La storia della battaglia: la manovra, parte 2

Big Serge
bigserge.substack.com

Nel primo capitolo di questa serie, abbiamo esaminato quelli che possono essere definiti i fondamenti assoluti della guerra di manovra: la concentrazione della forza di combattimento, la penetrazione nelle retrovie nemiche e l’avvolgimento di una parte o di tutte le forze nemiche. Un singolo schema di avvolgimento di questo tipo, sia che venga realizzato attraverso uno schieramento asimmetrico come quello dei Tebani a Leuttra o con un movimento di fiancheggiamento come quello di Rommel a Gazala, rappresenta una sorta di schema di manovra generalizzato, un modello base – un progetto potente, ma comunque da manuale.

In questo articolo, amplieremo l’ambito del nostro studio per esaminare la manovra su una scala più ampia, dimostrando così un principio opposto allo schwerpunkt, che avevamo introdotto la volta scorsa. Con lo schwerpunkt si concentra la forza combattiva in una massa in grado di produrre il massimo sforzo in un punto decisivo. Si tratta di un potente strumento bellico, ma non è privo di rischi e svantaggi: l’accumulo di una massa concentrata, se conosciuto dall’intelligence nemica, rivelerà l’intenzione di attaccare e lo metterà in guardia sulle vulnerabilità di altre [vostre] posizioni.
Stiamo parlando del grande vantaggio dato dall’ambiguità operativa. Tutte le decisioni militari sono intrinsecamente legate al gioco di base dello spionaggio (conoscere le intenzioni del nemico) e del contro-spionaggio (nascondere le proprie intenzioni). Uno dei paradossi della strategia, quindi, è che azioni che potrebbero generare benefici sotto forma di asimmetrie sul campo di battaglia – come la concentrazione delle forze – possono produrre asimmetrie negative rendendo palesi le proprie intenzioni al nemico.

Chiunque abbia giocato a scacchi (o a qualsiasi altro gioco di strategia) è consapevole di questo paradosso. Sviluppare i pezzi per un attacco comporta la possibilità intrinseca che l’avversario riconosca la vostra intenzione e reagisca in modo ottimale, perché esiste sempre l’opportunità di reagire. Pertanto, negli scacchi come in guerra, è assolutamente necessario mantenere un certo livello di ambiguità.

Un modo per raggiungere questo obiettivo è la cosiddetta dispersione delle forze. Si tratta dell’opposto dello schwerpunkt e della concentrazione e, di conseguenza, inverte le asimmetrie positive e negative della concentrazione di forze. La concentrazione di forze offre un alto livello di efficacia bellica, ma un livello molto basso di ambiguità strategica. La dispersione, al contrario, offre una capacità bellica rarefatta e indebolita, ma la massima ambiguità. La difficoltà sta nel gestire un giusto rapporto tra le due cose.

Nel corso della storia, i comandanti di maggior successo sono stati quelli che erano riusciti a mantenere un alto grado di dispersione delle forze – distribuendo le unità e manovrandole in modo da lasciare il nemico paralizzato e nel dubbio, per poi riunirle nel momento cruciale per ottenere la massima efficacia di combattimento. L’ideale è che l’esercito disperso manovri in modo indipendente ma combatta unito, passando senza soluzione di continuità, e al momento giusto, dalla dispersione alla concentrazione. Si tratta di una cosa materialmente difficile da fare, perché richiede non solo mobilità, ma anche un efficace sistema di comando e controllo per muovere sinergicamente grandi unità in un teatro ampio, concentrandole in battaglia al momento ottimale.

Esaminiamo alcuni dei principali esempi della storia di questa dualità dispersione-concentrazione e dell’abile movimento di grandi unità attraverso vasti spazi. Non sorprende che questi esempi provengano da tre dei più importanti geni militari di tutti i tempi, a cominciare da uno degli uomini più rappresentativi di tutta la storia: l’analfabeta conquistatore del mondo e signore di tutti coloro che abitavano nelle tende di feltro.

L’apogeo di Gengis Khan

Tutti conoscono Gengis Khan. Il suo nome continua ad impressionare più di qualsiasi altra figura storica, anche se il nome stesso è oggetto di dibattito. Probabilmente, dovrebbe essere scritto e pronunciato più o meno come”Chinggiz Khan” – un titolo che dovrebbe significare “sovrano universale,” che si pensa derivi dalla parola turca “Tengiz,” “mare” – il che implica che egli governasse da mare a mare. In ogni caso, che sia Tengiz, Chinggiz o Gengis Khan, tutti lo conoscono come il sovrano di quell’irresistibile orda mongola che aveva attraversato l’Eurasia, costruendo il più grande impero terrestre che il mondo avesse mai visto.

Il conquistatore del mondo

Ironia della sorte, Gengis è noto soprattutto per qualcosa che, in realtà, non aveva realizzato quand’era in vita – la conquista della Cina – mentre il suo autentico capolavoro militare è molto meno famoso.

Cominciamo con un breve commento sulla reale portata delle conquiste di Gengis. Prima di conquistare il mondo, Gengis aveva dovuto sottomettere la Mongolia, un’impresa molto più difficile di quanto sembri. Il mondo mongolo era costituito da tribù di pastori nomadi – clan che vagavano perennemente nella steppa, portandosi dietro capre, pecore, cammelli, bovini e cavalli dai pascoli ai corsi d’acqua, secondo schemi stagionali. Si trattava di un’esistenza estremamente dura, che manteneva i nomadi in uno stato di perpetua vigilanza: il disastro era sempre ad un passo. Questo aveva favorito un sistema politico intrinsecamente miope, concentrato sull’immediato e sui bisogni quotidiani, con i khan costantemente sotto pressione per ottenere risultati e ricompense in una società della steppa che era costantemente in uno stato di guerra intertribale e interclanica a bassa intensità.

