki è riconosciuto come uno dei più grandi mangaka della storia. Insignito di numerosi premi in Giappone, ha anche ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale, come il prestigioso premio Angouleme nel 2007 e il premio Eisner nel 2012. “Showa” è un’opera importante, costituita da quattro volumi che abbracciano l’arco temporale del periodo di vita dell’imperatore Hiroito, dal 1926 fino al 1989 (in Italia non è stato ancora pubblicato l’ultimo volume): Vol 1 1926 – 1939; Vol 2 1939 – 1944; Vol 3 1944 – 1953; Vol 4 1953 – 1989.
Le vicende storiche sono narrate nella forma di storytelling del fumetto, a cui si intervalla la storia personale di Shigeru. Ho avuto sottomano l’intera opera, ed il primo capitolo credo che sia il più intenso sul piano narrativo ed emozionale, e quello più significativo dal punto di vista storico. Per quanto riguarda il primo punto infatti, Shigeru parla della sua infanzia e della sua estrazione sociale, povera sicuramente, ma legata a un mondo rurale costituito da una cultura fatta di miti popolari, figure familiari importanti, di giochi e scontri tra bambini. C’è anche la storia della sua vita da giovane in cui, in un Giappone sempre più autoritario nei luoghi di lavoro, come proiezione del sistema militare sempre più incombente su tutta la società, Shigeru con la sua indolenza e riluttanza sembra voler scansare ogni attività e lavoro oppressivo e rigido.
Sul piano della ricostruzione storica, Mizuki descrive un Giappone in cui nel 1925 viene promulgata la “Legge sul mantenimento dell’ordine pubblico”, un punto di non ritorno nella storia del Paese sul piano della repressione del dissenso. Si tratta infatti di una legge in base a cui, come ha scritto Francesco Soriano nel suo testo dedicato a Noe Ito, «in venti anni, tra il 1925 e il 1945, più di 75000 persone furono attenzionate, imprigionate e torturate».
Dopo la crisi economica internazionale del 1929 il Giappone scivola in una drammatica spirale di povertà. I partiti liberali dell’epoca Taisho non mettono in campo misure sociali e la destra militarista prende campo nel paese. Il 1933 è l’anno della definitiva svolta autoritaria: la Dieta giapponese è sottomessa al militarismo, il Giappone esce fuori dalla Società delle Nazioni che si oppone alle mire imperialistiche del governo autoritario del paese nell’area asiatica. Il 1937 è l’anno del massacro di Nanchino: l’esercito Giapponese in Cina fa strage di soldati e civili per un totale di 100 mila persone.
In Giappone la popolazione, che subisce una forte fascinazione culturale dalla politica militarista del proprio governo, festeggia a seguito di questo eccidio colonialista. Mentre in Europa crescono quelle dittature che hanno molto in comune con il governo militare del Sol Levante e che con esso troveranno una drammatica convergenza politica, il Giappone è pronto ad estendere il proprio dominio su tutta l’area asiatica e dichiarare guerra a chiunque si opponga ad esso. Siamo ai prodromi della seconda guerra mondiale.
Il Giappone moderno – Una storia politica e sociale (Elise K. Tipton, Einaudi, 2011, 446 pp.)
Con uno stile incalzante e carico di partecipazione, con un’analisi in cui gli aspetti politici, sociali, e culturali vengono messi a fuoco in una prospettiva analitica accurata e che rileva tutte le contraddizioni del Giappone, il libro della docente di cultura giapponese presso l’Università di Sidney è un testo da leggere per comprendere la storia del Paese. E se forse il testo di Soriano ed il manga di Mizuki possono essere molto utili per comprendere la storia nipponica dal 1600 fino al secondo dopoguerra, il testo della Tipton (che comprende comunque un arco di tempo che va dal diciassettesimo secolo fino ai giorni più recenti) può risultare molto valido per conoscere la storia di questo Paese dal 1945 fino al 2008, prima dello scoppio della crisi economica finanziaria internazionale.
E partiamo proprio dal 1945: il Giappone esce sconfitto dalla guerra e l’unica potenza vincitrice ad occuparsi delle sue sorti sono gli Stati Uniti, che decidono di introdurre nella vita politica del paese alcune riforme democratiche in netta contro-tendenza rispetto alle politiche autoritarie dei primi anni del novecento. Politiche che i giapponesi sembrano appoggiare pienamente: il primo maggio del 1946 fu partecipato da quasi due milioni di giapponesi con una Tokyo piena di bandiere rosse (che alludevano ad un’idea generica socialista più che al comunismo sovietico), e nello stesso mese una folla di 250 mila persone sfila sotto il palazzo imperiale chiedendo maggiori diritti per i lavoratori.
Così non va, gli Stati Uniti attraverso lo Scap, il comando supremo delle forze alleate che si occupa della gestione del paese, ammonisce severamente il governo nipponico di far sì che questi “eccessi” di democrazia siano evitati. I patti tra lo Scap e il nuovo governo di ispirazione democratico-liberale si espressero su un punto focale che sarà determinante per gli anni a venire: lo smantellamento del proprio esercito e la presenza di una forza di autodifesa che non poteva prendere parte alle controversie internazionali.
