Bompiani, Milano 2022, pagg. 133 € 15
E’ in libreria il nuovo romanzo del nostro redattore Mauro Baldrati, ambientato a Parigi nel 1894. L’anziana baronessa Veronique Fourier, vedova di un giovanissimo generale aiutante di campo di Napoleone, vive sola in un grande palazzo deserto e semibuio, ostaggio dei suoi ricordi e della sua malinconia. Gli unici appigli a una vita ancora attiva sono i rari inviti che riceve dalle mesdames dei salon mondani. Durante uno di questi pranzi viene avvicinata da un ragazzo, bello, elegante, prodigo di complimenti fino alla piaggeria, che le chiede un’intervista per un saggio che intende scrivere su Baudelaire. Quel ragazzo è Marcel Proust. Inizia un ciclo di incontri sui quali aleggia il personaggio enorme, folle e disperato di “Charlie” Baudelaire, che cambieranno per sempre la sua vita. Di seguito pubblichiamo un estratto del capitolo “Giorno di ricevimento”, che racconta il primo incontro tra Veronique e il giovane Marcel Proust.
* * *
Il ragazzo si girò di scatto, quando udì lo sfregamento della tenda. Si stringeva nel cappotto, sembrava preoccupato, spaventato quasi.
“Avete freddo monsieur?” chiese Veronique.
Il suo interlocutore mosse la testa a destra e a sinistra, e anche in alto, come per trovare sollievo dalla sciarpa di lana bianca che lo stringeva fino alle orecchie.
“In effetti sono molto sensibile alle correnti d’aria. Vi prego di scusarmi, madame.”
“Avvertite una corrente? Non mi stupisce, in questo vecchio palazzo dei fantasmi. Ora farò accendere una stufa da Jacques.”
La sala era riscaldata da due monumentali stufe di maiolica altoatesina, poste alle estremità del locale. Stava per chiamare il suo anziano domestico tuttofare, ma il giovane la fermò con un gesto della mano.
“Vi prego di non disturbarvi madame. Soffro d’asma, e se la stufa nell’accendersi sprigionasse fumo il mio respiro peggiorerebbe.”
Il giovane, mentre si sistemava sul divano, si sbottonò il cappotto. La baronessa notò che sotto indossava un’altra giacca, probabilmente di lana, abbottonata fin sotto al mento. Poi cercò di rilassarsi, benché ogni tanto lanciasse occhiate sospettose qua e là, soprattutto alle spalle, e frequentemente si sistemasse il cappotto, chiudendolo senza chiuderlo davvero coi bottoni. Sembrava voler ridurre la superficie corporea, implodere il suo volume.
Poi attaccò con una sequenza di ringraziamenti e di complimenti, esagerati come il giorno prima. C’era un che di erudito nei termini che usava, nella costruzione delle frasi; le ricordarono, chissà perché, le sonate del pianista Reynaldo. E aveva un modo di parlare che incantava. Le parole erano straordinariamente nitide, precise, scandite con una melodia senza sbavature. Lei era un modello di stile, di classe e di eleganza, e lui considerava un privilegio il fatto di essere in sua compagnia. Proprio lei, pensava Veronique, che si considerava una sopravvissuta, il relitto di un passato estinto.
Ma quel ragazzo, se manteneva i suoi modi esagerati, non era il giovane esuberante e allegro del pranzo. Tossiva, fu attraversato da qualche brivido, e forse aveva la febbre. In un momento difficile, quando la sua faccia sembrò implodere in un pallore mortale, glielo chiese.
“Vi sentite bene?”
Lui si portò una mano alla bocca, cercò di fare un respiro profondo, ma tossì di nuovo.
“Perdonatemi, madame, ma nel salone-serra di madame Lemaire i fiori fanno impazzire la mia asma, per cui devo somministrarmi una fiala di caffeina prima di entrare, e una dopo, quando esco, che non mi fanno dormire. E qui… sento la polvere.”
Veronique avvertì una scarica di dispiacere. Aveva ragione. Quello era un locale polveroso, per il semplice fatto che un giorno alla settimana di pulizia, per il quale aveva incaricato un’agenzia, non era sufficiente con tutti quei tappeti, i libri e i tendaggi. Si sentì in colpa. In qualche modo quei complimenti la caricavano di responsabilità. Come se quel giovane, con le sue lodi, le avesse costruito addosso un personaggio, e ora dovesse tenerlo in vita rispettandone l’immagine, coi relativi doveri.
“Dunque, madame… come vi dicevo sto lavorando a un saggio su Baudelaire.”
Lei aveva passato una parte della giornata immersa nei ricordi, per richiamare alla mente la figura del poeta, con la sua voce, i suoi modi. Soprattutto ricordava il suo aspetto, i suoi vestiti eccentrici. Iniziò a parlare sicura di sé, come se leggesse un intervento a lungo preparato, in realtà fluiva del tutto spontaneo.