Per domare questa steppa politicamente fluida e instabile – popolata non solo dalla tribù mongola, ma anche da altri popoli, come i Niaman, i Taichiud e i Khereidi, oggi per lo più dimenticati, era stato necessario un lungo e impegnativo programma di conquiste militari e di intrighi politici, attività in cui Gengis Khan (nato Temujin) si era rivelato un maestro. Solo nel 1206, all’età di 40 anni, Gengis aveva potuto definirsi il sovrano indiscusso della steppa mongola e assumere il suo famoso titolo.

Gengis aveva poi trascorso la maggior parte della sua vita in guerra, schierando la sua confederazione della steppa appena consolidata contro una serie di Stati stranieri – molti dei quali oggi dai nomi dimenticati e privi di significato, come gli Xia (un piccolo Stato cinese nascosto nelle propaggini della Mongolia esterna) e i Qara Khitai nella Cina occidentale. Anche se Gengis aveva sottomesso questi Stati e distrutto la forza militare della Cina settentrionale, gli Stati cinesi principali (quelli delle dinastie Jin e Song) erano semplicemente troppo grandi e troppo popolati per essere conquistati in tempi rapidi. Come un elefante che va mangiato un boccone alla volta, la Cina sarebbe stata completamente conquistata dai Mongoli solo nel 1279, più di cinquant’anni dopo la morte di Gengis.

La culla dell’impero più grande del mondo

In un vero e prorio colpo di scena della storia, il più grande successo militare di Gengis era stato quello che non aveva mai pianificato.

All’inizio del XIII secolo, gran parte dell’Asia centrale era sotto il dominio di una entità a noi nota come Impero Corasmico. Questo regno viene spesso identificato come un impero persiano, in quanto i suoi governanti e il suo establishment militare erano in gran parte composti da turchi persianizzati. Al suo zenit, era uno Stato islamico davvero colossale e prospero, che comprendeva la maggior parte degli attuali Iran, Afghanistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan. Si trattava di uno di quegli imperi dell’Asia centrale assemblati e composti da pezzi politici e culturali disparati: la lingua franca era il persiano, la lingua liturgica delle moschee era l’arabo e la dinastia al potere era turca.

Purtroppo, lo Scià corasmico aveva commesso uno dei più grandi errori della storia dell’umanità, scatenando sul suo regno un’ira di dimensioni bibliche.

Gengis non aveva progetto militari riguardanti il Regno Corasmico. Era impegnato a divorare la Cina, il grande elefante, e, dal momento che considerava il regno persiano come un partner commerciale potenzialmente redditizio, aveva inviato una carovana con alcuni emissari per stringere accordi commerciali nei mercati corasmiani. Sfortunatamente, il governatore dello scià di Otrar aveva accusato i Mongoli di essere spie, saccheggiato la carovana e ucciso molti degli uomini di Gengis. Gengis aveva quindi inviato tre ambasciatori allo Scià per chiedere il rilascio dei suoi uomini, lo Scià ne aveva fatto decapitare uno e rimandato gli altri a Gengis con la testa rasata a zero.

L’assassinio di un inviato che agiva in nome del Khan era stato percepito come un grave insulto all’onore e alla persona del Khan stesso e l’unica risposta possibile era distruggere completamente l’Impero Corasmico. L’inferno stava arrivando a cavallo.

La campagna corasmiana di Gengis, benché del tutto imprevista e interamente basata sui crimini commessi dai Persiani contro i suoi commercianti e i suoi inviati, si sarebbe rivelata il risultato militare più importante del grande Khan. Ancora più importante per noi è la dimostrazione dell’abilità dei Mongoli in campo operativo, al di là del valore individuale in combattimento.

La maggior parte delle persone sa che l’esercito mongolo era fondamentalmente un esercito di cavalleria che traeva un enorme vantaggio in combattimento dall’abilità degli arcieri a cavallo. L’arma simbolo dei Mongoli era l’arco ricurvo composito. Sebbene le civiltà vicine considerassero i nomadi delle steppe alla stregua di primitivi, l’arco composito era un’arma complicata da costruire ma estremamente potente. Realizzato con una miscela di materiali stratificati, tra cui legno, corno e tendini animali, e laccato per proteggerlo dall’essiccazione, l’arco mongolo era potente, ma abbastanza leggero da poter essere usato in sella. L’arciere a cavallo era in grado di scagliare frecce con precisione e velocità di tiro stabile, guidando al contempo il cavallo in manovre coordinate utilizzando piedi. Questo era stato l’armamento di base che aveva permesso la conquista della maggior parte dell’Eurasia. Un cavallo, un arco e un uomo in grado di controllarli simultaneamente.

Cavallo. Uomo. Arco. La superarma ante-polvere da sparo

Queste abilità sono di natura tattica e davano ai Mongoli la possibilità di aumentare l’efficacia del combattimento in una battaglia tradizionale. L’invasione dell’Impero Corasmico, invece, dimostra l’abilità operativa dei Mongoli, ovvero la loro capacità di manovrare unità militari su grandi distanze con estrema precisione e grande coordinamento.

Il loro stile di vita aveva dotato i Mongoli di una serie di abilità che consentivano loro di affrontare i rigori di una campagna a lunga distanza. In quanto nomadi, erano abituati a vivere in movimento e a percorrere lunghe distanze in sella, con scorte di cibo mobili sotto forma di greggi. Ma, soprattutto, la logistica degli spostamenti di grandi mandrie nella steppa, composte da animali con esigenze diverse in termini di acqua e cibo, aveva contribuito a sviluppare una notevole abilità nel coordinare i movimenti e le azioni in spazi vasti. Queste abilità venivano affinate ed esibite con grande efficacia durante il periodo di caccia.