Il popolo giapponese, memore del proprio drammatico passato, si legherà molto a questa idea pacifista e anti-militarista. È il 1960 e i nuovi trattati Anpo tra Stati Uniti ed il governo liberal-democratico giapponese avevano messo sul piatto delle trattative la crescita ulteriore dell’apparato militare nipponico: una folla oceanica di cittadini si riversa sulle strade, immortalata da una celebre foto, contro i trattati di rimilitarizzazione. Ci sono anche scontri con la polizia, in cui muore una giovane studentessa che faceva parte di un’organizzazione studentesca di sinistra. Da allora, fino agli anni Novanta (anni in cui gli Stati Uniti eserciteranno una certa pressione sul governo giapponese in termini militari per il suo coinvolgimento nella Guerra del Golfo, senza ottenere particolari risultati a causa delle proteste dell’opinione pubblica) il governo manterrà il limite ufficioso, ma pubblicamente riconosciuto, di mantenere sempre bassa la spesa militare.
Il 1960 è anche l’anno di grandi proteste operaie (lo sciopero delle miniere del carbone di Miike), che si legheranno successivamente con le proteste dei movimenti studenteschi extra – parlamentari del 1968 di cui fu protagonista l’organizzazione Zengakauren Zenkyoto (anti – capitalista, contro la società della “produzione di massa”, contro il comunismo sovietico). Gli studenti giapponesi riuscirono a tenere chiusa la prestigiosa Università di Tokyo addirittura per un anno, poi l’occupazione fu fermata da un contingente di ben 8000 poliziotti.
Da qualche anno (metà anni 50) ad ogni modo il Giappone si era ormai avviato verso una crescita economica definitiva, una sorta di “miracolo economico” che caratterizzerà la sua storia fino al 1991, anno della grande bolla finanziaria che scoppia nel Paese. Si creerà un benessere diffuso tra mille contraddizioni (le minoranze etniche, il sottoproletariato e le donne faranno più fatica di altri a vedere riconosciuti i loro diritti), ma allo stesso tempo verrà a formarsi una classe media consapevole del proprio benessere economico.
Certo, se si guardano le manifestazioni e proteste sociali del Giappone a partire dai primissimi anni del dopoguerra fino al 1968, una cosa è chiara (ed è questa la tesi che la Tipton porta avanti nel suo libro): più che una cultura organicamente capitalista, con visione che mischiava la tradizione orientale con il culto della “società dei consumi”, il Giappone ha fondato la sua coesione sociale su un patto tacito tra classi diverse classi sociali. Cittadini, lavoratori e studenti hanno abdicato alla protesta sociale in nome di un benessere materiale che hanno conseguito in pieno, sentendosi in qualche modo parte di quella che negli anni ‘80 divenne l’economia numero due del mondo e senza disturbare la classe di burocrati e imprenditori alla guida del paese.
L’ideologia capitalista del merito, lavorista, e competitiva, ha trionfato, ma il testo mette in luce chiavi di lettura e contraddizioni importanti. I primi e significativi scricchiolii del modello Giapponese come modello economico sociale vincente si avranno proprio a partire dalla bolla speculativa del 1991 e sono ben descritti nel testo della Tipton, che si ferma per una curiosa casualità proprio all’alba della crisi finanziaria internazionale del 2008, che investirà anche il paese del Sol Levante come tutto il resto dell’Occidente.
Il Giappone di oggi: contraddizioni e proteste nel nuovo secolo del Sol Levante
Sulle condizioni di nuove e consolidate forme di ingiustizia sociale del Giappone contemporaneo, possiamo fare riferimento al film che ha vinto la palma d’oro al Festival di Cannes nel 2018, dal titolo “Un affare di famiglia”, in cui si descrive il microcosmo del sottoproletariato nipponico che combatte contro una dura povertà. Un reportage che fa luce su una delle zone d’ombra delle disuguaglianze del Giappone di oggi è quello dal titolo “Gli evaporati del Giappone”, scritto dalla giornalista francese classe 1983 Lena Mauger e pubblicato nella raccolta di racconti e articoli sul Giappone dal titolo “Racconti del Giappone” (A cura di Antonietta Pastore, Einaudi, 2021, 288 pp.) Gli evaporati (Yonige) sono coloro i quali, caduti in estrema povertà e sommersi da debiti che non possono ripagare, vivono nascosti in zone d’ombra e periferiche delle metropoli, rinunciando a qualsiasi diritto come quelli dell’assistenza medica. Un fenomeno non marginale ed inquietante che fotografa un’aspetto della società nipponica immortalato dall’articolo della giornalista francese scritto nel 2014.
Eppure in Giappone si sono registrate negli ultimi anni mobilitazioni importanti contro il nucleare e contro la ri-militarizzazione. Di seguito due interviste alla giornalista Chie Matsumoto, una pubblicata su Globalproject.info nel 2014 ed una su Dinamopress nel 2015.
Certo, per avere un’idea non esauriente ma in qualche modo esemplificativa del Giappone su un piano politico, vale la pena riportare le parole della giovane manifestante Beniko Hashimoto, che in un’intervista al “The Guardian” del 2015, durante le proteste contro la re – militarizzazione ha affermato: «I giovani giapponesi non hanno consapevolezza politica come i giovani di altri paesi, ma perché siamo stati educati a pensarla in un certo modo. C’è una tendenza in Giappone nel pensare che siccome qualcuno è al potere e dice che è tutto okay, allora è così». La protesta contro le spese esose per il funerale dell’ex primo ministro Abe dimostra che però una parte dell’opinione pubblica del paese non è affatto silente.