“Certo. Io lo chiamavo Charlie. Sembrava stupito ogni volta che lo pronunciavo. Come se fosse in ascolto di un suono che si sprigionava da quel nome. Talvolta veniva da me vestito di bianco, o di nero. Voglio dire che ogni particolare del suo abbigliamento, dai lacci delle scarpe ai bottoni alle cuciture era di quel colore. E anche i guanti, aderentissimi, sui quali infilava gli anelli e i bracciali. Gli anelli avevano pietre di vari colori, che lui alternava secondo il colore dei guanti. Si incipriava con la polvere di riso e si truccava, come nel Settecento. Ogni dettaglio, anche minimo, era curato con precisione maniacale. Tuttavia… c’era anche qualcosa di sobrio nel suo aspetto, nulla a che vedere con l’immagine dell’artista selvaggio che iniziava diffondersi. Che lui peraltro detestava. La sua tenuta abituale, salvo quando era il personaggio nero, o bianco, era un soprabito scuro con pantaloni grigi, o nocciola, che lui sfregava con la carta abrasiva per togliere quella lucentezza del tessuto, che odiava.”
Il ragazzo sembrava avere dimenticato i suoi malanni. Ascoltava attento, con gli occhi puntati nei suoi, come schegge di granito nero, vigili, voraci. Il suo volto era immobile, come una maschera che esprimeva concentrazione, e turbamento. Quando la baronessa parlò dei guanti inanellati arcuò le sopracciglia, e le labbra si incresparono in un sorriso.
“Il nero gli piaceva molto. Quando arrivava in nero il suo umore sembrava cupo. Aveva la faccia incipriata, pallidissima…” Come la vostra, pensò Veronique fissando il giovane. “E le labbra erano corrette col rossetto. Non rideva, parlava pochissimo e qualunque cosa dicessi assumeva un’espressione di fastidio. Era irritato da tutto, gli oggetti, le altre persone, i discorsi, i fiori. Fastidio, o forse dovrei dire disprezzo, o entrambi.”
Il giovane aveva un quaderno sulle ginocchia, ma non aveva scritto una riga. Era come rapito dal racconto, in contemplazione del personaggio che la baronessa stava costruendo davanti a lui.
“E soffriva. Non ho mai visto nessuno soffrire come lui. Sembrava avvolto in una nube di disperazione che lo perseguitava. Ma lui la viveva col suo autocontrollo assoluto. Una volta, lo ricordo ancora come se fosse qui, disse: Ho una bandiera nera piantata sulla sommità del cranio. E un’altra, mentre si teneva la testa tra le mani: La mia mente è infestata da infami ragni che mi divorano.”
Il ragazzo, che sembrava molto colpito, appoggiò la penna sul foglio, ma la mano restò immobile. “Quindi che anno era?” chiese.
Quella mattina la baronessa aveva cercato di ricostruire i tempi degli incontri. Li confrontava con altri eventi, altri personaggi, abbinandoli a date che ricordava.
“Ci siamo incontrati su per giù il 1842, forse il 43.”
Il ragazzo socchiuse gli occhi. Sembrava fare calcoli a sua volta, o sognare altre epoche, altri stili.
“Quando era nero diceva di amare il tempo piovoso, il clima freddo, la neve, ma non il vento. Il soffio d’aria era un movimento eccessivo per lui. Tutto doveva essere immobile. Per cui il mare doveva essere piatto. Le onde lo infastidivano. E i fiori. Li odiava. Li trovava orrendi. Forse, diceva scherzando (ovvero con una smorfia sprezzante sulle labbra), solo i crisantemi erano sopportabili. Non parliamo del sole. Odiava uscire di casa col sole. Preferiva il cielo nuvoloso, meglio se di un grigio uniforme. Quando il tempo era brutto sembrava allegro, mentre col sole diventava cupo, e sgarbato.”
Il suo giovane ospite di nuovo non aveva scritto una parola. Mentre Veronique raccontava si proiettava in avanti, come per sentire meglio, e gli occhi si dilatavano, o si socchiudevano. Più di una volta si portò una mano alla bocca. Sembrava insaziabile di particolari, di dialoghi. Chiedeva continuamente se le recitava delle poesie.
“Certamente, ma non nei giorni neri. Mi avrebbe insultata se gliene avessi chiesta una. Le poesie, o le sue recite, perché recitava, sempre, salvo quando sembrava davvero sprofondare nella infelicità più abissale, erano per le giornate bianche. In bianco il suo personaggio usciva dall’oscurità e diventava persino allegro, forse perché nel periodo bianco mangiava e fumava l’hashish, talvolta l’oppio. Ma era un’allegria di maniera, esagerata e affettata, perché il suo stato d’animo abituale era la freddezza. Però non credo che la sua fosse solo una recita costruita. Secondo me Charlie si sentiva davvero quel personaggio, quel maledetto, quel poeta ispirato. Lo viveva fino in fondo, fino a diventarlo davvero.”