I Mongoli praticavano una forma di caccia unica e impressionante, talvolta chiamata Nerge o Battue. Si trattava di una caccia ad anello: migliaia di uomini iniziavano la caccia formando un vasto cerchio, fino a 80 miglia di circonferenza. Nel corso di un mese, si muovevano lentamente verso il centro, spingendo tutti gli animali della zona inesorabilmente sempre più all’interno, finché, alla fine, tutte le prede finivano intrappolate in una piccola area di uccisione. Con questa pratica si potevano radunare centinaia di animali, ma era logisticamente molto difficile da eseguire e richiedeva coordinazione e disciplina.

Tutte queste abilità rendevano i Mongoli degli eccellenti praticanti operativi, come era risultato evidente nel 1219, quando era iniziata la guerra contro l’infido Shah. L’esercito di Gengis era diviso in divisioni chiamate Tumen – unità di 10.000 uomini, ulteriormente suddivise in unità di 1.000, 100 e 10 uomini. Il piano d’invasione adottato prevedeva l’invio di questi Tumen su linee d’avanzata separate per tutta l’ampiezza del regno dello Scià, prima di riunirli per il colpo di grazia: anche a distanza di 800 anni, l’operazione rimane un esempio quasi perfetto di dispersione delle forze e rapida concentrazione.

Gengis aveva iniziato il suo capolavoro nell’inverno del 1219, schierando immediatamente una forza di 3 Tumen (30.000 uomini) nella Valle di Fergana, nella parte orientale del regno persiano. L’attacco, che aveva fatto vacillare le ipotesi di lunga data sulla bontà delle difese naturali dell’impero, aveva colto di sorpresa lo scià e i suoi generali. Il Regno Corasmico era protetto da una serie di difese naturali, tra cui il deserto del Kyzylkum, apparentemente invalicabile, e le montagne del Tien Shan. Lo Scià pensava che queste barriere avrebbero rallentato lo schieramento di Gengis, dandogli il tempo di difendere i punti chiave di accesso.

Invece, Gengis aveva ordinato al figlio maggiore, Jochi, e ad un generale esperto di nome Jebe di attraversare la catena del Tien Shan e irrompere nella Valle di Fergana. La loro missione era quella di evitare una battaglia campale, ma devastare e bruciare quanti più campi possibile, rimanendo fuori portata dal nemico e facendo generalmente infuriare le forze persiane che cercavano di affrontarli. Nel frattempo, Gengis aveva concentrato le sue forze principali alla periferia settentrionale del confine persiano e messo sotto assedio la città di Otrar.

A questo punto, l’esercito mongolo era diviso in due gruppi principali: uno con il compito di mettere a ferro e a fuoco la Valle di Fergana e l’altro che stava assediando la città di Otrar nel nord. Questi due corpi si erano ulteriormente suddivisi. Nella Valle di Fergana, Jochi aveva portato una parte dell’esercito ad ovest, verso il fiume Syr Drya, mentre Jebe si era spostato a sud. Anche il corpo principale a nord si era diviso: una forza più piccola comandata da altri due figli di Gengis, Chagatai e Ogedei era rimasta ad Otrar per portare a termine l’assedio della città; la parte più consistente dell’esercito – sotto il comando personale di Gengis, apparentemente, era scomparsa.

Lo Scià comandava forze numericamente superiori e aveva il vantaggio di combattere sul proprio territorio, ma la dispersione delle forze mongole in tutto il suo regno lo aveva quasi completamente paralizzato. Con almeno quattro grandi eserciti mongoli che operavano in modo indipendente all’interno dei suoi confini e nella più totale oscurità riguardo alle loro intenzioni, lo scià era bloccato dal punto di vista operativo e non poteva offrire altro che una resistenza passiva all’interno delle mura delle sue città. L’esercito corasmico, più numeroso, era diventato un partecipante completamente passivo alla guerra, incapace di manovrare o di intraprendere una qualsiasi azione proattiva. I Mongoli, sebbene in inferiorità numerica, sembravano essere ovunque.

Tuttavia, il corpo più numeroso dell’esercito mongolo era irreperibile. Dov’era Gengis? Nel marzo del 1220 era apparso all’improvviso nelle retrovie persiane, fuori dalla città di Bukhara. Il Khan aveva attraversato l’impervio deserto del Kyzylkum, saltando da un’oasi all’altra e percorrendo un arco di 300 miglia per prendere Bukhara completamente di sorpresa.

La fine non aveva tardato ad arrivare. Bukhara era rapidamente caduta e le forze mongole disperse si erano rapidamente concentrate sulla capitale dello scià, a Samarcanda, dove erano riunite le riserve persiane. In un finale drammatico, Gengis aveva finto di ritirarsi di fronte alle formidabili fortificazioni della capitale e aveva massacrato l’esercito difensore quando questo era uscito allo scoperto per inseguirlo.

1. Le forze mongole al comando di Jebe e Jochi irrompono nella Valle di Fergana e iniziano una campagna di devastazione, evitando lo scontro diretto con le forze persiane.

2. La forza mongola principale lascia l’accampamento di Gengis a nord del lago Balkhash e assedia la città di Otrar.

3. Gengis stacca il corpo principale da Otrar e attraversa il deserto di Kyzylkum, arrivando alle spalle dello scià e catturando Bukhara.

4. Tutti e quattro i corpi mongoli convergono sulla capitale dello scià e distruggono ciò che resta dell’esercito persiano.

In meno di sei mesi, Gengis aveva completamente distrutto un impero enorme e stabile con eserciti di gran lunga superiori ai suoi. Dopo la caduta di Samarcanda, tutto era finito in una caccia all’uomo per inseguire lo scià in fuga e in una piacevole passeggiata attraverso il resto del regno distrutto, saccheggiando le città una dopo l’altra. La forza militare dell’Impero era stata distrutta.

La genialità operativa della campagna di Gengis contro lo scià è difficile da sottovalutare. Il teatro era di oltre 250.000 miglia quadrate. Da Bukhara all’area di sosta di Gengis a nord del lago Balkhash ci sono quasi 800 miglia. Attraverso questa vasta distanza, utilizzando niente di più sofisticato di un sistema di bandiere di segnalazione e corrieri, i Mongoli erano stati in grado di coordinare quattro grandi corpi militari, paralizzando completamente le armate dello Scià con la loro mobilità e precisione, prima di convergere e assestare il colpo di grazia alla capitale.

La tecnologia degli eserciti mongoli – l’arco ricurvo e il robusto cavallo mongolo – sono ormai solo un ricordo storico, ma la brillante dimostrazione di dispersione, ambiguità operativa e manovra è senza tempo ed è lecito chiedersi se sia mai stata superata. Ciò che Gengis con questa campagna magistrale aveva dimostrato, in eterno, è il potere della manovra dispersiva di paralizzare intellettualmente il nemico. L’impero dello Scià era stato distrutto senza che il suo esercito avesse mai tentato una sola azione proattiva. Era un modo sconcertante, disorientante, quasi ultraterreno di morire: non c’è da stupirsi che molti dei nemici di Gengis credessero che fosse venuto dall’inferno per punirli.

Il capolavoro quasi senza spargimento di sangue di Napoleone

Napoleone Bonaparte è considerato da tutti come una delle più grandi menti militari della storia. Ma cosa c’era nel suo sistema di guerra da renderlo così efficace? Era qualcosa di sistematico, qualcosa che poteva essere copiato? Oppure Napoleone era semplicemente dotato di quell’indefinibile e inimitabile dono del genio? Certo, Napoleone aveva delle incredibili doti: una memoria prodigiosa che rasentava la fotografia, una rapidità decisionale e una padronanza istintiva, praticamente preternaturale, della situazione sul campo di battaglia. Ma il successo di Napoleone come leader militare non era dovuto solo alle sue doti di comandante sul campo di battaglia, ma anche alla sua riprogettazione e ristrutturazione dell’esercito francese. Napoleone era stato in grado di gestire in modo magistrale un esercito in azione, un esercito che però lui stesso aveva ristrutturato in una forza più potente a livello organizzativo. Nel suo caso, genio, dottrina e armi lavoravano in sinergia.

Nelle prime fasi delle guerre della Rivoluzione Francese, la Francia repubblicana aveva schierato eserciti massicci e ipertrofici che tendevano a sopraffare i nemici grazie alla sola massa umana. Si trattava degli eserciti della leva di massa, costituiti con la mobilitazione di quasi tutta la popolazione maschile giovane. Questa schiacciante quantità di massa umana in armi aveva difeso con successo la Francia, ma era troppo grande, indisciplinata e poco maneggevole per essere la base di un sistema militare permanente e, in ogni caso, è improbabile che una nazione perennemente mobilitata potesse essere socialmente o economicamente stabile. Il lato positivo, tuttavia, era che un esercito così massiccio rendeva praticamente obbligatorie alcune modifiche allo schema organizzativo.

Dopo la sua ascesa al potere, Napoleone aveva iniziato un rinnovamento organizzativo dell’esercito, creando la sua famosa Grand Armee. L’innovazione principale era stata la suddivisione dell’esercito in unità note come corpi d’armata. Il corpo d’armata era un brillante sviluppo organizzativo: una forza, di solito di circa 30.000 uomini, con le proprie componenti di cavalleria e artiglieria. Le dimensioni e la composizione del corpo d’armata lo rendevano autosufficiente, in grado di combattere da solo, se necessario, pur essendo abbastanza piccolo da poter manovrare a grande velocità e vivere di ciò che poteva offrire il territorio. I corpi d’armata napoleonici potevano vivere in gran parte autosostentandosi (in realtà, requisendo o rubando cibo ai civili delle zone in cui operavano), eliminando la necessità di ingombranti carovane di rifornimento e lasciando liberi i corpi d’armata di avanzare rapidamente; durante una marcia forzata, un corpo d’armata poteva percorrere fino a trenta miglia al giorno – una velocità davvero impressionante per una formazione così grande.

L’ordine di battaglia della Grand Armee (Credito: Thomas Shoffner, US War College)

È difficile capire quanto fosse rivoluzionario il corpo d’armata. Prima di Napoleone, gli eserciti europei non avevano praticamente mai avuto formazioni permanenti più grandi di un battaglione e non era mai esistita una formazione sistematica di armi combinate. Non è esagerato dire che il moderno ordine di battaglia è stato inventato da Napoleone. Nel suo tentativo di snellire l’ipertrofico esercito rivoluzionario, aveva messo a punto, per la prima volta, l’unità di manovra bilanciata di armi combinate, equipaggiata per qualsiasi tipo di evenienza sul campo di battaglia, abbastanza grande e forte da avere un peso reale in combattimento, ma abbastanza snella da potersi muovere in velocità e nutrirsi di ciò che offriva il territorio.

In sostanza, i corpi d’armata di Napoleone erano le unità perfette per una guerra di manovra. Potevano muoversi rapidamente e in modo indipendente attraverso il territorio e, se un singolo corpo incontrava una forza nemica, era abbastanza grande da poter resistere da solo mentre gli altri corpi convergevano sul campo di battaglia in suo soccorso. Questa capacità di disperdere grandi unità, manovrarle sul territorio e poi riunirle per lo scontro decisivo era il fondamento delle operazioni di Napoleone – una ricetta semplice ma potente che è stata riassunta come “marciare divisi, combattere uniti.”

Il sistema dei corpi d’armata della Grand Armee era stato messo alla prova per la prima volta sul campo nel 1805, con lo scoppio della Guerra della Terza Coalizione. Un’alleanza composta da Gran Bretagna, Austria e Russia aveva dichiarato guerra a Napoleone, con l’obiettivo di riportare la Francia ai suoi confini pre-rivoluzionari. Napoleone aveva ideato una rapida campagna contro l’Austria, per distruggere il più rapidamente possibile l’esercito austriaco – o addirittura estromettere Vienna dalla guerra – prima che le armate russe potessero essere schierate in Europa centrale. Questo sarebbe stato lo scenario per una straordinaria dimostrazione della potenza e della velocità della Grand Armee.

All’apice dei suoi poteri

Nell’autunno del 1805, l’obiettivo dell’Austria era principalmente quello di prendere tempo. Consapevoli della pericolosità di Napoleone, i comandanti austriaci non erano certo ansiosi di precipitarsi in uno scontro sfavorevole. La loro idea era piuttosto quella di impedire a Napoleone di penetrare in profondità nel cuore dell’Impero Asburgico, in attesa dell’arrivo degli alleati russi. Le armate austriache erano state schierate lungo diversi assi, considerati probabili per un attacco francese. Una di queste forze (un esercito di oltre 70.000 uomini) difendeva la città di Ulm, sotto il comando del generale Karl Mack, con l’obiettivo di bloccare un’avanzata francese direttamente da ovest verso la Baviera.

Mack riteneva che i Francesi intendessero avanzare su un asse diretto est-ovest. Napoleone aveva teso un perfetto inganno militare, mostrando al nemico ciò che si aspettava di vedere. Una grande forza di cavalleria, sostenuta da un intero corpo d’armata, era stata inviata in pompa magna ad ovest di Ulm, con il compito di frazionarsi in numerose formazioni, muoversi senza cercare di occultarsi e facendo letteralmente il maggior rumore possibile per dare l’impressione di una grande attività. Gli esploratori di Mack si erano così convinti che un grande esercito francese stesse marciando verso est. Questo sembrava confermare il sospetto di Mack che Napoleone stesse avanzando da ovest e avvalorava la sua decisione di raggruppare le forze intorno a Ulm.

Nel frattempo, Napoleone aveva schierato cinque corpi d’armata a nord-ovest, unità che ora erano pronte a mostrare la loro combinazione di mobilità e potenza di combattimento. Il 28 settembre, il corpo principale francese aveva iniziato una rapida marcia verso sud-est, in direzione del fiume Danubio, ad est di Ulm. L’8 ottobre, il V corpo d’armata di Napoleone aveva combattuto una breve schermaglia con le forze austriache a Wirtingen, una città a 30 miglia a est di Ulm, nelle retrovie austriache. Mack, dopo aver inutilmente inviato esploratori in diverse direzioni, era rimasto quasi completamente paralizzato dall’incertezza. Era vagamente consapevole di essere sul punto di essere circondato, ma non riusciva a decidere una potenziale via di fuga. La dispersione del corpo d’armata francese aveva creato (sapete cosa sto per dire) un’ambiguità che aveva lasciato Mack in un circolo vizioso di dubbio e confusione.

Guerre napoleoniche = un sacco di strada a piedi

Napoleone, avendo marciato direttamente nelle retrovie austriache, non capiva bene cosa stesse facendo Mack, soprattutto perché Mack non stava facendo nulla. Ancora il 13 ottobre, Napoleone non si rendeva conto che gli Austriaci erano rimasti ancorati alla città di Ulm: pensava che si fossero ritirati a sud, attraverso il Danubio. Era così sicuro che gli Austriaci avessero abbandonato Ulm che aveva ordinato al maresciallo Ney di attraversare Ulm con il suo VI Corpo e inseguire gli Austriaci verso sud. Solo dopo che Ney si era imbattuto più o meno nell’esercito languente di Mack e ne era stato respinto, Napoleone si era reso conto che l’intera forza austriaca era rimasta parcheggiata a Ulm.

Dopo essersi finalmente reso conto che Mack era stato paralizzato dalla sua rapida avanzata verso le retrovie, Napoleone aveva velocemente chiuso la trappola. Il 16 ottobre Ulm era sotto bombardamento e l’accerchiamento dell’esercito austriaco era ormai praticamente completo. Dopo un breve tentativo di prendere tempo negoziando, il 20 ottobre Mack si era arreso con quasi tutte le sue forze.

1. Mack aveva fatto stazionare il suo esercito, forte di 70.000 uomini, intorno a Ulm, dopo che i movimenti diversivi del V Corpo d’armata e della Riserva di cavalleria francesi lo avevano convinto di un’avanzata diretta dei Francesi verso est.

2. Napoleone fa marciare 5 corpi d’armata da nord-ovest e inizia ad attraversare il Danubio a est di Ulm. Entrambe le parti sono confuse dal punto di vista operativo: Mack è disorientato dall’avanzata di Napoleone e Napoleone crede che Mack si sia ritirato verso sud.

3. Il VI corpo d’armata di Ney conferma che Mack è ancora a Ulm e Napoleone chiude la rete.

La campagna di Ulm era stata uno dei più grandi successi militari di Napoleone. In poco più di tre settimane, era riuscito a distruggere un intero esercito austriaco di oltre 70.000 uomini senza dover combattere una vera battaglia. I pochi combattimenti che si si erano verificati erano stati poco più di una serie di scaramucce. Le perdite francesi durante l’intera campagna erano state poco meno di 6.000 uomini, la maggior parte dei quali feriti e non uccisi. Naturalmente, Napoleone e la sua Grand Armee avrebbero probabilmente sconfitto in modo decisivo in una battaglia campale le forze di Mack, che erano in inferiorità numerica, ma questo sarebbe stato costoso in termini di vite, tempo e slancio. Invece, i Francesi avevano costretto alla resa un’intera armata attraverso la dispersione e la manovra. L’arma chiave a Ulm erano stati i piedi della Grand Armee.

La rapida manovra di Ulm era stata una brillante dimostrazione del potere derivante dai vantaggi organizzativi della Grand Armee. Il sistema dei corpi d’armata aveva dato ai Francesi un enorme potere di manovra; non solo erano in grado di muoversi più velocemente e arrivare più lontano, ma la dispersione dei corpi d’armata e i loro assi di avanzata indipendenti rendevano molto difficile determinare le loro intenzioni. Mack non era un comandante particolarmente dotato e le modeste capacità che possedeva erano state totalmente sopraffatte dalla repentina avanzata francese nelle sue retrovie. Aveva trascorso la maggior parte della campagna di Ulm in uno stato di totale confusione, finché Napoleone non aveva misericordiosamente stretto il cappio intorno al suo esercito, imponendogli la resa. Mack, come lo Scià, era stato semplicemente sopraffatto cognitivamente dal sovraccarico di informazioni su un nemico che poteva essere ovunque. Fortunatamente, a differenza dello Scià, dopo la resa era stato trattato con onore e non inseguito dai cavalieri mongoli.

Con l’esercito di Mack cancellato dal campo, Napoleone aveva la strada spianata verso Vienna. All’inizio di novembre avrebbe conquistato la capitale austriaca e la guerra si sarebbe presto intensificata in una serie di battaglie cruciali, tra cui Austerlitz, Jena-Auerstedt e Friedland. Mentre queste ultime battaglie sarebbero diventate famose come alcune delle vittorie più iconiche di Napoleone, probabilmente il risultato più impressionante era stato quello di Ulm, che non era però stata una battaglia. Si era trattato piuttosto di una vittoria di manovra così completa che gli Austriaci non erano stati in grado di contestarla con un combattimento vero e proprio. Forse la più grande battaglia di Napoleone era stata quella che non aveva dovuto combattere.

Il pezzo forte di Von Moltke

Napoleone potrà anche non essere uscito vittorioso dalle lunghe e sanguinose guerre che portano il suo nome, ma, anche nella sconfitta, era rimasto una figura militare titanica e un punto di riferimento per i pianificatori che cercavano di prepararsi alle guerre future – in modo particolare i Prussiani. La Prussia era uscita dalla guerra con l’ego ammaccato, dopo essere stata completamente sconfitta dalle forze napoleoniche nel 1806. Visto che lo Stato prussiano, più di tutti i suoi concorrenti, traeva legittimità come grande potenza dalla sua abilità militare, le guerre napoleoniche avevano dato il via ad un periodo di ricerca e di riforme che aveva portato alla creazione dello Stato Maggiore prussiano e del corpo degli ufficiali, con il suo rigoroso programma di istruzione. Queste istituzioni sarebbero sopravvissute fino alla caduta dell’Impero hitleriano.

Era stato in quell’epoca post-napoleonica che il sistema militare prussiano aveva vissuto il suo periodo d’oro. La Prussia aveva infatti combattuto e vinto importanti guerre contro l’Austria e la Francia, ed entrambe le vittorie erano state fulminee, con risultati strepitosi sul campo di battaglia. È, sempre durante il XIX secolo, la Prussia aveva prodotto i suoi intellettuali militari più rappresentativi, come Clausewitz, Scharnhorst e il più grande di tutti i generali prussiani, Helmuth von Moltke il Vecchio, che aveva guidato l’establishment militare prussiano attraverso le sue guerre più importanti e l’unificazione della Germania, diventando la controparte militare del grande Otto von Bismarck.

Helmuth von Moltke – l’uomo di sangue e di ferro

Moltke era vissuto in un’epoca di rapidi cambiamenti: le istituzioni militari non solo avevano cercato di digerire e sistematizzare le lezioni delle guerre napoleoniche, ma anche di adattarsi alle nuove tecnologie, come i proiettili d’artiglieria esplosivi, i fucili e, soprattutto, la ferrovia. Moltke aveva capito che le guerre stavano diventando così complesse e così grandi che non potevano più essere gestite ad hoc, come aveva fatto Napoleone. Lo spazio di battaglia stava diventando troppo complesso perché un singolo uomo – anche un genio – potesse dare un’occhiata alla mappa e dedurre all’istante dove sferrare il colpo di grazia. Anche un genio aveva bisogno di ufficiali, di quartiermastri, di orari ferroviari e di un vasto apparato logistico. La guerra – in particolare il movimento di truppe e materiali su rotaia – richiedeva una pianificazione sempre più dettagliata e complicata; ma ai piani si contrapponeva una situazione operativa in continuo cambiamento.

Moltke lo aveva riassunto dicendo: “Nessun piano di operazioni si estende con certezza oltre il primo contatto con la principale forza ostile” – spesso parafrasato semplicemente: “Nessun piano sopravvive al primo contatto con il nemico.” Forse questo è il più famoso aforisma militare prussiano che non proviene da Clausewitz. Era fondamentale avere un piano, ma altrettanto fondamentale non essere troppo attaccati ad esso.

La guerra austro-prussiana, scoppiata nel giugno 1866, aveva preoccupato non poco gli osservatori. L’ultima guerra tra grandi potenze in Europa – la guerra di Crimea – era durata quattro anni e aveva causato mezzo milione di vittime. Questa volta l’intensità minacciava di essere ancora maggiore, con armi potenziate come il famoso cannone ad ago Dreyse della Prussia e le ferrovie che consentivano di schierare e rifornire eserciti sempre più numerosi. Pochi sospettavano che la guerra sarebbe finita entro la fine di luglio o che la Prussia avrebbe subito meno di 5.000 morti sul campo di battaglia.

Moltke aveva iniziato la guerra con una fantastica rottura della tradizione militare prussiana. Mentre i Prussiani avevano sempre enfatizzato lo schwerpunkt e la concentrazione della massa combattente, Moltke aveva iniziato la guerra con le sue armate disperse. Le forze prussiane erano organizzate in tre armate: la Prima e la Seconda Armata, ciascuna con più corpi d’armata nel loro ordine di battaglia, e l’”Armata dell’Elba”, che, in realtà, era solo poco più un singolo corpo d’armata con un nome di fantasia. Moltke, a causa della pressione sulle linee ferroviarie e delle dimensioni del possibile fronte, aveva ritenuto di non poter concentrare le armate in un unico pacchetto d’attacco e le aveva invece mobilitate in punti di partenza dispersi su una distanza di oltre 200 miglia.

Il piano operativo di Moltke era geniale, in quanto riusciva a creare un potente schema operativo che era, allo stesso tempo, semplice e flessibile. L’Elba e la 1a Armata dovevano entrare in Boemia da ovest e da nord, mentre la 2a Armata scendeva da nord-est. Poiché Moltke non sapeva esattamente dove si sarebbe concentrata l’armata austriaca, le sue tre armate dovevano semplicemente muoversi l’una verso l’altra in modo concentrico: chi trovava per primo la massa nemica doveva attaccarla e cercare di tenerla in posizione mentre le altre armate convergevano per distruggerla. Il pericolo – e il motivo per cui molti ufficiali isi erano opposti allo schema di Moltke – era che gli Austriaci avrebbero potuto concentrare il loro esercito, catturare una singola armata prussiana e distruggerla prima che le altre arrivassero in suo soccorso.

In effetti, l’esercito austriaco all’inizio della guerra, si era concentrato in un’unica massa creando il classico dilemma di concentrazione contro dispersione. Il comandante austriaco, Ludwig Benedek, comandava un potente raggruppamento di sette corpi d’armata completi, una forza di oltre 240.000 uomini che superava di gran lunga qualsiasi armata prussiana (la 1a Armata aveva 93.000 uomini, mentre l’Armata dell’Elba ne aveva appena 46.000).

Sfortunatamente per gli Austriaci, Benedek non era riuscito a decidere cosa fare con questa formidabile forza. Il suo schieramento iniziale aveva ammassato le forze nella parte orientale del teatro, dove aveva due opportunità potenzialmente letali: invadere la Prussia direttamente attraverso varco tra la 1ª e la 2ª Armata, oppure attaccare la 2ª Armata mentre era da sola e non supportata. Alla fine, non aveva scelto nessuna delle due opzioni: preoccupato dalle notizie che i Prussiani si stavano muovendo in Boemia sul suo fianco occidentale, aveva invece fatto avanzare l’intera armata verso ovest per affrontarli, rinunciando ad un’opportunità importante e mettendo a dura prova la propria logistica.

Concentrazione contro dispersione

Le prime fasi della guerra erano state caratterizzate da una serie di battaglie di scoperta – combattimenti innescati da due parti che più o meno si incontravano per caso. In genere si trattava di singoli corpi d’armata austriaci che si imbattevano nei Prussiani che vagavano in Boemia. In tutti questi scontri, gli Austriaci avevano avuto quasi sempre la peggio. Il loro approccio preferito di cariche d’urto si era rivelato assai costoso di fronte ai cannoni ad ago della Prussia, che potevano sparare fino a 6 colpi al minuto. In alcuni di questi scontri, le perdite austriache erano state addirittura cinque volte superiori a quelle della Prussia. Tuttavia, le forze austriache erano rimaste intatte e, poiché le forze avversarie avevano perso i contatti tra loro dopo l’interruzione della battaglia, Benedek era stato in grado di riconsolidare la sua massa, trincerandosi in una posizione difensiva vicino alla città di Koniggratz, sul fiume Elba.

I Prussiani avevano finalmente localizzato il concentramento della forza austriaca il 2 luglio, quando la cavalleria della 1ª Armata si era inaspettatamente avvicinata alla posizione austriaca. Il comandante della 1ª Armata, il principe Federico Carlo, da classico militare prussiano, aveva deciso così di sferrare l’attacco il mattino seguente, nonostante la forte inferiorità numerica, inviando un messaggio a Moltke per informarlo.

Moltke era stato svegliato nel cuore della notte con la notizia che la massa austriaca era stata localizzata. Secondo quanto riferito, aveva gridato “Dio sia lodato!” e si era alzato dal letto. Aveva immediatamente ordinato a Federico Carlo di attaccare al più presto con tutto ciò che aveva, ordinando alla 2a Armata di marciare sul posto alla massima velocità. Poi lui e il re si erano precipitati a supervisionare la battaglia di persona.

La drammaticità della scena successiva era stata davvero impressionante. L’attacco prussiano era iniziato alle 8 del mattino sotto una pioggia battente: la 1ª Armata, in inferiorità numerica, era partita all’assalto contro una forza austriaca trincerata, mentre l’Armata dell’Elba attaccava sul fianco occidentale gli alleati sassoni dell’Austria. La battaglia, fino dalle prime battute, aveva iniziato ad andare male per la Prussia: l’artiglieria austriaca, che sparava da una posizione elevata, aveva colpito i cannoni prussiani in un’azione di controbatteria e la fanteria prussiana si era subito impantanata.
Il re, Guglielmo, sapeva riconoscere un disastro quando lo vedeva. “Moltke, Moltke, stiamo perdendo la battaglia!,” aveva gridato. Moltke, pienamente al comando, aveva risposto con calma: “Vostra Maestà oggi vincerà non solo la battaglia, ma anche la campagna.

Re Guglielmo e Moltke osservano lo svolgimento della battaglia a Koneggratz – “Moltke, Moltke, stiamo perdendo la battaglia!

L’attacco prussiano si era effettivamente arenato. La Prima Armata aveva inflitto pesanti perdite agli Austriaci, ma era rimasta bloccata in combattimenti posizionali, con l’artiglieria austriaca che la martellava duramente. Poi, a mezzogiorno, la Seconda Armata era arrivata sul fianco destro austriaco.

Con la totalità delle forze di Benedek rivolte in avanti in uno scontro diretto con la 1ª Armata prussiana, la 2ª Armata, appena arrivata, era stata in grado di caricare direttamente sulla linea austriaca, prendendo d’assalto le batterie d’artiglieria austriache e persino irrompendo nel quartier generale di Benedek. Il comandante austriaco non era però presente in quel momento, essendo uscito per ispezionare le posizioni avanzate. Aveva liquidato come “sciocchezze” la notizia che il suo quartier generale era pieno di fucilieri prussiani. Ma non si trattava di sciocchezze e, in effetti, il suo esercito si stava disintegrando sotto un colpo colossale direttamente al suo fianco. Nel tardo pomeriggio, tutto era finito e i soldati austriaci erano in piena e caotica fuga verso Koniggratz.

  1. La 1ª Armata prussiana sferra un attacco frontale immediato all’esercito austriaco. I prussiani sono impantanati e non riescono ad avanzare, ma bloccano gli austriaci e orientano tutte le loro forze in avanti.

2. La 2ª Armata prussiana si mette in marcia forzata verso il campo di battaglia e si lancia sul fianco aperto dell’Austria. I prussiani attraversano direttamente la posizione austriaca e raggiungono le batterie posteriori e la postazione di comando e controllo.

3. L’Austria e i suoi alleati sassoni si gettano in una fuga generale verso Koniggratz.

La battaglia era stata una delle migliori di Moltke – e della Prussia – e riflette il fatto che Moltke era entrato in guerra con uno schema concettuale, piuttosto che con un piano rigido. La sua idea era quella di muovere le sue armate in modo indipendente da punti di partenza molto dispersi, farle convergere l’una verso l’altra e scoprire la massa austriaca da qualche parte nella rete. Una volta individuata, l’armata che entrava in contatto avrebbe attaccato immediatamente e tenuto in posizione l’avversario, mentre l’altra armata arrivava a caricarlo sul fianco.

Non era stato previsto che la 1ª Armata bloccasse gli Austriaci vicino a Koniggratz in modo che la 2ª Armata potesse attaccarli sul fianco. Il risultato avrebbe potuto essere quello di bloccare la 2ª Armata vicino a Žamberk, a est, mentre la 1ª Armata avrebbe potuto sferrare l’attacco decisivo. Non importava. Ciò che contava era l’abile e intenzionale movimento delle armate disperse in modo concentrico, che le faceva avvicinare sempre di più al centro, come i cacciatori mongoli in una delle loro grandi battute di caccia.

L’attacco decisivo sul fianco da parte della 2a Armata si era tradotto in un bilancio di perdite estremamente sbilanciato. L’insieme delle forze austriache e sassoni perso più di 44.000 uomini, in un’azione che era costata alla Prussia appena 9.000 vittime in totale, di cui meno di 2.000 uccise. La frantumazione dell’Esercito austriaco del Nord aveva inoltre segnato l’esito generale della guerra e, dopo qualche altro scontro minore, gli Austriaci avevano firmato la Pace di Praga, che aveva posto fine, dopo molti secoli, alla posizione dominante degli Asburgo sulla Germania. Avendo precedentemente perso la loro influenza in Italia a causa dell’unificazione di quel Paese, gli Asburgo erano ora bloccati fuori dalle due regioni in cui avevano precedentemente esercitato una forte influenza. Cercando un’affermazione imperiale altrove, si sarebbero espansi nei Balcani, finendo per acquisire una pseudo-colonia in Bosnia: un esperimento disastroso che si sarebbe concluso con l’assassinio dell’erede asburgico a Sarajevo.

Per quanto riguarda Moltke, aveva dato un’ottima dimostrazione di come gestire l’arte della guerra in continua evoluzione, utilizzando la ferrovia e il telegrafo per dirigere abilmente eserciti separati da ampie distanze in una spietata morsa d’acciaio. Un’esibizione di comando e controllo che ha fatto epoca.

Sommario: Dispersione e movimento

Nella prima puntata di questa serie abbiamo esaminato la potenza della massa concentrata che attua manovre di fiancheggiamento e attacchi concentrici. Come abbiamo notato, tuttavia, la concentrazione di forze è inequivocabile: può essere una grande forza d’urto ma anche un grande bersaglio. La dispersione, invece, offre la promessa di un movimento ambiguo che nasconde le intenzioni e disorienta il nemico, rendendolo incapace di una risposta pratica o decisiva.

I praticanti dell’arte delle operazioni disperse, per eccellenza, restano i Mongoli. Come nomadi a cavallo, erano in grado di muoversi ad alta velocità praticamente ovunque ci fosse erba e operavano senza linee di rifornimento, mentre le loro abilità pastorali e di caccia, uniche nel loro genere, li rendevano capaci di coordinare le loro manovre senza alcuna tecnologia di comando e controllo. L’invasione dell’Impero Corasmiano da parte di Gengis rimane un esempio senza tempo del potere disorientante e paralizzante di un esercito che avanza in formazioni indipendenti su un fronte ampio e disperso. Nonostante la notevole inferiorità numerica dei Mongoli, erano stati i Corasmiani ad essere disorientati e sopraffatti.

Gli eserciti successivi non avevano più avuto la disinvolta mobilità di quelli mongoli, dipendenti come erano dalle linee di comunicazione e di rifornimento, ma Napoleone aveva reintrodotto la manovra audace e dispersiva organizzando il suo esercito in corpi d’armata combinati e autosufficienti, che potevano muoversi ad alta velocità lungo linee di avanzata indipendenti. A Ulm, aveva dimostrato la potenza operativa di tali movimenti costringendo alla resa un intero esercito austriaco, praticamente senza spargimento di sangue. Cinquant’anni dopo, Moltke aveva operato il suo capolavoro, dimostrando la raffinatezza dei metodi napoleonici, schiacciando gli Austriaci (di nuovo, povere anime) con una dimostrazione senza età di movimento concentrico.

Gengis, Napoleone, Moltke.

Samarcanda, Ulm, Koniggratz.

Tre maestri, tre capolavori.

Big Serge

Fonte: bigserge.substack.com
Link: https://bigserge.substack.com/p/the-history-of-warfare-maneuver-part
10.11.2022
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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